Cooperativa sociale che offre servizi di ascolto, orientamento, formazione, accoglienza rivolti a detenuti/e, ex detenuti/e e persone che vivono in condizione di disagio sociale.

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Guerra al crimine perenne

Di “guerra al crimine perenne” e di “controllo della droga come controllo di classe” ne parla il criminologo norvegese Nils Christie in un testo che forse può risultare un po’ datato oggi (seconda edizione del 1994) ma che mi pare tocchi alcuni punti fondamentali riguardo l’andamento del controllo del crimine degli stati “industrializzati” che oserei dire sembrano predittivi di quel che sta accadendo.

 

Il libro si chiama Il business penitenziario. La via occidentale al gulag.

 

Il criminologo parte da un presupposto che altre volte abbiamo affrontato su questo blogsu questo blog, anche se poco seriamente. Il crimine non esiste, o meglio, esso accade, dice Christie. 

Intanto c’è da dire che il crimine di per sé, così come entità arbitraria, non può esistere senza che sia commesso un atto e che a questo gli venga attribuito il significato di criminale.

Poi si può proseguire dicendo che più c’è distanza dalla persona che commette un atto criminale, più siamo inclini a pensare a questo atto come criminale e ad attribuire alla persona la categoria di criminale. Difficile detta così, ma il caro Nils ci fa un esempio: pensate ai figli. I nostri figli e quelli degli altri. Se un figlio ci ruba i soldi dal portafoglio o picchia suo fratello, lo additiamo come criminale?

No. Perché lo conosciamo, sappiamo il contesto per cui quel giorno ha fatto una cosa sbagliata.

 

Quando Christie scrive stava germogliando un po’ in tutto il mondo, ma soprattutto negli USA, la tendenza a quella che verrà chiamata poi l’incarcerazione di massa. Ergo, il numero delle persone detenute aumentano. E aumentano non di pari passo con l’aumentare della criminalità, perché, come lo studioso ci fa notare, i due fattori non sono necessariamente connessi. La guerra perenne contro il crimine è ciò che in qualche modo alimenta il numero degli ingressi in carcere, una guerra che diventa efficace proprio al fine di mantenere in vita l’industria del controllo del crimine.

All’aumento della disoccupazione, degli “inutili” sociali, corrisponde l’inquietante aumento delle incarcerazioni. Quelle mani oziose che rappresentano, dagli esordi degli stati industrializzati, un pericolo per l’ordine sociale perché dicono al sistema che è fallace e non funziona: l’esistenza delle persone disoccupate mette a rischio la moralità capitalistica che ci vuole sempre efficienti, oltre ad aumentare la possibilità dei conflitti interni.

 

E quando lo stato sociale è in crisi, quando le politiche assistenzialiste non bastano, come si controllano le classi pericolose?

Uno dei modi è la guerra alla droghe, un aspetto della guerra al crimine perenne che si esplica in maniera concreta con l’aumento significativo delle pene per i reati concernenti gli stupefacenti. Ed eccoci qui, in Italia. Nel 2025.

 

Leggiamo sull’ultimo rapporto di Antigone che al terzo posto dei reati maggiormente commessi dalle persone detenute nelle carceri italiane al 31 dicembre 2024, ci sono i reati legati alla “Legge droga”: 21.131 persone detenute.

 

Mi sembra riduttivo e banalizzante sputare questo dato così, ma è brutale l’ovvietà realistica di quel che 30 anni fa “prediceva” un criminologo dalla Norvegia.

Proseguendo il discorso sul controllo delle classi pericolose attraverso la guerra alle droghe, il nostro Nils spiega la terminologia che utilizza Spitzer nel 1977 per descrivere la condizione dei cosiddetti “rifiuti sociali” che sono assediati da un “movimento a tenaglia”:  

Vengono chiamati <<Pescecani della droga>> e vengono incarcerati per periodi eccezionalmente lunghi se importano o vendono più di quantità minime di droga.

[…] All’altro capo del movimento a tenaglia, ci sono le iniziative per imporre cure coercitive. 

Vi invito però a leggere il libro di Christie, ci dà molti spunti di riflessione. E se vi va, ci possiamo sempre confrontare sulle tematiche che affronta.

Entrare a Rebibbia femminile

ALESSIA

Entrare a Rebibbia femminile è stata un’esperienza nuova per me, oltre alla consegna degli assorbenti a giugno non ero mai stata in un carcere di donne ed era tanto che non entravo in carcere per i progetti in generale.

Corridoi e porte pesanti, blindate. Si muovono lente e ti lasciano con quel pensiero inquietante del chissà se mi ci schiacciano in mezzo passando. Alla fine è sempre lo stesso ambiente, anche se i posti cambiano. Magari cambiano i colori che dal rosso della Terza Casa, qui passano al blu. 

 

Giovedì 21 agosto siamo entrat3 a Rebibbia femminile, eravamo io e Francesco. 

Assorbire il cambiamento è il progetto inserito in POSTER: Oltre gli stereotipi, coordinato da AIDOS, che seguiamo ormai da due anni e che prevede, come si è scritto più volte in questi mesi, oltre che la raccolta di assorbenti, anche incontri laboratoriali in cui sostanzialmente si parla di ciclo mestruale

Si parla di mestruazioni, di sangue, di strategie di gestione, della scelta dei prodotti, del costo degli assorbenti, delle singole problematiche legate alle condizioni socio-economiche o biologiche che si possono incontrare nel vivere il ciclo mestruale. Fuori e dentro il carcere. 

 

A Rebibbia femminile come si vive il ciclo mestruale? 

Già qualcuna ne aveva parlato. L’anno scorso, Rosaria mi aveva detto che a molte il ciclo in carcere si blocca. Giovedì però quando siamo entrat3 a Rebibbia femminile ne abbiamo avuto ulteriore conferma. 

 

La carcerazione blocca il ciclo. Almeno a 8 persone su 9 incontrate. Nell’ascoltare quelle parole resto in silenzio, spiazzata. 

“A me non viene da 6 mesi”

“A me la scorsa carcerazione si è bloccato per tre, poi è ricominciato normale”

 

Non riesco a non pensare a come e quanto l’istituzione agisca sul corpo: secca le ovaie e arresta il flusso vitale. Come se il corpo, per primo, si proteggesse dall’impatto stravolgente dell’essere privato della libertà

E c’è stata poi chi ha raccontato di esperienze singolarmente negative, dovute a una gestione medica superficiale di problematiche ginecologiche personali che ha causato in alcuni casi la perimenopausa (a 33 anni). 

 

A tutto questo non c’è alcuna risposta. Nonostante pare il fenomeno sia ricorrente non se ne parla, o se lo si fa, se ne parla solo “fra di loro”. Così ha scritto una ragazza alla fine del laboratorio. S’impone quindi ai nostri occhi e alle nostre orecchie l’evidente necessità di dar attenzione e portare alla luce una realtà disturbante: in carcere il ciclo si blocca! E bisogna andare a fondo alla questione. 

 

Sono state queste le storie che ci siamo portat3 dietro da Rebibbia femminile giovedì scorso, sono tante le domande sorte, tante le sfide accolte. 

Alle donne incontrate a Rebibbia femminile, grazie per averci affidato le vostre problematiche mestruali. Capiremo cosa fare. 

 

Tornerò presto a raccontarvi di altri incontri e altri laboratori.

Relazione annuale della Garante dei diritti delle persone private della libertà personale di Roma Capitale

Lunedì 28 luglio al Palazzo Senatorio abbiamo seguito l’incontro di Valentina Calderone – Garante dei diritti delle persone private delle libertà personale di Roma Capitale – in cui è stata presentata la Relazione annuale. 

 

La drammatica situazione delle carceri romane viene fotografata dai numeri raccolti nella relazione. Una condizione di sovraffollamento insostenibile per Rebibbia e ancor di più per Regina Coeli: Calderone esordisce la presentazione ricordando che non è più possibile continuare a definire questo stato delle cose con il termine “emergenza”. L’evidenza del carattere strutturale delle problematiche che continuano a versarsi nelle quotidianità ristrette degli istituti di pena romani impone la ricerca e l’attuazione di nuove soluzioni.

 

Sono 4 gli Istituti presenti sul territorio di Roma Capitale:

  • Rebibbia
  • Regina Coeli 
  • Casal del Marmo – IPM
  • Ponte Galeria – CPR 

A questi si aggiungono anche gli istituti di Gjader in Albania, formalmente sotto il Comune di Roma e dunque, come ricorda la Garante, sotto supervisione sua e del Garante Regionale Stefano Anastasia. La casa circondariale di Gjader ha 24 posti e non è stata ancora utilizzata: “è una vera e propria succursale di Regina Coeli”. 

Il lavoro del 2024 della Garante e il suo staff è descritto nella relazione disponibile online al seguente link: Relazione annuale Garante Roma Capitale.

 

La figura: Garante dei diritti delle persone private della libertà personale

Questo ruolo viene istituito per la prima volta in Italia proprio a Roma con la delibera n.90 del 14 maggio 2003. Il primo a ricoprire questa figura è stato il Professor Luigi Manconi. Nello stesso anno viene istituita la figura del Garante regionale. 

«Il processo di nascita dei Garanti territoriali è stato un vero e proprio movimento dal basso e si inserisce in un contesto di soggetti che operano per la difesa civica, la tutela e la promozione dei diritti di chi si trovi in condizioni di svantaggio e di minore capacità di autonoma tutela e rappresentanza. Il processo per l’istituzione di figure di garanzia dei diritti delle persone private della libertà partito dalla città di Roma ha contribuito alla nascita, con il decreto legge n.146 del 23 dicembre 2013 convertito con modificazioni dalla legge 21 febbraio 2014, del Collegio del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, nominato per la prima volta nel 2016.»

Alcuni numeri: la piaga del sovraffollamento 

Nella Relazione annuale della Garante dei diritti delle persone private della libertà personale sono elencati e descritti tutti gli istituti di pena del territorio romano scritti sopra.

 

Struttura Capienza ufficiale Detenuti / persone presenti Anno di riferimento / data
Casa circondariale Regina Coeli 566 posti 1 092 detenuti dati al 30 giugno 2025 
Istituti Rebibbia Nuovo Complesso 1 170 posti 1 571 detenuti dati al 30 giugno 2025 
Rebibbia femminile 265 posti circa 369 detenute al 30 giugno 2025 
Casal del Marmo (minorile) 63 posti 63 minori (tra 14–25 anni) dato riportato nella relazione 2024 
CPR di Ponte Galeria (settore maschile) 104 posti (ridotti da 120) 1 133 transitati nel 2024; solo 168 rimpatriati dati sull’anno 2024
CPR di Ponte Galeria (settore femminile) 5 posti circa 45 donne transitate nel 2023 capienza 5 posti è l’unica per donne in Italia 
Centro di trattenimento Gjadër (Albania) 880 posti (trattenimento), 144 posti (CPR), 24 posti (carcere) non indicati numeri effettivi presenti struttura prevista dal protocollo Italia‑Albania 2024 

 

Il sovraffollamento è una piaga delle carceri italiane e un problema che non si risolve costruendone di nuove. Quando un carcere è sovraffollato, oltre alle condizioni igieniche sempre più precarie e alle difficoltà acuite del vivere in spazi sempre più stretti, sono tutte le promesse costituzionali sulla pena non punitiva a venir meno. Con un carcere sovraffollato non può funzionare bene un’infermeria, non c’è abbastanza personale nell’area educativa, sono più complesse e resi quasi impossibili i tentativi di progettazione. 

 

Magistrati in carcere per 15 giorni?

“Magistrati in carcere” sembra dire il disegno di legge Sciascia-Tortora dello scorso 30 giugno. Magistrati in carcere per 15 giorni e notti, prima di acquisire il potere di giudicare e condannare. In sostanza sembra dire: tu che con una sentenza puoi cambiare radicalmente la vita di una persona, devi prima sapere com’è quella vita ristretta. 

 

La proposta Sciascia-Tortora è stata presentata nel carcere di San Vittore a Milano. La formula “magistrati in carcere” starebbe a indicare un periodo obbligatorio per la formazione dei futuri membri della Magistratura italiana, come un tirocinio curriculare dietro le sbarre. Si richiederebbe dunque di passare 15 giorni nelle stesse condizioni in cui vivono a oggi più di 60 mila persone in Italia, al fine di rendere il processo e il relativo giudizio più umano e consapevole; attenuare gli eventuali errori giudiziari; magari diminuire il sovraffollamento.

 

Il sovraffollamento: emblema ormai della condizione carceraria italiana. “Senza respiro” è il titolo del XXI rapporto di Antigone. Un’immagine che dà una chiara idea di come si vive dentro:

«Al 30 aprile 2025 erano 62.445 le persone detenute nelle carceri italiane, 164 in più del mese precedente. Se si pensa che le nostre carceri hanno una capienza media di circa 300 posti, significa che la popolazione detenuta sta crescendo dell’equivalente di un nuovo carcere ogni due mesi, un dato esorbitante per poter pensare di rispondere con una qualunque strategia di edilizia penitenziaria.» – Senza respiro

 

La proposta di far entrare i magistrati in carcere invece può essere sufficiente a risolvere il sovraffollamento penitenziario? Mi sembra difficile. Tuttavia, può sicuramente aiutare a non far prendere decisioni affrettate sulle condanne. Quindi magari, in minima parte sì. Quello che servirebbe è forse aumentare le strutture di accoglienza per le misure alternative e ancor di più farvi accedere più persone possibili, senza discriminazioni o arbitrarietà nel giudizio. Infine, sarebbe sicuramente d’aiuto dare credito e ascoltare l’urgente e necessario appello del Garante dei diritti delle persone detenute: un provvedimento di clemenza.

In ogni caso, la proposta di legge si muove con l’intenzione di modificare in meglio il rapporto tra magistratura e cittadinanza e nasce dall’unione di diverse realtà: l’associazione Amici di Leonardo Sciascia, l’associazione Italia Stato di Diritto, la Fondazione Enzo Tortora, e la Società della Ragione. L’idea di far entrare i magistrati in carcere non è così nuova, come ricordato nell’articolo di Alessandra Mancini su Open:

«Un’idea che risale in realtà a Leonardo Sciascia, il quale sul Corriere della Sera del 7 agosto 1983 propose che i magistrati trascorressero almeno tre giorni all’interno delle carceri, a stretto contatto con i detenuti. «Sarebbe indelebile esperienza, da suscitare acuta riflessione doloroso rovello ogni volta che si sta per firmare un mandato di cattura o per stilare una sentenza», si leggeva sul quotidiano di Milano.» – 15 giorni (e notti) in carcere per i futuri magistrati: la proposta di legge per cambiare la giustizia dall’interno

Nuova fase di contrazione della criminalità?

La realtà dei numeri e la narrativa della sicurezza

Alessia

I numeri intorno alla criminalità in Italia sono stati raccolti nell’apposita sezione dell’ultimo rapporto di Antigone: Senza respiro (disponibile qui).

 

Leggere numeri e statistiche, prenderli a baluardo dei discorsi e delle riflessioni che sostengo, di solito non mi piace. La parzialità dei numeri e la pretesa di assolutezza della verità scientifica credo che spesso non riesca a rappresentare le moltitudini della realtà che si vive. Certo, i numeri ci dicono sempre qualcosa, questo non è negato. E mentre leggo il XXI Rapporto di Antigone sulle condizioni di detenzione, mi richiama la voce “criminalità”.

 

Prima di arrivare ai numeri, penso a come mi ci approccio. E penso alle persone che entrano effettivamente in carcere. Non posso non pensarci, soprattutto perché in questi giorni è stato approvato un decreto che criminalizza la povertà, il dissenso, la protesta pacifica, la voce e i pensieri delle persone e che legittima (più di prima) la violenza istituzionale; nonché privilegia uno stato di polizia. Tutto questo conta mentre apro l’approfondimento di Antigone sulla criminalità: i numeri smonteranno gli allarmismi e il clima di urgenza alla sicurezza, penso. Mi ricordo infatti di Chi va in carcere:

Il 29 gennaio 2025, S.R. ha scelto la morte nel carcere di Vigevano. Era un dipendente dell’ATM di Milano. Come riportato da Fanpage.it era stato arrestato per una rapina di 55 euro commessa nel gennaio 2020. Nonostante avesse un lavoro stabile, S.R. aveva problemi di alcolismo e soffriva di ludopatia: le condizioni che lo avevano portato a compiere il reato. Dopo l’arresto nel dicembre 2024, il suo avvocato aveva richiesto misure alternative alla detenzione, evidenziando il grave stato depressivo del cliente e precedenti tentativi di autolesionismo.

La richiesta però non è stata accolta dal magistrato di sorveglianza che ha rigettato l’istanza, ritenendo necessario attendere ulteriori valutazioni mediche. Poco dopo aver ricevuto una comunicazione dall’azienda circa un possibile licenziamento, il gesto estremo.

 

Criminalità pure è un termine critico, banalizzato e romanticizzato da mezzi artistici pregni di fetish sulla “devianza” (qualcuno l’ha chiamata pornografia della violenza) e studiato, spulciato, messo in caselle, dissezionato; un termine utilizzato come spauracchio e rivendicato come un nemico invisibile di un ordine sociale consolidato attraverso la repressione. Insomma,  se guardo alla criminalità mi vengono in mente le recenti suggestioni di Francesca Cerbini sui diversi “eventi (ad esempio guerre e genocidi), luoghi (ad esempio le sale giochi), leggi (ad esempio la Legge Bossi-Fini o DDL sicurezza 1660)” che possono ledere le persone e la comunità: questi fatti e simili non incorrono in nessuna conseguenza di pena. L’arbitrarietà con cui si identifica un crimine mi fa interrogare sulla stessa esistenza del crimine come “atto intrinsecamente criminale”. 

 

Un’analisi più approfondita dei primi semestri del quinquennio 2019-2024 mostra che nel primo semestre del 2019, le denunce avevano raggiunto quota 1.149.414. Confrontando questo dato con quello del primo semestre del 2024, si evidenzia una diminuzione, con 1.121.866 denunce. Questo calo non è solo significativo rispetto all’inizio del periodo analizzato, ma si manifesta anche rispetto al primo semestre dell’anno precedente (2023), quando le denunce si erano attestate a 1.134.766. Questi dati semestrali suggeriscono una possibile nuova fase di contrazione della criminalità, almeno nella prima parte degli anni più recenti. – Criminalità, rapporto Antigone 2025

 

Si confermano come reati più frequenti in Italia, quelli della categoria “contro il patrimonio”, a seguire quelli “contro la persona” e infine quelli “in materia di stupefacenti“. Questi numeri dicono, come esplicita la stessa Antigone, che il nostro sistema penale e “di giustizia” favorisce l’incarcerazione per reati non violenti. Di nuovo, guardiamo alla serie dei neonati reati: riguardo il carcere in particolare ne ha parlato anche Nello Trocchia. Introdurre il reato di resistenza pacifica in carcere significa che – spiega il giornalista  – quando le persone detenute non hanno garantiti i diritti fondamentali (mettiamo del cibo sano, buono, sufficiente) e decidono di mettere in atto una protesta per rivendicarli (ad esempio, la battitura) possono incorrere in reato. Quindi più anni di galera.

Galera che come sappiamo è al collasso. I numeri della detenzione raccolti da Antigone sono drammaticamente importanti anche in questo senso.

 

Cosa mi dicono i numeri su una complessiva criminalità “stabile” e tendente a una decrescita, antecedenti l’aumento dei reati in nome della sicurezza? 

Dicono che c’è un evidente paradosso teorico,certo strategico: aumentare le pene per legittimare la repressione delle marginalità e l’uso della forza fisica da parte dello stato in nome di un’emergenza criminalità che inizia a esistere proprio nel momento in cui il DDL 1660 è stato approvato.

Questi numeri dicono che i prossimi potrebbero salire: non a causa dell’aumento del crimine, piuttosto in conseguenza all’aumento della criminalizzazione. 

Giornata mondiale dell’igiene mestruale

Conclusione della campagna di raccolta assorbenti per le persone detenute

ALESSIA

Giornata mondiale dell’igiene mestruale, oggi 28 maggio 2025.

Il ciclo mestruale è un qualcosa di quanto intimo, tanto condiviso che parlarne può essere generativo di spazi in cui si riducono ruoli, si assottigliano differenze, si abbattono gli stereotipi. 

Assorbire il cambiamento, tra le altre cose, è stato anche rendersi conto che forse capita poche volte nella vita di incontrarsi per parlare del nostro ciclo, eppure una volta che lo fai succede che un’estranea, un’insegnate, la mamma di un’amica, una collega diventa semplicemente persona che come te, sanguina più o meno una volta al mese. 

 

Nella campagna di sensibilizzazione di assorbire il cambiamento abbiamo attraversato diversi focus tematici: il costo degli assorbenti come fossero collane di perle, carceri che salvano donne dall’oppressione e dalla violenza patriarcale, storie di pillole anticoncezionali e accesso all’IVG; abbiamo detto di donne senza utero, della gestione “lunare” del ciclo mestruale, del gender gap nel lavoro in carcere; insomma, sono stati tante le vie intraprese durante questo percorso che dura ormai da due anni. Se può interessare a chi è sfuggito qualche titolo, lascio il link del blog, dove nella sezione apposita si trovano tutti gli articoli e gli approfondimenti: qui.   

Per la Giornata Mondiale dell’Igiene Mestruale vorrei riprendere le fila del progetto assorbire il cambiamento e raccontarvi delle riflessioni che ne sono scaturite. Forse però in maniera inversa, comincerei proprio dalle riflessioni sulla questione dell’igiene mestruale o dei diritti mestruali, o come vi è più comodo definirla. 

Mestruare tra le macerie

Mi sembra fondamentale in questo mondo dalle stesse violente distopie che abbiamo letto nei più famosi libri del passato, sia narrativi che di storia, prestare orecchio a Gaza.  

 

In questi giorni abbiamo letto le parole di Mariam Khateeb:

I titoli raramente parlano di questo, di cosa significhi per una ragazza avere il ciclo sotto i bombardamenti, di madri costrette a sanguinare in silenzio e ad abortire su pavimenti freddi o a partorire sotto i droni. La guerra a Gaza non è solo una storia di macerie e attacchi aerei. È una storia di corpi interrotti, invasi e a cui è stato negato il riposo. Eppure, in qualche modo, questi corpi continuano a esistere.

Come donna palestinese e studentessa sfollata che ora vive in Egitto, porto con me questo ricordo corporeo. Non come una metafora, ma come un dato di fatto. Il mio corpo sussulta ancora ai rumori forti. La mia digestione vacilla. Il mio sonno è frammentato. Conosco molte donne – amiche, parenti, vicine – che hanno sviluppato malattie croniche durante la guerra, che hanno perso il ciclo mestruale per mesi, i cui seni si sono prosciugati mentre cercavano di allattare nei rifugi. La guerra entra nel corpo come una malattia e rimane. 

 

La guerra si gioca sui corpi delle persone, più spesso su quelli femminili. Mi pare evidente la particolarità macabra di questo caso specifico che chiamare “guerra” o “conflitto” non solo suona riduttivo, ma non restituisce la drammaticità dei corpi dei palestinesi prosciugati dalla fame indotta dall’alto di uno stato che con il pretesto del diritto alla difesa, un pretesto che dopo un anno e mezzo diciamocelo, non regge più, sta a logorare, sfinire e massacrare un’intera popolazione. Si dice che un genocidio si riconosce dalla pelle delle vittime, che è a Gaza sempre la stessa

 

Quella pelle e quei corpi  non trovano riparo, scrive ancora Mariam Khateeb:

Non c’è una tenda per il corpo a Gaza. Nessuno spazio sicuro dove il corpo femminile possa dispiegarsi senza paura. La guerra ci spoglia – non solo delle nostre case e dei nostri beni, ma anche dei rituali che ci rendono umane: lavarsi, avere le mestruazioni, elaborare il lutto in privato. Ma anche senza un riparo, i nostri corpi sopportano. Ricordano. Resistono.

 

In questi casi ci si trova a informarsi da lontano, magri partecipare alle manifestazioni, tentare azioni di boicottaggio economico ed ecco infine, scrivere anche qualche parola di protesta; ma quello che personalmente mi resta di fronte al genocidio è un forte senso di impotenza e di rabbia

 

Nella Giornata mondiale dell’igiene mestruale, quando ci raccogliamo a riflettere sulla period poverty, pensiamo anche alle donne di Gaza. E come per ogni giornata onorifica, che possa essere un punto d’inizio e non solo una svogliata condizione circoscritta a 24ore, una storia su Instagram e via. 

Tra ecologie mestruali e la concretezza dei bisogni

Con Livia abbiamo riflettuto fin da subito sulla donazione di assorbenti “ecologici”, ma anche in seguito all’aver ricevuto osservazioni o domande circa la nostra donazione in carcere composta principalmente da assorbenti usa e getta. Si pone la questione: se organizzate una campagna di raccolta assorbenti, perché non incentivare all’utilizzo dei dispositivi igienico-sanitari riutilizzabili? 

 

Gli assorbenti usa e getta “classici” dei grandi marchi più noti e non – perché con questa campagna ci sono arrivate marche di assorbenti che non avevamo mai visto da nessuna parte – hanno un grande impatto a livello ambientale. 

Come ha riportato National Geographic:

Secondo Ann Borowski, che ha studiato l’impatto ecologico dei prodotti sanitari, i numeri complessivi sono impressionanti.

“Non voglio contribuire a 40 anni di immondizia in discarica solo per gestire qualcosa che non dovrebbe nemmeno essere visto come un problema”, dice. “A partire da adesso dovremmo avere un maggior controllo su questa cosa. Non voglio avere un impatto del genere sul pianeta”.

 

Pensiamo di spedire una coppetta a Gaza o in altri territori di occupazioni e conflitti. Dove non c’è acqua. Quanto può essere prioritario in questo contesto la promozione di dispositivi più ecologici? 

 

Lo stesso, per diversi motivi e condizioni di cui ho più volto discusso in questi mesi, vale per il carcere.

MARIA

In carcere tutte le cose, anche le mutande normali si lavano nello stesso posto in cui si lavano le stoviglie. Io posso dire una cosa secondo la mia esperienza. Purtroppo in cella con altre persone ci sono stata poche volte, solo quando mi trasferivano a *** alla massima sicurezza dove c’erano cella da tre letti. Quindi ci sono stata qualche volta, però lì c’era (per fortuna) nel cortile dell’area uno spazio per gli stendini. Quindi là ti potevi stendere tutto quello che volevi, senza dare fastidio a nessuno.

Insomma, introdurre assorbenti lavabili o coppette può risultare problematico in luoghi caratterizzati dall’assenza e la privazione di beni e/o di condizioni igienico-sanitarie basilari. 

 

All’utilizzo e alla consapevolezza di assorbenti lavabili, slip mestruali e coppette, abbiamo invitato le persone in misura penale esterna e in generale chi ha seguito il progetto assorbire il cambiamento, sia da vicino che da lontano. 

Criticità di un progetto per l’igiene mestruale in carcere

Sì, la Giornata mondiale dell’igiene mestruale è stata istituita per far luce sul tabù del ciclo e sullo scarso riconoscimento dei diritti mestruali, per promuovere azioni concrete, eccetera, per tutt3. 

 

Abbiamo visto che una delle caratteristiche della fisiologia femminile è lo stretto rapporto tra secrezioni endocrine e sistema nervoso: c’è un’azione reciproca; un corpo di donna – e specialmente di ragazza – è un corpo “isterico” nel senso che, per così dire, non c’è distanza tra la vita psichica e la sua realizzazione fisiologica. La crisi che la scoperta dei turbamenti della pubertà provoca nella fanciulla li rende più gravi. Dato che non si fida del suo corpo e lo spia con inquietudine, esso le sembra malato: anzi è malato. Abbiamo visto che, in realtà, si tratta di un corpo fragile dove si producono disordini propriamente organici; ma i ginecologi sono concordi nel dire che i nove decimi delle loro clienti sono malate immaginarie, cioè che, o i loro malesseri non hanno nessuna realtà fisiologica, o lo stesso disordine organico ha un’origine psichica. In gran parte è l’angoscia di essere donna che rode il corpo femminile.

 

Scriveva Simone de Beauvoir nel 1949 nel suo “Il secondo sesso”.  Il tabù mestruale si inserisce tra i diversi dispositivi di dominio maschili sui corpi e le vite del femminile, costruiti e modellati su misura del percorrersi della storia dell’umanità. Penso ad alcune storie, miti, narrazioni delle varie culture ed epoche storiche messe insieme nel Manifesto contro il tabù delle mestruazioni di Elise Thiébaut, Questo è il mio sangue

 

Ad esempio, sembra un’usanza russa quella di dare un bel ceffone in viso alla ragazza che ha appena avuto il primo menarca. Lo schiaffo sembrerebbe avere l’obiettivo di spaventare la nuova giunta nel mondo delle donne, così da avere mestruazioni regolari e guance sempre rosse per dissimulare le sue condizioni da mestruata. Ricorre in un atto di violenza il passaggio rituale dell’esser donna anche per le ragazze delle popolazioni Chaco, Lengua e Chiriguano di cui parla Claude Lévi Strauss. Ha riportato l’antropologo che dopo il primo menarca, le giovani venivano legate appese a un’amaca per tempi diversi in base ai gruppi (dai tre giorni a due mesi). 

 

Una violenza iniziatica che ci sussurra un segreto: da quel momento in poi saremo portatrici di una sofferenza, saremo resistenti di un’oppressione, saremo parte di una stessa conoscenza che ci sarà negata, di una condivisibilità che ci sarà ostruita, nel banale potere del silenzio e della vergogna. 

 

Tra il tabù delle mestruazioni e lo stigma legato alle persone detenute, il progetto del PID ha voluto essere apertura al cambiamento. L’istituzione penitenziaria – l’ho detto troppe volte – è un’istituzione pensata al maschile. E oltre a non predisporre degli strumenti necessari alle esigenze specifiche dei corpi femminili, mantiene nella sua costitutiva essenza le tracce di un ambiente saturo di violenza, noncuranza e spesso chiusura verso l’esterno. 

Allora nella campagna dello scorso anno ci siamo trovate a chiederci: cosa può significare il rifiuto di un dono da parte di un’istituzione? E ho provato a riflettere sulle possibili risposte nell’articolo a questo link

Quest’anno abbiamo riscontrato la stessa problematica quando abbiamo cercato di ampliare la donazione e i laboratori fuori regione. Allo stesso tempo però, posso dire che forse Assorbire il cambiamento 2.0 ha registrato risultati maggiormente significativi, anche nella relazione con gli istituti di pena che hanno aderito con più sentita partecipazione. Da qui nasceranno laboratori interni di cui non tarderò a scrivervi nei prossimi mesi. 

I risultati della campagna, se così possiamo definirli

Non amo molto questa parola “risultati”, ma se dobbiamo “misurare” gli esiti del progetto proprio il giorno della chiusura della campagna (Giornata Mondiale dell’Igiene mestruale), va detto che il primo e più immediato risultato è visibile concretamente nelle buste e nei cartoni strabordanti di assorbenti che riempiono a tappo la stanza dell’ufficio

 

La voce è arrivata, siete stat3 in tantissim3 a portare o spedire gli assorbenti; ma anche a scriverci i vostri dubbi, a venire agli incontri per ascoltarci.

Molto di questo è dovuto al lavoro di rete, grazie alle associazioni del progetto POSTER e al coordinamento di AIDOS. Grazie a una comunità che si è infoltita sui social network e alle singole realtà anche esterne al terzo settore che si sono rese disponibili come punto di raccolta. 

 

La campagna di raccolta assorbenti per le persone detenute oggi si conclude, con immensa gioia e gratitudine. Tornerò a parlarvi della consegna e dei laboratori interni al carcere nei prossimi mesi, ora mi preparo a contare tutti quegli assorbenti, sarà forse un po’ rognoso ma anche bellissimo.  

Assorbire il cambiamento alla fine, non è solo retorica.

Madri fuori

Madri fuori è una campagna per i diritti delle donne detenute con figl3 iniziata nel 2023 che in seguito all’approvazione del DDL “Sicurezza” dello scorso mese, si arricchisce di nuove lotte. La promozione della campagna in sostegno alle “madri dentro” proprio il giorno della festa della mamma è un invito a vivere la celebrazione come momento di riflessione e consapevolezza, di lotta.

Il decreto conferma la revoca dell’obbligo – già del codice fascista Rocco – di rinviare l’esecuzione della pena per le donne incinte o con figl3 di età inferiore a un anno, rendendo la misura discrezionale. Il rischio di recidiva continuerà a orientare le decisioni dei giudici, che negheranno questo diritto soprattutto alle donne più vulnerabili, perché la recidiva delle donne è quella dei reati minori, soprattutto contro il patrimonio, i reati delle povertà. Resta intatta la natura sessista, razzista e classista della norma originaria.

C’è scritto nel Comunicato stampa di “Madri fuori: – dallo stigma e dal carcere, con i loro bambini e bambine”. Non è solo inasprendo le pene e aumentando i reati – o scavallando l’iter legislativo fondante una repubblica democratica secondo il principio della tripartizione dei poteri, o minacciando con la forza l’espressione di rivolta, pure pacifica – che si rischia di peggiorare le condizioni delle donne madri detenute, de3 loro bambin3 e non solo. 

 

La campagna dell’11 maggio ricorda che la reclusione all’interno degli ICAM, pur mutando la veste del carcere nella terminologia “Istituti a Custodia Attenuata per detenute Madri” resta un carcere e non una reale misura alternativa.

[…] perché gli ICAM sono sezioni carcerarie, con sbarre e agenti, da cui non si esce, in cui si è recluse. Gli ICAM sono carcere. E non solo: dopo l’anno di età bambini e bambine potranno stare con le loro madri anche nelle normali sezioni.

 

Sono ancora quegli spazi di opacità e di discrezionalità del DDL che andranno ad alimentare un sistema già saturo e in crisi, quello dell’istituzione penitenziaria in Italia e che rendono più evidente (se non lo era già prima) anche un altro fenomeno: quello dell’imprigionamento selettivo. Sembra inoltre che questa vaghezza possa rendere possibile che

in casi di violazione della sicurezza o dell’ordine da parte delle madri, espressioni vaghe e prive di specificità quelle contenute nel decreto, è previsto il loro trasferimento in carcere e la sottrazione del minore. (Link qui)

 

“Madri Fuori” continua la sua lotta, insieme al movimento nazionale contro il DL sicurezza, perché il Parlamento non approvi queste norme liberticide e sessiste.

“Madri Fuori” – come già nei due anni passati – dichiara l’11 maggio, Giornata della mamma, giornata di lotta dedicata alle madri e a tutte le donne detenute. 

E invita tutt3 a promuovere iniziative locali di incontro con le donne detenute, informazione e sensibilizzazione, dibattito pubblico e manifestazione di dissenso e opposizione. QUI 

Lavoro in carcere e gender gap

«Ma una volta ridotto il carcerato a soggetto astratto; una volta “annullata” la sua diversità (fino allo smarrimento che accompagna la solitudine del soggetto irrelato dal sociale); una volta messolo di fronte a quei bisogni materiali che non può più soddisfare autonomamente; resolo così completamente dipendente dalla/alla sovranità amministrativa; a questo prodotto, infine, della macchina disciplinare viene imposta l’unica alternativa possibile alla propria distruzione, alla propria follia: la forma morale della soggezione, la forma morale, cioè, dello status di proletario.» “Carcere e Fabbrica” (2018, D. Melossi, M. Pavarini)

Lavoro in carcere

Quali sono i lavori disponibili per le persone detenute all’interno delle carceri italiane?  La lista che più volte mi è stata presentata nei vari racconti ascoltati in questi anni, è una lista relativamente breve, abbastanza prevedibile e segnata da quella particolarità infantilizzante del nostro sistema penitenziario che tende a rendere le parole più docili, più piccole, attraverso il suffisso quasi onnipresente “ino/a” (si pensi alla “domandina”); un suffisso che accompagna le parole quasi a rimarcare, una volta ancora, la differenza tra il dentro e il fuori. Spesinә, scopinә, portapacchi, scrivanә…   

«Sì ma i lavori a turni, lo sai quali sono? Gli scopini, quelli so’ i lavori a turno. Il lavorante a piano, che poi te fanno fa un’ora diciamo al giorno, un’ora e mezza la sera, devi fa il piano e basta. Io c’ho il CUD del 2021 che stavo là e a fine anno ho guadagnato 190 euro. Ao, in un anno de lavoro ho guadagnato 190 euro. E l’INPS m’ha chiesto il CUD eh! Quando ho fatto richiesta della pensione m’ha chiesto il CUD del 2021. Io gli ho detto “Ao io stavo carcerato nel 2021”, gli ho mandato pure il certificato de carcerazione. Che devo fa? È così. » Domenico

Il lavoro in carcere è quindi principalmente volto alla gestione interna della quotidianità ristretta: dagli spazi ai pasti. È poco perché è solo quello, quindi insufficiente per tutte le persone che abitano le celle, così si fa a turno. Diventano sempre meno ore, quindi meno soldi.

*Foto Antigone Rapporto annuale 2024, “Nodo alla gola” (qui il link)

Gender gap

Cosa ci dice Antigone del lavoro in carcere per la popolazione detenuta femminile? È curioso lo stupore che può sorgere nel leggere che sono le donne in carcere a lavorare di più degli uomini. Tra le ragioni non è possibile ignorare la questione numerica, certo è che rappresentando una percentuale minore della popolazione detenuta totale, quella femminile sembra avere maggiore accesso al lavoro intramurario. Questo però non significa che possiamo per una volta non parlare di gender gap, anzi mi viene da dire che neanche in questa situazione ristretta riusciamo a trovare un modo per garantire un accesso equo e paritario al mondo del lavoro. Che poi, ricordiamolo, lavorare in carcere significa magari pulire un piano della sezione, per quanto? Due/tre ore?

Oltre ai numeri però, l’osservatorio di Antigone ci rende not3 di un fatto che poco ci stupisce invece: le offerte di lavoro e formazione riservate alle detenute sono orientate dallo sguardo stereotipato di una cultura patriarcale.

«È importante orientare la tipologia di offerta formativa proposta verso percorsi non stereotipati al femminile. Nel primo semestre del 2022, ultimo dato disponibile, sono stati 2.248 gli iscritti ai 197 corsi di formazione professionale attivati, di cui 242 (pari al 10,8%) donne. Se guardiamo invece ai corsi conclusi, sempre in quel semestre sono stati 163, cui erano iscritti 1.763 detenuti, di cui 90 (il 5,1%) donne. Per quanto riguarda i percorsi di istruzione, gli ultimi dati disponibili (al 31 dicembre 2021) ci dicono che il titolo di studio era stato rilevato per i due terzi delle donne presenti in carcere, ovvero 1.515 su 2.237.»

*Foto Antigone Primo rapporto sulle donne detenute in Italia (qui il link)

Tempo fa avevamo affrontato il discorso sulla formazione in carcere e sulle differenze di genere che caratterizzano i programmi:

Le persone detenute negli istituti femminili spesso sono sottoposte a stereotipi e aspettative tradizionali legate al “comportamento femminile”. Infatti vengono introdotte ad attività come il ricamo e l’uncinetto, in contrasto con la maggior offerta di attività prevista per la componente maschile. Un’ulteriore tendenza di differenziazione riguarda l’accesso a opportunità lavorative e formative: esiste infatti un’alta disparità nell’accesso agli studi universitari tra popolazione carceraria maschile e femminile.

 Se ti interessa, puoi recuperarlo qui

 

Questo focus fa parte della Campagna PID “Assorbire il cambiamento 2.0” – Un’iniziativa che prevede la donazione degli assorbenti in carcere, la realizzazione di laboratori e incontri all’interno di istituti penitenziari femminili e strutture di accoglienza per promuovere maggiore consapevolezza sul ciclo mestruale e sui “nuovi” prodotti igienico sanitari ecologici quali coppetta, slip mestruali e assorbenti lavabili. Leggi di più qui

La cella in piazza

ALESSIA

La cella detentiva è lo spazio angusto e ristretto in cui vivono a oggi 62.397 persone in Italia. Secondo i dati forniti dal progetto “Sovraffollamento carcerario in Italia” del giornalista Marco Dalla Stella, questo è il numero totale delle persone detenute, aggiornato al 16 aprile e 

«… a fronte di una capienza regolamentare di 51.280 posti. Di questi, però, 4.477 posti non sono disponibili. Questo fa sì che il tasso di affollamento sia del 133,293%».

 

Una cella che – come ricorda l’antropologa Francesca Cerbini nel recente libro “Prison Lives Matter”non è mai solo una cella. Uno spazio da addomesticare e personalizzare, un luogo che a volte rappresenta l’unica possibilità di riappropriazione dell’intimità del corpo, la cella dove – alcuni mi hanno detto – ci si chiude a fine giornata, quando non si ha più voglia di stare con gli altri. Una cella che viene pulita fino allo sfinimento, dove si convive stretti con due, tre, quattro persone; un letto in cui si dorme tutto il giorno, in cui non si trovano speranze; un buco in cui solo quest’anno, venticinque persone hanno trovato la morte. Una cella che oltre a tutto questo è ancora molto altro. 

 

La stessa cella, spogliata dei significati e delle sofferenze dei suoi abitanti, è stata sbattuta in piazza del Popolo a Roma, in occasione della festa della polizia penitenziaria lo scorso 25 marzo. Un’amica mi ha inviato il link qualche settimana fa sbigottita. Assurdo, mi ha scritto.

Il video del sovrintendente che illustra lo spazio ricostruito della “stanza di pernottamento per i detenuti”, vi invito a guardarlo, è anche sulla pagina instagram del Ministero della Giustizia. Il contenuto in sé è disturbante ma lo diventa ancor di più leggendo il copy (imbellettato di emoticon) che utilizza una frase gancio indimenticabile: Curiosità e specialità della polizia penitenziaria! 

 

Curiosità e specialità, una visita turistica in una cella a cielo aperto illuminata dalla luce del sole. Una stanza nuova, con le pareti pulite, un armadio, un letto a castello, una piccola scrivania con una sedia bassa, un bagno. Prima di tutto viene mostrata però la domandina (il modulo 393). Lo strumento attraverso cui passa la vita della persona ristretta, come scritto altrove su questo blog:

«Dopo la prima notte, una notte di incubi in cui hai dovuto fare i conti con i fantasmi del tuo inconscio, ti alzi e ti guardi intorno smarrito, poi ti informi col tuo compagno di cella per questa o quella necessità quotidiana. Ti dirà che devi fare una “domandina”, si avete capito bene, domandina, indicando la “stanza di appartenenza” – attenzione – “stanza” e non “cella”. Ovvero quello spazio dove sei ristretto in 6 con accanto pochi altri metri quadri dove si cucina e si defeca anche». M49, L’orso

 

«In carcere devi fare domandina per tutto, per tutto ci vuole la domandina: per poter parlare con l’assistente sociale, per poter parlare con la psicologa, per poter parlare con il direttore, con il “capo posto” (il capo del reparto).

Per fare entrare dentro un paio di scarpe nuove ad esempio, perché le vecchie sono rotte, devi darle prima indietro (le vecchie) altrimenti non entrano (le nuove). E certe domandine si perdono, diciamo si perdono… Tante le cestinano e invece tante si perdono. La domandina è tutto, senza domandina in carcere non ci fai niente». Domenico

 

Nella visita guidata della cella in piazza c’è poi un’attenzione particolare alle misure di sicurezza. La struttura ferrosa del letto è fissata al pavimento per evitare che possa essere usata da loro come barricata e quel nuovo sgabello con lo schienale (purtroppo, sembra essere stato introdotto da poco) è potenzialmente pericoloso perché si può afferrare più facilmente per essere scaraventato addosso a qualcuno. Il materassino sembra fatto tipo di gommapiuma, viene alzato per farci vedere il materiale: attenzione, non per dirci quanto possa essere scomodo ma che può essere tagliato per nasconderci le cose; così come nello scarico del bagno – assente nella riproduzione in piazza della cella – dove spesso, dice la guida, ci si trovano tutte le armi fabbricate da loro. Anche quest’ultime vengono mostrate nel reel, sono accuratamente esposte in una teca proprio come in un museo.  

 

Quando ho letto e ho visto la ricostruzione della “stanza di pernottamento”, ho subito pensato a un’altra cella che era stata esposta nell’estate del 2024 da Il Dubbio. E Il Dubbio stesso ha commentato l’apparente somiglianza delle iniziative che sono state costruite però, è evidente, sulla spinta di motivazioni opposte. La cella de Il Dubbio, esposta al Salone del Libro di Torino e poi in piazza di Pietra a Roma, aveva come obiettivo quello di

«far comprendere quanto disumana, alienante sia, per l’essere umano, l’esperienza dell’isolamento dal mondo, della privazione di libertà, affetti, senso del futuro. C’era in sottofondo il clangore dei catenacci che serravano i cancelli. Era un modo per dire: sappiate che c’è un’umanità, dietro quelle sbarre, scaraventata in una disperazione profonda. Non riducete il carcere al pozzo nero dell’esistenza in cui rinchiudere ciò che non si vuol vedere. Perché anche se non volete vederlo, esiste comunque. E noi ve lo mostriamo. Volevamo abbattere il muro che separa la vita della detenzione. Perché cittadini e reclusi potessero idealmente condividere una verità».

 

La cella esposta alla festa della polizia penitenziaria sembra più un modo per dire: guardate che belve, dobbiamo addirittura ragionare sul fatto che lasciargli uno sgabello con lo schienale possa essere pericoloso. Nulla di nuovo, certo. La narrativa della sicurezza in carcere è più forse una lente con cui si osserva prima di tutto la persona ristretta e che presuppone un atteggiamento pregiudiziale da parte di tecnici, personale e cittadinanza esterna ma che non tiene presente ed elude completamente sia le strutture asimmetriche di potere che le condizioni strutturali di violenza (“Oltre il potere e la burocrazia” David Graeber) che sono alla base dell’istituzione totale. 

Così, parafrasando il sociologo Luca Sterchele, si potrebbe dire che attraverso il discorso onnipresente sulla sicurezza si acuisce l’asimmetria di potere tra il personale penitenziario e le persone detenute che diventano agli occhi dei primi qualcosa di più simile a dei nemici piuttosto che “esseri umani in custodia” (Drake, 2015 in “Il carcere invisibile. Etnografia dei saperi medici e psichiatrici nell’arcipelago carcerario” di Luca Sterchele)

 

“Più sicurezza per questi mostri” è un motto relativamente semplice che oltre a trapelare dalle immagini e dalle parole del video sulla cella in piazza del Popolo, mi pare evidente sia andato oltre i confini del carcere e abbia invaso proprio quelle piazze in cui il dissenso è diventato una questione di sicurezza. 

 

O forse lo era già da un po’, ma adesso è pure legge.

Corpi mestruali

Intervista a Silvia Lovisetto – infermiera, naturopata e Sacerdotessa del Tempio della Grande Dea di Roma

Il Tempio della Grande Dea di Roma è il primo tempio fisico in Italia dedicato alla Dea Afrodite: un luogo sacro all’interno del quale vengono promossi i valori matriarcali di cura reciproca.   

Attraverso i contatti forniti dall’antropologo Carmelo Russo abbiamo conosciuto Silvia Lovisetto, una naturopata e infermiera che da due anni ricopre il ruolo di Sacerdotessa all’interno del Tempio. 

Nell’ambito del progetto “Assorbire il cambiamento” ci siamo interrogate sulle diverse prospettive con cui si affrontano le tematiche relative il ciclo mestruale. Abbiamo quindi chiesto un’intervista a Silvia per parlarci di come la disciplina olistica della naturopatia concepisce il ciclo mestruale e per farci dare dei consigli sui rimedi per i dolori mestruali

Che cos’è la naturopatia?

La naturopatia nasce dal bisogno di utilizzare la natura, quindi quello che noi abbiamo a disposizione e che comunque è quello che ha permesso all’essere umano di arrivare fino ad oggi, perché molti farmaci derivano dalla sintesi dei prodotti naturali. Basta vedere l’acido acetilsalicilico che una volta utilizzavano la corteccia del salice piangente e oggi c’è l’aspirina: il principio attivo è lo stesso. Quindi, questo bisogno di restare in contatto con la natura e di curarsi ascoltando il corpo, quello che il corpo ci chiede. Non stare nella mente ma stare nell’ascolto, essere radicati nel corpo. Diciamo che la naturopatia si basa principalmente su questo, una visione olistica della persona che comprende tutto.

Il ruolo della Sacerdotessa nel Tempio

In base a come lo interpreto e lo vivo io, la Sacerdotessa fa da tramite tra un sistema patriarcale a cui siamo abituate e la possibilità di avere un approccio differente alla vita. Quello che faccio oggi è accompagnare le persone, in particolare le donne, in percorsi di risveglio, di guarigione e di riconnessione col proprio femminile sacro. Mettere a disposizione delle opportunità di guarigione. Una guarigione non solo necessariamente fisica ma a più livelli. Almeno nel mio caso, da infermiera e naturopata sono più concentrata sulla guarigione. Un concetto su cui è incentrata la mia esperienza e la mia vita. Per me è una guarigione anche la morte e il ciclo mestruale questo ce lo insegna con il ciclo di vita morte-rinascita ogni mese. Il ruolo della Sacerdotessa secondo me è far comprendere ad altre persone che la vita funziona in modo circolare, anziché lineare come siamo abituate: anche perché questo è sconfortante per alcune persone. Ho iniziato il mio percorso al Tempio circa due anni fa approcciandomi al metodo MTE ideato da Maya Vassallo di Florio: la nostra Sacerdotessa che ha dato vita al Tempio della Grande Dea e da cui ho ricevuto la formazione come Coach Mestruale. Oltre la Naturopatia infatti tutti gli approcci relativi alle mestruazioni derivano da questa formazione come Menstrual Coach e Sex Coch, dalla conoscenza e grande sapienza che Maya ci sta trasmettendo. Due percorsi profondamente trasformativi che ho fatto al Tempio e che mi hanno cambiato la vita!

Come sei arrivata alla naturopatia?

Fin da piccola sono stata portata a curare, imparando dalla stessa natura intorno a me, con i gattini e gli altri animali. Piano piano, osservandoli, ho iniziato a capire come potevo aiutarli quando stavano male. Un po’ come i bambini quando sono piccoli che non parlano e quindi devi imparare ad osservare. Da lì mi sono resa conto che tante soluzioni arrivavano semplici e ho iniziato a capire l’energia: tenere in mano un gatto che stava male o riscaldarlo era un fattore importante. Quindi con il tempo ho iniziato molto presto a leggere dei libri sulla spiritualità perché mi interessava. Ero in un certo senso “credente”, andavo in Chiesa e tutto però io questo Dio non me lo spiegavo. Certe cose nella Bibbia non mi tornavano, soprattutto quelle legate alle mestruazioni: perché io come donna dovevo essere l’unica peccatrice che portavo tutti i peccati del mondo? Da lì è partito tutto. E dall’approccio alle tecniche energetiche è iniziato il mio percorso come infermiera e come operatrice di Reiki, perché mi serviva un metodo veloce per guarire gli animali. Questa doppia formazione è stata poi la base della mia tesi triennale per cui secondo me la medicina allopatica e la complementare possono e dovrebbero essere unite. E a oggi c’è un’apertura maggiore da parte della medicina, più attenta ai bisogni del corpo e della persona. 

Il ciclo mestruale e il ciclo lunare

Essendo noi composte per la maggior parte di acqua, ovviamente come la luna ha influenza sulle maree, ha influenza su tutti i liquidi e quindi anche su quelli corporei. Noi donne abbiamo anche il ciclo mestruale rispetto all’uomo, ma questo non significa che la luna non lo influenzi. Noi passiamo per quelle lunatiche però in realtà lo sono anche loro. Quando una donna non ha più il ciclo mestruale può continuare ad osservare i suoi cicli e le quattro fasi che sono i quattro archetipi del femminile attraverso la luna. Mentre noi che abbiamo il ciclo possiamo osservarci e  in base all’andamento lunare. 

In linea di massimo abbiamo la luna nuova, la luna crescente, luna piena e luna calante che sono le fasi del ciclo mestruale:

  • Luna nuova, mestruazioni;
  • Luna crescente, fase follicolare;
  • Luna piena, ovulazione;
  • Luna calante, fase luteale (pre-mestruale).

Osservando queste quattro fasi, noi osserviamo come rispondiamo rispetto a quel periodo. Le prime donne hanno osservato l’andamento del ciclo mestruale in collegamento con quello lunare, inventando i primi calendari anche. Alla fine anche la mestruazione è un rimettere ordine nel corpo. Il corpo parte da uno stato di morte diciamo e c’è un risveglio che prepara la camera per accogliere una nuova vita; nel momento in cui questa nuova vita non c’è distrugge tutto per tornare poi a uno stato di morte per ripartire. Qui il ciclo di vita, morte e rinascita che dicevo prima. E anche tutti i collegamenti con la luna che fa lo stesso ciclo. 

Ad esempio si può avere il ciclo durante il periodo di luna nuova, questa cosa non era molto ben vista perché la mestruazione con la luna nuova stava a indicare che la donna pensava solo a se stessa e non era orientata alla procreazione come invece voleva la cultura. La donna doveva essere madre, punto. 

Il ciclo non è sempre uguale e ovviamente cambia di volta in volta percorrendo diversamente le varie fasi. E allora si possono osservare le proprie fasi rispetto alla luna. Se ti vengono le mestruazioni e sei una fase “di morte” e ti senti spenta ma c’è la luna piena che ti indica un’energia di espansione, come ti senti te rispetto alla dinamica di queste due energie in contrasto che lavorano dentro di  te? Questo è il meccanismo. Portare la ruota mestruale serve ad analizzare te stessa. Io ad esempio ho scoperto di avere una ciste ovarica proprio perché mi sono resa conto che mi veniva mal di schiena sempre nella stessa fase. Ti fai carico della tua salute. 

Consigli pratici sulla gestione del ciclo mestruale in carcere

Dopo che ne avevamo parlato mi sono informata un po’ su come poteva essere la vita all’interno del carcere e mi sono resa conto che è molto limitante. Nel senso che fornire indicazioni su quello che si può fare non so se potrebbero metterle poi in pratica. L’unica cosa fattibile forse sono gli esercizi di yoga o le respirazioni. Noi per esempio al Tempio pratichiamo la respirazione della Yoni che è un tipo di respirazione con la vagina che va a lavorare su tutto il pavimento pelvico. Oppure appunto delle posizioni di yoga che vengono utilizzate nelle varie fasi del ciclo mestruale. Anche l’esercizio della farfalla da seduto può essere un’idea, per i dolori mestruali l’importante è muovere il bacino, perché tutto è concentrato lì: alcuni sport che facciamo oggi iper-stimolano il bacino e quindi in realtà non sono funzionali, l’idea è quella di muovere e sciogliere la muscolatura in modo lento. Ritornare alla lentezza e ritornare al contatto con il corpo. Anche una semplice camminata a piedi scalzi serve a connetterti con la terra, è più che altro una consapevolezza: camminare a piedi scalzi sapendo di connettere l’utero alla terra.

Riflessioni

Una cosa che mi ha fatto riflettere molto in questi giorni è proprio la questione del controllo dell’istituzione sul corpo della donna durante quei giorni delicati in cui proprio a livello ormonale diventa più difficile gestire quel tipo di pressione. Nella fase pre-mestruale noi abbiamo il nostro critico interiore, per cui in quei momenti è facilissimo farci sentire uno schifo. Demolire lo spirito di una persona in quei giorni è il massimo, quindi già pensare di dover andare a elemosinare un assorbente in quel momento è problematico

 

Questo focus fa parte della Campagna PID “Assorbire il cambiamento 2.0” – Un’iniziativa che prevede la donazione degli assorbenti in carcere, la realizzazione di laboratori e incontri all’interno di istituti penitenziari femminili e strutture di accoglienza per promuovere maggiore consapevolezza sul ciclo mestruale e sui “nuovi” prodotti igienico sanitari ecologici quali coppetta, slip mestruali e assorbenti lavabili. Leggi di più qui

Orizzonti condivisi: i giovani migranti in Italia

ANDREA

Il 27 marzo siamo stati alla presentazione del testo “Orizzonti condivisi – L’Italia dei giovani immigrati con background migratorio”, un testo corale che vede la partecipazione di più di 50 autori e autrici, promosso dall’associazione di studi politici “S. Pio V” e dal Centro studi e ricerche IDOS, che promuove il fondamentale “Dossier statistico sull’immigrazione” ormai da più di trent’anni.

Il tema affrontato è quindi quello dell’integrazione dei minori migranti, un argomento molto dibattuto che vede l’Europa al centro di un problema complesso, considerata la grande eterogeneità e le vulnerabilità specifiche delle migliaia di giovani migranti che approdano nel nostro continente o che si muovono all’interno di esso. 

Il testo è una raccolta che ospita contributi di vari studiosi e studiose del tema, accomunati da un approccio rigoroso e scientifico, basato sull’analisi dei dati e delle statistiche disponibili, un approccio quanto mai necessario trattando di un argomento che ben si presta a strumentalizzazioni e a letture poco obiettive e spesso in malafede. 

 

Orizzonti condivisi: l’incontro

Benedetto Coccia, co-curatore del testo cui spetta il primo intervento, rende subito l’idea dell’approccio utilizzato durante i vari saggi inseriti nel testo, mostrando statistiche e serie storiche che illustrano la situazione attuale e l’evoluzione negli ultimi decenni del fenomeno migratorio che coinvolge ed ha coinvolto le nuove generazioni di migranti. Non entreremo nel merito dei singoli contributi, vi invitiamo a leggere il testo per approfondire i singoli aspetti trattati, considerando l’eterogeneità di essi e la difficoltà nel selezionarne alcuni, essendo tutti molto interessanti.

 

I vari contributi raccolti nel testo sono stati divisi in quattro parti. 

  • Nella prima parte si affrontano i ricongiungimenti familiari, le famiglie transnazionali. Vengono quindi analizzate le rotte e le storie dei MISNA (minori stranieri non accompagnati), fino alle situazioni critiche dello sfruttamento sessuale e della devianza giovanile tra i giovani e le giovani stranieri. Nell’ultimo contributo di questa prima sezione del testo si affrontano anche i temi delle baby gang e del bullismo, argomenti quanto mai attuali. 
  • La seconda parte del testo mette al centro l’azione educativa, sia nelle scuole che nei percorsi di formazione professionale e universitari, analizzando casi specifici e situazioni particolari come l’integrazione scolastica dei rom. 
  • La terza parte parla della next generation, ovvero concentra lo sguardo sul futuro dei minori stranieri, sulle sfide occupazionali e non solo che li riguardano. I contributi affrontano tematiche particolari come il crescere in una famiglia mista, alcuni si concentrano sulla situazione femminile e in particolare sulle giovani donne musulmane in italia. Si affronta la partecipazione politica delle persone con backround migratorio, la lotta al razzismo e la particolare condizione dei giovani sportivi e delle sportive stranieri.
  • L’ultima sezione del testo riporta una serie di buone prassi, testimonianze importanti come la storia della Scuola 725 del compianto don Sardelli, la scuola Penny Wirton che insegna gratuitamente l’italiano alle persone straniere, la nascita e l’affermazione del Forum per l’intercultura, l’esperienza educativa di Celio Azzurro a Roma e di Dedalus a Napoli.

Emerge dalla discussione dell’incontro per la presentazione di “Orizzonti condivisi” l’inadeguatezza dell’impianto normativo italiano ed europeo, che non riesce a garantire pieni diritti a persone spesso nate sul suolo europeo o ivi approdate in tenera età

Invito alla riflessione e alla lettura di Orizzonti condivisi

Il bivio cruciale cui si trovano gli elettori e le elettrici italiane è ad un passo: l’8 e il 9 di giugno siamo chiamate e chiamati alla consultazione referendaria che vede tra i vari quesiti la riduzione del tempo per naturalizzare i minori stranieri, dai 10 anni attuali a 5 anni. Questa modifica legislativa potrebbe essere il primo passo di una serie di modifiche legislative auspicate dalla maggior parte degli studiosi intervenuti, che potrebbero riuscire a garantire equità e riconoscimento dei diritti fondamentali ad una parte considerevole dei giovani e delle giovani presenti in Italia.

 

Invitiamo fortemente a leggere il testo, attualissimo (è uscito a marzo 2025), per affrontare riflessioni e letture di dati raccolti in maniera scientifica, perché siamo fortemente convint3 che l’informazione corretta e l’approfondimento siano fondamentali, tanto più oggi, in un mondo in cui riemergono mostri dal passato, in cui gli equilibri internazionali sono tanto fragili e in cui anche chi guida lo stato più potente del globo si lascia andare alla diffusione di fake news, con lo scopo di pilotare l’opinione pubblica. 

 

C’è un grande bisogno di obiettività, di valutazioni scevre da giudizi di valore, di analisi puntuali e rigorose, e siamo sicur3 che la raccolta “Orizzonti condivisi” sia potenzialmente un ottimo contributo per il dibattito pubblico, se solo venisse letta da chi su queste tematiche decide e legifera.

Il tabù mestruale

Ricondividiamo l’articolo di Alessia già edito sulla piattaforma spaziale di FactoryA che vi invitiamo a consultare.

Il tabù mestruale oltre gli stereotipi e oltre le sbarre

Nel 2022 ho sentito per la prima volta parlare della necessità di raccogliere gli assorbenti da donare in carcere alle persone detenute. Ero da poco entrata a far parte della Cooperativa PID Onlus in veste di tirocinante. Sapevo abbastanza poco sia di carcere, sia di mestruazioni. Certo, essendo nata con un utero e socializzata femmina, sulle mestruazioni forse sapevo già qualcosa in più.

 

Dallo scorso anno, grazie al progetto “POSTER. Oltre gli stereotipi” promosso da AIDOS, abbiamo dato vita ad “Assorbire il cambiamento”: una giovanissima iniziativa che ha un obiettivo talmente banale che sembra assurdo definire invece come rivoluzionario: abbattere il tabù delle mestruazioni. E ancora di più, perché non ci basta, far riconoscere alla popolazione civile che quella reclusa, negli spazi ristretti e angusti del mondo che scegliamo ogni giorno di non vedere, vive senza aver garantiti diritti fondamentali. Ad esempio? Le persone con utero in carcere vivono il ciclo mestruale senza un accesso adeguato a servizi e prodotti igienico-sanitari. Per dirla più semplice, in carcere, quando arrivano, arrivano pochi assorbenti e in genere neppure di qualità. Allora ci adoperiamo a parlarne, ma prima sembra doveroso allargare il discorso sul ciclo mestruale, perché quando si pensa al dentro, non si può che non pensare al fuori e viceversa: d’altronde anche se a volte si dimentica, siamo tutt3 parte della stessa società.

 

Il ciclo mestruale

A che serve il ciclo mestruale? Ancora nel XXI secolo, a discapito di tutte le impressionanti scoperte scientifiche, i viaggi interstellari, i cervelli algoritmici, le cure miracolose ecc., non si è trovata una spiegazione reale di quale sia la ragione per cui buona parte della specie umana a intervalli più o meno regolari e per un tempo che copre circa la metà della sua esistenza, sanguina.

 

Cioè sì, sappiamo che è fondamentale per la riproduzione della specie. Perché però ci riproduciamo proprio così non lo sappiamo, in fondo il ciclo non è altro che uno spreco di ovuli distrutti dal mancato concepimento.

 

Sappiamo abbastanza bene come funziona questo processo biologico necessario alla riproduzione. Nell’arco della vita fertile di una persona con utero – in media dai 10/15 anni ai 45/55 – il corpo si prepara ad accogliere una possibile gravidanza attraverso un ciclo di 28 giorni circa che si divide in fasi.

 

  • La fase delle mestruazioni può durare 1-5 giorni, avviene quando l’ovulo del ciclo precedente non viene fecondato, e allora il corpo elimina l’endometrio, lo strato interno dell’utero. Il sangue mestruale è proprio l’endometrio che espelliamo. Non è per nulla piacevole, ma ci si abitua per forza di cose.
  • Nelle due settimane (circa) che seguono le mestruazioni, c’è la fase follicolare: è il momento in cui la ghiandola cerebrale nota come ipofisi secerne l’ormone che dice alle ovaie una cosa tipo “è arrivato il momento di produrre nuovi ovuli”. Solo uno tra questi avrà un posto di rilievo per l’utero che lo investirà di attenzioni, ricostruendone il rivestimento.
  • Poi c’è l’ovulazione. Ah, l’ovulazione! C’è chi l’aspetta come un bambino aspetta la mattina di Natale, chi la evita come si evitavano gli amici medici durante il periodo Covid: forse ci vediamo un altro giorno. Anche questa fase può durare circa 14 giorni ed è appunto il momento in cui il corpo di una persona con utero è più fecondo. Succede che quell’ovulo sistemato e accuratamente rivestito si fa maturo e attraversa la tuba di Falloppio in attesa di uno spermatozoo abbastanza attraente per farsi fecondare.
  • Quando questo non succede, se ci pensiamo quindi la maggioranza delle volte, arriva la fase luteale che dura almeno 15-28 giorni. Il corpo riduce allora la produzione di alcuni ormoni e il rivestimento dell’utero si sfalda: torniamo alla fase delle mestruazioni.

Il rituale del primo menarca

Tutte queste cose le impariamo più o meno a scuola, un po’ forse con le donne della nostra famiglia. Molte cose sul ciclo mestruale io per esempio non le sapevo fino a quando non ho iniziato a lavorare a questo progetto, nonostante “sono diventata signorina” almeno da 15 anni e prevedo di restarci per qualche decennio ancora.

 

Era l’estate della fine delle elementari e già avevo abbastanza ansia di dover affrontare le scuole medie, ricordo che mi preparavo dopo pranzo per andare al mare con mia madre, una sua amica e il figlio che è tutt’ora il mio migliore amico. Avevo il costumino pronto sul letto dei miei genitori, mi sbrigo a spogliarmi per infilarmelo e vedo una chiazza rossastra sulle mutandine. Panico misto a un’euforia che non saprei spiegarmi oggi. Corro da mia madre che al telefono, un po’ stupita dalla scena comica di una bambinetta scioccata con le mutande abbassate e sporche che la guardava con mille emozioni negli occhi, mi dice “vai da papà!”. Lei era impegnata e quindi dovevo farmi aiutare da papà. Questo sì, già ci rende chiaro che mio padre è uno di quegli uomini che si chiede cose tipo “perché ci sono bagni separati per maschi e per femmine?” e che non dice mai cose tipo “non tutti gli uomini…”.

 

Alla fine di questa scenetta simpatica, al mare ci sono andata e fiera sono stata sotto l’ombrellone con il mio assorbente e con i pantaloncini, a guardare il mio amico che triste e confuso mi chiedeva se almeno potevamo giocare a carte anche se non potevo fare il bagno. Quel giorno ricordo di essermi sentita superiore, nel senso di “più grande di te, perché ora io sono una donna”. (Scusa Matt)

 

Abbiamo poi sigillato questo rito di passaggio come da tradizione famigliare con mia madre e mia sorella maggiore, cena fuori e poi cinema: dove mangiare e cosa vedere l’ho scelto io, ero la festeggiata.

Ma festa di cosa?! Per i crampi alla pancia, le fitte ai reni che a volte lasciano senza respiro, i malditesta, il conteggio nevrotico di quanti assorbenti portare per stare in giro tutta la giornata? C’è a chi è andata peggio, per fortuna io posso dirmi tra le persone che hanno un flusso abbastanza regolare, fastidi e dolori il più delle volte non debilitanti, la possibilità economica di comprare gli assorbenti, i tamponi o le coppette che voglio.

Il sangue mestruale è un tabù

Quel sentirmi superiore al mio amico durato una mezza giornata era forse una rivincita metaforica perché nel mondo in cui abito, avrei scoperto poi, il ciclo mestruale è vissuto come un disagio, è un tabù da sussurrare, un peso da portare in silenzio, un odore sgradevole da celare; e aggiungerei, è solo uno dei millemila modi con cui le persone socializzate femmine sono state vittime e fautrici di un sistema dualistico che si basa sulla dominazione di un gruppo sull’altro. Detto più semplicemente, anche il tabù mestruale è prodotto della cultura patriarcale. Per questo, parlarne mi sembra banale e al tempo stesso rivoluzionario.

 

Pensiamo alla differenza con cui ci approcciamo socialmente al fluido riproduttivo maschile. Lo sperma viene “celebrato” e spesso, come ci ricorda Elise Thiébaut, ci viene detto che può avere effetti benefici per la salute di chi lo ingerisce; il sangue mestruale fa schifo. Il sangue può farci ribrezzo, eppure continuiamo a spargerlo per le città nei conflitti di potere, continuiamo a cercarlo nei film e nelle serie o nei videogiochi violenti. Ma quello mestruale è un tabù, nonostante invece che portare morte, doni la vita.

 

La giornalista che ha scritto l’ironico e provocatorio testo che sto leggendo proprio in questi giorni “Questo è il mio sangue. Manifesto contro il tabù mestruale”  ha detto:

[…] il sangue mestruale, afferma oggi la medicina moderna, non ha una funzione precisa quando lascia l’endometrio: è semplicemente il segno di un insuccesso riproduttivo.

Insuccesso anche dal punto di vista biologico, non ci danno tregua! Elise Thiébaut collega questo tipo di informazione che ci viene narrata a un sentimento indotto di vergogna, spiegandoci che

[…] secondo lo psicoanalista Serge Tisseron la vergogna gioca un ruolo socialmente importante: «A differenza del pudore, che non incide sull’autostima, e del senso di colpa, che comporta anche l’angoscia di perdere l’affetto dei propri cari, in più la vergogna minaccia la certezza di continuare a far parte del gruppo». Poiché disorienta ed emargina, la vergogna è – precisa Tisseron – «l’arma privilegiata del dominio su tutti coloro che sono in condizioni di fragilità».

Vivere il ciclo mestruale in carcere

Ed eccoci al dunque. Come vivono le persone con utero il ciclo mestruale in carcere? Una domanda complessa a cui non basta un trafiletto di un articolo web per rispondere. Proviamo a dare qualche informazione base.

La popolazione detenuta femminile rappresenta il 4% della popolazione detenuta italiana totale, ma affronta problematiche legate a un sistema penitenziario pensato al maschile, senza considerare le diverse identità di genere che lo abitano. Gli standard internazionali delle Nazioni Unite (Regole di Bangkok, 2010) promuovono la distribuzione gratuita di assorbenti nelle carceri, ma in Italia l’Amministrazione penitenziaria non garantisce quantità sufficienti né la possibilità di scegliere il tipo di prodotto.

 

Chi lavora e/o ha una rete sociale esterna a sostegno può acquistare gli assorbenti al “sopravvitto”, una sorta di negozio interno al carcere. Chi non ha risorse deve accontentarsi della fornitura minima: uno o due pacchi al mese.

Lascio che a parlare siano alcune testimonianze raccolte durante la scorsa annualità del progetto “Assorbire il cambiamento”, io ho già parlato troppo, come il mio solito.

 

Quando entri in carcere ti viene assegnata una cella, un letto, se nella cella ci sono più persone e ti viene data una “dotazione”: le lenzuola, una specie di asciugamano, un asciughino per i piatti, bicchieri e posate di plastica e una saponetta. Poi, non è detto che te li diano all’inizio, ma comunque puoi chiedere un pacco di assorbenti al mese. Ovviamente sono indecenti come assorbenti, come qualità e soprattutto sono pochi.

Maria

 

Vi dico che prima che uscissi dalla sezione a settembre, gli assorbenti, i vestiti, i prodotti di igiene in generale venivano consegnati solo alle nuove giunte, alle altre no. E se sapevano, a maggior ragione che eri lavorante, ti obiettavano la cosa perché dicevano che non potevi prendere una cosa che toglievi ad altre che non lavoravano e che non potevano permettersi di comprarla. Quindi i materiali rimangono là anche per un nuovo arresto, una nuova giunta. La formula era questa e s’è mantenuta diciamo fino a poco fa, poi mo’ non lo so.

Rosaria

 

Quando sono entrata avevo il ciclo ma non mi hanno dato gli assorbenti. Ho preso il lenzuolo e l’ho strappato poi ho fatto così e via.

-Elena

 

In carcere funziona così, ci si arrangia con quel che si trova. Ti tieni l’assorbente fino a quando regge perché sai che ne hai pochi a disposizione e non sai quando arriveranno altri. Anche quando è estate e il materiale, con il sudore e il sangue in eccesso irrita la pelle.

 

E allora gli assorbenti in carcere servono per restituire alle persone recluse una dignità negata. Per ricordare loro la possibilità di scegliere come gestire il proprio ciclo. Servono perché a fronte delle difficoltà strutturali che devono affrontare nel quotidiano dell’istituzione totale carceraria, almeno non devono pensare a ingegnarsi per permettersi di non sporcarsi durante i giorni delle mestruazioni. E servono per dire che siamo divers3, il ciclo mestruale esiste e vogliamo che i diritti mestruali siano rispettati.

 

Forse non ho stuzzicato abbastanza la tua curiosità, forse sì. In ogni caso, se vuoi far parte del cambiamento ricorda che la raccolta assorbenti per il carcere del PID finisce il 28 maggio. Come puoi partecipare? Qui trovi tutte le informazioni necessarie.

Il carcere in musica

Parte uno

ANDREA

Il carcere è un tema che ha da sempre esercitato un forte fascino sulla musica contemporanea. Dagli albori del rock’n roll fino ad oggi, infatti, numerosi artisti si sono misurati con questo argomento. 

Con questo articolo vogliamo iniziare un ciclo di articoli a tema musicale, per mostrare a modo nostro l’intreccio tra il carcere e la musica nelle sue varie forme.

 

Iniziamo dalle prime rappresentazioni musicali del mondo-carcere: siamo negli anni ‘50 del secolo scorso, negli Stati Uniti d’America. Personaggi iconici come Elvis Presley e Johnny Cash furono tra i primi ad affrontare il tema del carcere, in maniera molto diversa tra loro, puntando i riflettori sul carcere e sulla vita che si svolge al suo interno. 

Elvis Presley propose un’immagine edulcorata, ridente, del carcere e della detenzione nella celeberrima Jailhouse Rock, dove non c’è spazio per il dolore e la sofferenza, ma dove la musica rock’n roll del cantante di Memphis racconta l’irrefrenabile voglia di ballare che dilaga in tutta la prigione, in un ballo che coinvolge agenti e detenuti in una sorta di festa all’interno del carcere. Nulla di più fantasioso! Elvis rappresenta infatti con uno stile spensierato e disimpegnato la cultura giovanile degli anni ‘50, mostrando il tempo trascorso in carcere come una festa senza fine, dove non c’è spazio per la sofferenza e per questioni sociali, ma solo per il divertimento.

Di tutt’altra impronta invece è la rappresentazione data da Johnny Cash, coevo di Elvis, al tema carcere. Molto più realistica la sua narrazione, quasi una narrazione “da dentro” (anche se l’esperienza carceraria di Johnny Cash avvenne quando era già famoso), che trasuda empatia e vicinanza alle precarie condizioni di vita dei detenuti. Una vicinanza che l’artista ha voluto dimostrare con un evento storico: il celeberrimo concerto nella prigione di Folsom. Il 13 gennaio del 1968 infatti Johnny Cash si esibì, insieme alla sua band, per il primo concerto gratuito svolto all’interno di un carcere, davanti ai 2000 ospiti del penitenziario di massima sicurezza di Folsom in California. A dare ancora maggior spessore culturale all’evento fu il fatto che la canzone di chiusura, Greystone Chapel, fu scritta da una persona detenuta proprio a Folsom, e fu interpretata per la prima volta da Johnny Cash nello storico concerto del 1968. Il tutto è poi confluito in un disco, “At Folsom prison”, un disco storico, del quale consigliamo vivamente l’ascolto.
Arrivare a suonare in una prigione fu naturale per Johnny Cash, che spesso aveva trattato il tema della detenzione nelle sue canzoni. Alla prigione di Folsom un giovane Johnny Cash, nel 1955, dedicò una canzone, dopo aver visto un film-documentario che trattava il tema della vita nell’istituto californiano. La canzone si intitolava “Folsom Prison Blues”, usata 13 anni dopo dall’artista come apertura per il live “At Folsom prison”.

Molte canzoni cantate da Johnny Cash trattarono il tema del carcere, almeno una ventina, ma forse quella che più ci ha colpito è “San Quentin”. La canzone parla del penitenziario di San Quentin, teatro di un altro concerto dell’artista, uscito sulla scia del live a Folsom (At San Quentin, 1969), penitenziario che in tempi più recenti ha prestato la sua location per il video di “St. Anger” dei Metallica, registrato nel carcere di San Quentin nel 2003 dalla band metal americana, in un video che mostra l’interno del carcere e centinaia di detenuti spettatori dell’evento inconsueto. In “San Quentin” Johnny Cash racconta il carcere in maniera critica, attacca in maniera diretta e decisa il sistema-carcere che, a detta dell’artista, non rieduca ma tende solo alla distruzione delle persone che lo vivono. La canzone esprime una forte rabbia e un’idea di ribellione, che ben viene espressa dalla risposta che danno i detenuti che la ascoltano per la prima volta, il 23 febbraio del 1969 a San Quentin

Anche grazie a questa canzone e all’eco della sua esibizione a San Quentin, Johnny Cash consolidò la sua immagine di “cantore degli emarginati”, confermandosi come un cantante carismatico e dalla forte sensibilità sociale. Tra i detenuti americani, ovviamente, la sua figura divenne leggendaria. Per la prima volta un artista di fama internazionale, che ad oggi ha venduto più di 100 milioni di dischi in tutto il mondo, mostrava attenzione verso la reale condizione dei detenuti, senza rifugiarsi in ricostruzioni fantasiose ed edulcorate. L’empatia profonda di Cash si può notare in altre canzoni sul tema, canzoni che parlano di carcere, di condannati a morte, di come si vive sia nei reparti per detenuti comuni che nel braccio della morte. Per esempio “Jacob Green” parla del suicidio di un giovane detenuto, che non sopporta più le condizioni di vita del carcere; “Austin Prison” racconta del tentativo di fuga, finito tragicamente con l’uccisione del fuggitivo, di un detenuto nel carcere di Austin. Un’altra canzone che merita di essere citata è “25 minutes to go”, canzone interpretata da Cash ma scritta dal poeta e musicista Shel Silverstein. La canzone racconta gli ultimi 25 minuti di vita di un condannato a morte per impiccagione, in una sorta di macabro conto alla rovescia in cui in maniera sarcastica ogni strofa cantata esprime lo scadere di un minuto, fino ad arrivare al momento in cui il cappio si stringe intorno al collo e la canzone si interrompe bruscamente. 

Sulla figura di Johhny Cash si potrebbe scrivere tantissimo, avendo avuto una lunghissima carriera, che ha attraversato ben 6 decadi, ed è stato spunto per musicisti, registi e artisti in genere. La sua influenza sulla musica occidentale infatti è indubbia, come la profondità e la sensibilità con cui ha affrontato alcune tematiche sociali.

Speriamo che gli spunti offerti in queste poche righe siano utili per chi ci legge, e soprattutto che vi sia venuta voglia di ascoltare quanto proposto in questa prima digressione sul tema “musica e carcere”, che continuerà presto su queste pagine.

Buon ascolto!

La sindrome di Rocky

Donne senza utero

Perché parliamo della sindrome di Rocky? Da quando abbiamo iniziato la campagna Assorbire il cambiamento abbiamo utilizzato l’espressione “persone con utero” per parlare di chi vive il ciclo mestruale, fuori e dentro il carcere. Da un lato ci sono corpi con utero che non sono donne, dall’altro ci sono donne che non hanno un utero, né il ciclo. Tra queste ultime, appunto, le persone che soffrono di una sindrome rarissima:  la Sindrome di Rokitansky, detta anche Sindrome di MRKH o ancora Sindrome di Rocky

E se questo nome ci fa immaginare uno dei pugili più famosi del cinema, forse non è un caso. 

Cos’è la Sindrome di Rokitansky?

La Sindrome di Mayer-Rokitansky-Küster-Hauser (MRKH) è una malattia rara che colpisce circa 1 donna su 4.500 alla nascita. Si manifesta con l’assenza (o lo sviluppo incompleto) dell’utero e della parte superiore della vagina. Mentre le ovaie e le caratteristiche sessuali sono presenti e sviluppate “normalmente”. 

La sindrome di Rocky in genere si scopre durante il periodo dell’adolescenza, uno dei campanelli d’allarme è proprio l’assenza delle mestruazioni. Quando quindi la persona non ha il suo primo menarca entro un tot dalla comparsa delle caratteristiche sessuali femminili come ad esempio la crescita del seno, allora si parla di amenorrea primaria

La diagnosi avviene solitamente tramite ecografia o risonanza magnetica.

Che significa avere la sindrome di Rocky?

Ho scoperto questa sindrome parlando con una mia carissima amica proprio sulla questione “persone con utero”. Entrambe ci siamo messe a immaginare cosa possa significare, perché oltre il fatto che – com’è facilmente intuibile – le ragazze con la sindrome di Rocky non possono portare avanti una gravidanza, anche dal punto di vista dei rapporti sessuali non deve essere una passeggiata. 

Se pensiamo solo al fatto strettamente anatomico, come si è detto prima le ragazze Rocky possono nascere con una vagina più corta o meno sviluppata. Ergo, i rapporti sessuali possono essere dolorosi se non si affronta l’argomento con unɘ specialista. 

Sono diverse le soluzioni per creare o allungare la vagina in modo da permettere rapporti sessuali senza dolore. Direi anche che ne sono contenta!  

  • Dilatatori vaginali: la tecnica più raccomandata;
  • Intervento chirurgico: neovagina.

Oltre alla pura fisicità, come in ogni ambito, possono viversi criticità anche dal punto di vista emotivo. Ed è bello che si creano reti di condivisione delle Rocky’s.

Idem, per quanto riguarda la grande questione della maternità. Soprattutto di questi tempi in Italia in cui uno dei metodi preferiti per dare alla luce una vita anche senza possedere un utero è stato dichiarato reato universale. Se c’è bisogno di dirlo, lo dico: sì, parlo della gestazione surrogata

Ci sono poi altre soluzioni, come il trapianto di utero, anche se è ancora sperimentale e viene fatta solo in alcuni paesi. 

Fonti: Sindromedirokitansky.it, ANIMRKHs Onlu

La comunità di Guerriere Rocky

Negli ultimi anni, grazie anche ai social network, è nata una vera e propria comunità di persone con la sindrome di Rocky. Questi fenomeni contemporanei sono forse uno degli aspetti più positivi dell’utilizzo dei social, forse proprio la loro ragion d’essere iniziale. Nelle community delle Rocky girls si condividono storie e lotte, si promuove consapevolezza e sensibilizzazione.  

La pagina Facebook Guerriere Roki è un esempio di come il supporto reciproco possa fare la differenza. E c’è anche un interessantissimo  documentario su YouTube (link) che racconta storie di donne che hanno trasformato una diagnosi difficile in una battaglia per l’accettazione e il cambiamento

 

Questo focus fa parte della Campagna PID “Assorbire il cambiamento 2.0” – Un’iniziativa che prevede la donazione degli assorbenti in carcere, la realizzazione di laboratori e incontri all’interno di istituti penitenziari femminili e strutture di accoglienza per promuovere maggiore consapevolezza sul ciclo mestruale e sui “nuovi” prodotti igienico sanitari ecologici quali coppetta, slip mestruali e assorbenti lavabili. Leggi di più qui

Carceri: dalle rivolte alla riforma

ANDREA

Nel settembre dello scorso anno la notizia di disordini e di una rivolta scoppiata tra i detenuti del carcere di Regina Coeli a Roma ha portato all’attenzione dell’opinione pubblica l’annoso problema delle condizioni di vita delle persone detenute e delle problematiche connesse alla vita detentiva. Una protesta di questa portata non si registrava da anni, addirittura un’intera sezione dell’istituto romano è stata colpita dalla sommossa, che ha provocato incendi e ha reso l’intero reparto inagibile, con il conseguente trasferimento dei detenuti che vi erano ristretti. Il dibattito pubblico sul tema, purtroppo, è condizionato dalle valutazioni populistiche dei politici, da affermazioni date in pasto ai media che tendono ad alimentare il pregiudizio verso il carcere e verso le persone che, loro malgrado, lo abitano o lo hanno abitato. 

 

Per questo motivo è complesso affrontare questa tematica, che necessiterebbe di ben altro spazio e di un’analisi più approfondita. Oggi vogliamo concentrarci sulle rivolte carcerarie avvenute in Italia, soprattutto su quelle degli anni 60/70 del secolo scorso, e sulla pressione esercitata allora sull’opinione pubblica e sulla politica, che ha portato alla stesura dell’ordinamento penitenziario del 1975.

 

Il tema della rivolta carceraria da sempre ha colpito la fantasia dell’opinione pubblica, incentivata da rappresentazioni non sempre realistiche veicolate dai media e dalla produzione artistica in vari campi (cinema, musica, teatro…).

Il contesto degli anni Sessanta che conduce alle rivolte delle carceri

Negli anni ‘60, grazie al diffondersi di ideali politici di rottura e alla centralità data ai diritti umani dai movimenti politici attivi in varie parti del mondo, una nuova coscienza sociale ha portato ad una crescente insoddisfazione nei confronti delle istituzioni penitenziarie. La funzione repressiva e punitiva, fino ad allora imperante, portava il carcere ad essere una sorta di discarica sociale, in cui venivano relegati gli elementi più scomodi, marginali, in un’ottica di repressione di classe. Numerosi studiosi iniziano ad affrontare il tema della repressione e delle istituzioni totali, tra i più popolari a livello mondiale inseriamo sicuramente Erving Goffman, il quale si concentrò maggiormente sull’istituzione del manicomio e sulla gestione della salute mentale, ma i parallelismi tra manicomio e carcere sono palesi ed ovvi, se letti entrambi utilizzando concetti come quello di “istituzione totale”, coniato da Goffman ed entrato ormai nel vocabolario comune.  Tra gli altri studiosi che hanno contribuito, con le loro opere, ad un approccio critico nell’affrontare il tema del carcere e delle istituzioni totali più in generale ricordiamo Michel Foucault (“Sorvegliare e punire. Nascita della prigione” uscito nel 1975) e, in Italia, lo psichiatra Franco Basaglia, molto attivo nella battaglia per l’umanizzazione dell trattamento psichiatrico, che ha portato alla fondamentale e innovativa legge che ancora oggi porta il suo nome. Il dibattito che è seguito alle analisi degli studiosi è riuscito quindi ad influenzare la politica, rendendo il tema della riforma del sistema carcere una priorità in Italia.

 

Riguardo alla situazione carceraria in Italia è da menzionare un’opera pioneristica, consigliandola a chi non l’avesse ancora letta, ovvero il seminale testo uscito nel 1971: “Il carcere in Italia” di Rizzi e Salierno, una fotografia impietosa del carcere pre-riforma dell’ordinamento penitenziario. 

Salierno offrì una panoramica approfondita del carcere pre-riforma, utilizzando la propria esperienza personale di detenuto, e applicando una lente critica che lo portò a mostrare le contraddizioni in cui versava il sistema penitenziario precedente al 1975, specchio di forti disuguaglianze sociali. Il lavoro di Salierno portò quindi a considerare il carcere non soltanto come un luogo di detenzione, ma come un contesto in cui emergevano con chiarezza le complesse dinamiche di potere, esclusione e marginalizzazione dei reietti della società.

 

Le rivolte, adottando quest’approccio, non vengono viste semplicemente come atti di ribellione, ma come manifestazioni di idee importanti, espressioni di una richiesta profonda di dignità e giustizia sociale proveniente da individui di fatto abbandonati dalla società, relegati in una istituzione che fino a quel momento ha avuto la funzione di raccoglitore del disagio, con lo scopo di mettere da parte e togliere dalla visibilità pubblica gli elementi considerati pericolosi, che avrebbero rischiato di minare alla base la sicurezza della società borghese del secondo novecento. Salierno nel suo imponente lavoro affrontò e denunciò la violenza istituzionale e gli abusi di potere, purtroppo all’ordine del giorno, l’isolamento e la spersonalizzazione delle persone recluse e la mancanza di programmi rieducativi. L’importanza del lavoro di Salierno e delle riflessioni che ne sono scaturite ha condizionato il clima politico del tempo. Tra gli addetti ai lavori il suo testo ha avuto molto successo, essendo la prima ricerca sul campo, facilitata dall’esperienza detentiva vissuta dall’autore. Le politiche pubbliche che investivano il mondo carcerario quindi, nell’idea di Giulio Salierno, andavano riformate radicalmente, le pratiche all’interno delle carceri andavano ripensate, bisognava rielaborare il concetto di riabilitazione, sostituendolo a quello, ormai obsoleto ed ingiusto, di mera punizione.

Le rivolte e i detenuti politici

Già dal 1945 in Italia si affacciarono fatti di cronaca che avevano come protagonisti i detenuti e le loro rivolte, ma per una presa di coscienza vera e propria, e per parlare di movimento dei detenuti, dobbiamo aspettare le lotte dei detenuti avvenute nel biennio 1968/1969. In quegli anni la composizione della popolazione detenuta stava cambiando radicalmente: molti giovani provenienti dai movimenti politici antagonisti entravano in carcere, come conseguenza della repressione esercitata su chi partecipava ad attività politiche, anche violente, ormai diffuse su tutto il territorio italiano e non solo. Per la prima volta entravano in massa nuovi detenuti, con un background politico definito e una formazione scolastica più avanzata di chi fino a quel momento aveva riempito le carceri italiane. Si diffuse quindi a macchia d’olio il dissenso tra le persone detenute di tutta la penisola, questa volta in una forma di movimento sociale più strutturato che, a differenza delle ribellioni avvenute dal secondo dopoguerra in poi, che avevano come obiettivo la risoluzione di singole questioni pratiche e rivendicazioni inerenti la vita quotidiana, aveva come obiettivo dichiarato una riforma profonda del sistema penitenziario, una riforma radicale che doveva modificare quel luogo che fino ad allora era destinato alla punizione e a null’altro.

Le rivolte carcerarie esprimevano una manifestazione di malessere profondo e radicato, tendevano a far emergere le contraddizioni insite nel sistema penitenziario, evidenziando le ingiustizie e la natura profondamente classista della giustizia italiana. Il deflagrare delle rivolte carcerarie ha quindi portato l’opinione pubblica a focalizzarsi sul carcere, a cominciare a riflettere sul futuro delle persone che vi sono ristrette. La pressione dell’opinione pubblica ha portato all’azione il sistema politico, con la stesura di un ordinamento ancora oggi considerato all’avanguardia per le soluzioni proposte in ottica rieducativa e di reinserimento sociale

Carceri: dalle rivolte alla riforma

Il culmine di questo processo appare quindi nel 1975 con la riforma dell’ordinamento penitenziario italiano, ancora in vigore, che ha introdotto concetti molto all’avanguardia per il tempo come quello di reinserimento sociale, di trattamento, di osservazione scientifica della personalità, di misure alternative alla detenzione. La multidisciplinarietà è la chiave per comprendere al meglio la personalità della persona detenuta, per elaborare un percorso di reinserimento sociale valido, finalizzato al reale reinserimento. La sfida dell’ordinamento penitenziario e della ventata politica del tempo fu riposta nell’idea di trasformare le carceri da luoghi di punizione a spazi dedicati alla riabilitazione e al reinserimento. I programmi educativi e formativi, nell’idea che ha ispirato il legislatore, possono ridurre il tasso di recidiva, e contribuire quindi a modellare una società più giusta. 

Sicuramente i movimenti politici, sia interni che esterni al mondo carcerario, hanno influenzato le scelte politiche che hanno portato alla riforma del 1975.

La domanda che ci poniamo oggi è la seguente: è possibile che le rivolte carcerarie recenti siano nuovamente un campanello d’allarme che non possa essere trascurato, che meriterebbe come risposta una presa di coscienza del problema-carcere da parte della politica, la quale dovrebbe aprire una riflessione seria che coinvolga gli addetti ai lavori e le persone detenute per portare ad una nuova svolta, ad un ulteriore passo in avanti verso un’istituzione carceraria diversa da quella che conosciamo, più in linea con quello che è il suo mandato costituzionale?

La speranza, vista la criticità del sistema penitenziario che vediamo oggi, è che si colgano gli input provenienti anche dall’Unione Europea, finalizzati a rendere più umano e non degradante il percorso carcerario in Italia, che ciò porti ad una consapevolezza diffusa che le migliaia di corpi ammassati nelle carceri italiane in condizioni spesso difficili, in realtà sono abitati da persone, individualità portatrici di diritti al pari di chi non è nella condizione di detenuto, e ancor di più: le persone detenute possono essere delle risorse per la collettività, possono e devono diventarlo. Il compito della politica a questo punto sarebbe il favorire la costruzione di un sistema diverso, in cui ci siano effettivamente pari opportunità per tutte e tutti, realizzando quanto previsto dalla Costituzione del 1948.

 

Per concludere il tema affrontato ci concediamo una digressione nel mondo della musica italiana, riportando un testo che esprime molto i concetti finora espressi, frutto di una delle menti più sensibili ed acute mai esistite nel panorama musicale italiano: Fabrizio De Andrè.

La sua “Nella mia ora di libertà”, uscita nel 1973, ci catapulta direttamente nel contesto di quegli anni, raccontando la storia di un detenuto e della sua presa di coscienza politica avvenuta in carcere, esperienza che culmina con una rivolta carceraria. Ci sono tutti i temi che abbiamo affrontato in questa parziale disamina, arricchiti dalla potenza evocativa della poetica di Fabrizio De André, in una testimonianza splendida che non può lasciare indifferenti.

 

Fabrizio De André – Nella mia ora di libertà

Di respirare la stessa aria

D’un secondino non mi va

Perciò ho deciso di rinunciare

Alla mia ora di libertà

Se c’è qualcosa da spartire

Tra un prigioniero e il suo piantone

Che non sia l’aria di quel cortile

Voglio soltanto che sia prigione

Che non sia l’aria di quel cortile

Voglio soltanto che sia prigione

È cominciata un’ora prima

E un’ora dopo era già finita

Ho visto gente venire sola

E poi insieme verso l’uscita

Non mi aspettavo un vostro errore

Uomini e donne di tribunale

Se fossi stato al vostro posto

Ma al vostro posto non ci so stare

Se fossi stato al vostro posto

Ma al vostro posto non ci so stare

Fuori dell’aula sulla strada

Ma in mezzo al fuori anche fuori di là

Ho chiesto al meglio della mia faccia

Una polemica di dignità

Tante le grinte, le ghigne, i musi

Vagli a spiegare che è primavera

E poi lo sanno, ma preferiscono

Vederla togliere a chi va in galera

E poi lo sanno, ma preferiscono

Vederla togliere a chi va in galera

Tante le grinte, le ghigne, i musi

Poche le facce, tra loro lei

Si sta chiedendo tutto in un giorno

Si suggerisce, ci giurerei

Quel che dirà di me alla gente

Quel che dirà ve lo dico io

Da un po’ di tempo era un po’ cambiato

Ma non nel dirmi amore mio

Da un po’ di tempo era un po’ cambiato

Ma non nel dirmi amore mio

Certo bisogna farne di strada

Da una ginnastica d’obbedienza

Fino ad un gesto molto più umano

Che ti dia il senso della violenza

Però bisogna farne altrettanta

Per diventare così coglioni

Da non riuscire più a capire

Che non ci sono poteri buoni

Da non riuscire più a capire

Che non ci sono poteri buoni

E adesso imparo un sacco di cose

In mezzo agli altri vestiti uguali

Tranne qual è il crimine giusto

Per non passare da criminali

Ci hanno insegnato la meraviglia

Verso la gente che ruba il pane

Ora sappiamo che è un delitto

Il non rubare quando si ha fame

Ora sappiamo che è un delitto

Il non rubare quando si ha fame

Di respirare la stessa aria

Dei secondini non ci va

E abbiam deciso di imprigionarli

Durante l’ora di libertà

Venite adesso alla prigione

State a sentire sulla porta

La nostra ultima canzone

Che vi ripete un’altra volta

Per quanto voi vi crediate assolti

Siete per sempre coinvolti

Per quanto voi vi crediate assolti

Siete per sempre coinvolti

Libere di Scegliere: il Progetto PRIN PHOENIX

Percorsi di rinascita per donne e bambin3 in condizioni di marginalità

TIZIANA
Il 14 febbraio 2025, presso l’Università Roma Tre, si è tenuto il convegno Libere di Scegliere, un evento di grande rilievo che ha presentato i primi risultati della ricerca condotta nell’ambito del progetto PRIN PHOENIX. Questo studio, finanziato come Progetto di Ricerca di Interesse Nazionale, vede la collaborazione delle Università di Firenze, Roma Tre e Foggia, con l’obiettivo di indagare e contrastare la marginalità femminile.

Il cuore della ricerca: comprendere e supportare le donne in condizioni di vulnerabilità

Le relatrici, coordinatrici del lavoro di ricerca, hanno condiviso esperienze profonde ed emozionanti emerse dall’incontro con donne ospitate in case di accoglienza o rifugio. Attraverso interviste dirette, si è evidenziato come l’interazione con queste persone abbia trasformato non solo il loro percorso di ricerca, ma anche il loro approccio emotivo e relazionale.

Il progetto PRIN PHOENIX si propone di creare reti di accoglienza efficaci, capaci di contrastare il senso di solitudine e abbandono interiorizzato da chi ha vissuto maltrattamenti e violenze. Un aspetto chiave emerso durante il convegno è stato il ruolo del lavoro e dell’inserimento professionale come strumenti per restituire dignità e autonomia alle donne che vivono in condizioni di marginalità.

La Genitorialità consapevole e il percorso di sorellanza

Un punto di particolare interesse è stato il lavoro con madri che hanno subito violenza, mettendo in luce l’importanza di un percorso di acquisizione di una genitorialità consapevole e responsabile. La violenza subita, infatti, influisce non solo sulla donna, ma anche sulle sue risorse per crescere i/le propr3 figl3 in un ambiente sicuro.

Le interviste sono state vissute come un momento di sorellanza, un’occasione in cui le persone hanno potuto trovare solidarietà, ascolto e consapevolezza reciproca. Questo ha sottolineato il ruolo cruciale delle ricercatrici non solo come studiose, ma anche come figure di supporto e vicinanza.

La formazione del personale e la riprogettazione dei servizi

Un altro aspetto fondamentale emerso dal convegno è stato il nodo della formazione del personale che opera nei centri di accoglienza. Il progetto mira a individuare le competenze essenziali per chi lavora con donne vulnerabili, fornendo strumenti adeguati per affrontare le sfide della marginalità femminile.

L’area di lavoro privilegiata è stata l’intervista e la raccolta di dati attraverso un percorso esclusivamente orale. Dai risultati è emersa la necessità di ripensare e ampliare i servizi dedicati, non solo per sostenere le donne nel percorso di consapevolezza della loro condizione, ma anche per accompagnarle verso l’emancipazione.

Donne e detenzione: oltre lo stigma

Un tema particolarmente delicato affrontato nel convegno è stato quello della detenzione femminile. Il carcere, oltre alla pena, porta con sé lo stigma della donna colpevole, aggravato dal senso di abbandono che le madri detenute provano nei confronti dei/lle figl3.

Anche in questo contesto emerge la necessità di una nuova progettazione educativa, che permetta alle donne di ripensare alle proprie aspirazioni e di acquisire consapevolezza della loro condizione. Il concetto di empowerment diventa essenziale per fornire strumenti di capacitazione che consentano alle donne di ricostruire la propria vita, dentro e fuori dal carcere.

Guardare al futuro: libere di scegliere

Il convegno ha posto l’accento sull’importanza di lavorare per il dopo, per il momento in cui queste donne dovranno riprendere in mano la propria vita. L’uso delle abilità apprese, il supporto delle reti sociali e l’inserimento lavorativo rappresentano le chiavi per una vera rinascita.

Il progetto PRIN PHOENIX non si limita a un’analisi della marginalità, ma si propone come un percorso concreto di riscatto, dando voce a chi troppo spesso viene lasciato ai margini e offrendo strumenti per una reale trasformazione personale e sociale.

La libertà d’amore

A San Valentino si celebra l’amore, l’amore struggente, durevole, eterno. L’amore passionale che ti incasina la mente, l’amore dei film e dei bigliettini a forma di cuori. Quell’amore lì che vediamo negoziarsi tra gelosie e inganni, che i poeti raccontano come una morsa che stringe le viscere. Quell’amore lì, certo ci parla alla pancia, ma abbiamo imparato tragicamente il suo non essere amore. 

 

“Tossico” è l’aggettivo di cui abusiamo, soprattutto in questi tempi di decostruzione delle certezze soffocanti, per descrivere un amore che ci intrappola e ci nega la libertà. Lo leggiamo sui post social, banalizzato in guide circoscritte che dicono di spiegartelo in 5 punti. “Come riconoscere una relazione tossica” e robe del genere. Si promuove consapevolezza, o si finisce per allontanarsi dalla profondità delle emozioni, senza saper riconoscerle, o comprenderle? La verità è che ci interroghiamo molto negli ultimi tempi su come narrare la libertà d’amare, non solo a San Valentino, e non solo l’amore romantico. Quando si pubblicano contenuti seri e un po’ difficili da affrontare sui social d’intrattenimento, ci si fanno mille domande. Verrà recepito il messaggio? Questo è il modo migliore per scriverlo? L’immagine è rappresentativa o solo accattivante? 

 

L’amore romantico

Il modello di amore romantico è molto noto, è un po’ quello che abbiamo introdotto sopra, naturalizzato dalla nostra cultura occidentale come quel sentimento fatale che unisce due persone in un vincolo esclusivo, durevole e duraturo che in genere viene sancito istituzionalmente con il contratto matrimoniale. L’amore romantico è appunto un modello, non è certo universale, come invece si è soliti pensare. La naturalizzazione del sentimento di amore romantico sembra esserci stato instillato dalle generazioni precedenti, pensiamo a Paolo e Francesca.

Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende,

prese costui della bella persona

che mi fu tolta; e’ l modo ancor m’offende.

Amor, ch’a nullo amato amar perdona,

mi prese del costui piacer sí forte,

che, come vedi, ancor non m’abbandona.

Amor condusse noi ad una morte:

Caina attende chi a vita ci spense».

Queste parole da lor ci fuor porte.

Difficile non emozionarsi al cospetto di Dante! Ci viene insegnato fin da bambin3 questo tipo di amore, pur vagamente. Eppure non per tutt3 universale e naturale, ma piuttosto un modello prodotto dalla storia occidentale, all’interno delle classi dominanti prima e diffuso con i media e la cultura di massa poi. Proprio attraverso quest’ultima l’amore romantico trionfa come modello, si radica, pervade le convizioni per cui frasi come “sei tutto per me” diventano il grimaldello per accedere all’unico amore possibile: quello romantico. 

 

Con l’industrializzazione e la società di mercato si innesca un processo di individualizzazione che di questo modello d’amore ne tenta di far emergere la libertà decisionale.

 

Il sociologo Anthony Giddens si muove contro la concezione foucaultiana della presa in carico istituzionale delle pratiche, dei discorsi e dei sentimenti privati riguardo all’amore. E spiega la nascita più recente di un’idea nuova che consiste nella “nozione di amore come relazione pura”, diffusa negli ultimi decenni del Novecento all’interno della cultura occidentale. (Fabio Dei, 2016) Una relazione pura è quella svincolata dalle regole opprimenti dei tempi della repressione sessuale, del modello contrattualistico matrimoniale, della costruzione di un rapporto cioè che rispetti ruoli costitutivi e che abbia una continuità obbligata. Una relazione che si costruisce sulla base dei benefici reciproci e che finisce nel momento in cui questi vengono a mancare. 

La relazione pura è ancora nell’amore romantico, ma forse va un po’ oltre, ed è quella che supera la narrazione dell’incontro fatale d’un amore eterno, ma ne produce un’altra che attraverso film, musica, serie tv – e oggi reel, caroselli, montaggi emozionanti – ci fornisce un repertorio di storie che ci danno la concretezza sociale delle relazioni pure. (ibidem)  

 

L’amore oltre la coppia, oltre la coppia eteronormativa

Tutto bello ma riconosciamo oggi una realtà ancora diversa, un amore libero di darsi e di dirsi. Un amore che va ancora oltre la relazione pura e parte dal Sè, passa per le persone che per caso o scelta abbiamo accolto nella nostra vita, si relaziona in rapporti plurimi, in relazioni stabili o temporanee, condivide spazi, passioni, porzioni di mondi. Un amore dell’oltre le etichette, fine a se stesso. Esistono relazioni che a discapito di una certa propaganda che ne sporca l’autenticità appiccicandoci sopra espressioni negativizzanti quali “ideologia gender”, sono amorosamente reali nel solo esistere in questa realtà

 

E c’è la l’amore dell’amicizia e quello parentale, c’è l’amore dell’essere single e mai sol3, c’è l’amore che ci stringe in terzetti o in quartetti. C’è quello tra uomini e donne, quello di un uomo nei confronti di un altro e quello di due persone che non si definiscono con i generi dominanti. Tutta questa diffusione infinita d’amore dovrebbe portarci solo che gioia, per chi scrive è così. 

 

Non so molto dell’amore ancora, non credo neppure si possa sapere tanto in generale, perché alla fine non possiamo definirlo per caratteri e darci una definizione unica e universale. L’abbiamo detto, l’amore che conosciamo è un modello, quello che viviamo spesso ne è condizionato ma se ci guardiamo dentro e continuiamo a scavare, l’amore poi cos’è?

Per me l’amore è rispetto assoluto, è quando dai fiducia all’altro da te, è sentirsi al sicuro, spogliarsi di tutto e restare nud3 con le proprie fragilità. 

 

L’amore in carcere

«Lì fuori lo chiamano amore, ma dentro il carcere è meglio non parlare di queste cose» scrive Piero Vereni raccontando di un amore nato tra “un articolo 17” (un volontario) e una persona dipendente del penitenziario in cui ha svolto etnografia. 

L’affettività negata in carcere fa pensare che l’istituzione abbia paura dell’amore, come se un «legame affettivo con una persona (esterna) in intimità amichevole con molte persone detenute potrebbe ridurre proprio la distanza tra personale e detenuti, sovvertendo in uno spazio liminare la frattura moderna tra chi è recluso e chi è libero» (P. Vereni, 2017)

 

Una tematica che abbiamo affrontato in più di un’occasione: Intimità e affetti in carcere; Il detenuto “adultolescente” e che in questi giorni rimbalza sulle testate giornalistiche per la prima volta con notizie positive. 

Nelle carceri di Parma e Terni due persone detenute hanno ottenuto la possibilità di avere colloqui intimi, inclusi rapporti sessuali, senza la supervisione della polizia penitenziaria. Questo è avvenuto grazie soprattutto alla sentenza della Corte Costituzionale di gennaio dello scorso anno, con la quale si è dichiarato illegittimo il divieto di affettività e sessualità in carcere

 

Di strada ce n’è ancora, ma per oggi, almeno per le due coppie riunite di Terni e Parma, accogliamo la gioia. E vi auguriamo buon San Valentino, qualsiasi modello d’amore viviate.

 

Questo focus fa parte della Campagna PID “Assorbire il cambiamento 2.0” – Un’iniziativa che prevede la donazione degli assorbenti in carcere, la realizzazione di laboratori e incontri all’interno di istituti penitenziari femminili e strutture di accoglienza per promuovere maggiore consapevolezza sul ciclo mestruale e sui “nuovi” prodotti igienico sanitari ecologici quali coppetta, slip mestruali e assorbenti lavabili. Leggi di più qui

 

Riferimenti

  • Dei (2016) “Antropologia culturale” 
  • Vereni (2017) “Catene d’amore, ovvero la statalità del male”

Il diritto alla salute in carcere

La morte di Carmine Tolomelli

Diritto alla salute in carcere? Non so se avete sentito di un uomo che è morto in carcere a causa di una grave malattia epatica a febbraio dello scorso anno. A ricordarcelo è Ristretti Orizzonti che ci parla del “diritto alla salute negato” dall’istituzione penitenziaria. 

 

Si chiamava Carmine Tolomelli e la sua storia viene raccontata proprio in questi giorni dall’associazione Quei Bravi Ragazzi Family che denuncia l’inconsistenza dei diritti sanitari in carcere.  

Carmine era un detenuto affetto da una grave malattia epatica che ha passato anni in attesa di un trattamento adeguato: 5 anni di istanze per ottenere un ricovero in luoghi più adatti non hanno trovato riscontri positivi, nonostante le sue condizioni fossero disperate. 

Le autorità non hanno preso in considerazione le sue condizioni, continuando a ignorare le richieste di sostituzione della misura cautelare con la detenzione domiciliare. All’aggravarsi delle già complesse condizioni mediche dell’uomo viene predisposto un trasferimento d’urgenza in ospedale. 

Il 24 febbraio 2024 Carmine Tolomelli muore poche ore dopo il ricovero

Questo tragico caso solleva importanti interrogativi sulla gestione della salute nelle carceri italiane. Come per molte cose (e questo vale anche fuori dall’istituzione penitenziaria): da un lato ci sono le leggi che dovrebbero garantire il diritto alla salute; dall’altro c’è la realtà quotidiana che è ben diversa.

La morte di Carmine non è un caso isolato. Il sistema penitenziario italiano, in molti casi, non riesca a rispondere adeguatamente alle necessità sanitarie di chi vi è rinchiuso.

Un’altra vita reclusa che è stata spezzata. E forse allora il problema è il carcere? La morte di Carmine non deve essere dimenticata, ma deve servire da spunto per un cambiamento radicale, per evitare che altre tragedie simili si ripetano.

Il diritto alla salute e il SSN in carcere

Era il 2008 quando è stato avviato il trasferimento delle funzioni in materia di sanità penitenziaria al SSN (Sistema Sanitario Nazionale). Il passaggio dal campo amministrativo del ministero di Giustizia a quello dell’Asl del territorio, spiegano Kalika e Santorso, è stato un processo lungo:

 

«[…] realizzato con modalità e soprattutto tempistiche assai differenziate nel panorama penitenziario nazionale. » – Farsi la galera. Spazi e culture del penitenziario.

 

L’obiettivo era quello di equiparare il trattamento sanitario per tutte le persone del territorio, sia libere che recluse. 

Ma il carcere genera malattie tutte sue, ricordate il carcelazo del carcere di San  Pedro? Il personale medico presente nell’istituzione ancora prima della riforma lo sapeva bene: il carcere presenta patologie peculiari dovute alle condizioni di marginalità sociale dei detenuti.

 

«Nonostante alcune differenze relative agli assetti del servizio, le Asl non hanno riconosciuto esplicitamente queste peculiarità ma tendenzialmente individuato dei responsabili preposti all’organizzazione del lavoro del personale medico e infermieristico nelle prigioni, spingendo con intensità molto variabile verso un progressivo turn over del personale. Uno dei tratti innovativi della riforma va in effetti letto a sottrarre medici e infermieri dal controllo gerarchico dell’amministrazione penitenziaria, con l’evidente finalità di renderli più autonomi e indipendenti. Un obiettivo di cruciale importanza, giacché la componente sanitaria compartecipava con un ruolo fondamentale alla gestione della quotidianità penitenziaria. Al di là delle delicate meccanismi di socializzazione ambientale e professionale accentuati dal nuovo assetto, esso tende a rinforzare, almeno formalmente, l’idea del medico come figura in grado di esercitare un contropotere a fronte delle direzioni degli istituti e dei comandi di polizia penitenziaria (Ronco 2011; Cherchi 2017).» – Farsi la galera. Spazi e culture del penitenziario.

 

Nei fatti la questione del diritto alla salute in carcere si traduce in tempi di attesa lunghissimi per accedere a visite specialistiche (quando ci si riesce) e  nella totale noncuranza delle condizioni mediche delle persone recluse, che come nel caso di Carmine, si rivela poi fatale.

 

Il nostro pensiero va a Carmine Tolomelli e ai suoi cari.

Come il patriarcato influisce sulle vite delle persone detenute negli istituti femminili

La popolazione detenuta femminile in Italia rappresenta circa il 4 per cento del totale, più precisamente, al 31 marzo 2024, come rilevato dall’associazione Antigone, le donne recluse erano 2.619. Un numero basso se messo a confronto con il totale della popolazione detenuta (61.049 persone recluse).

 

Sappiamo che molta attenzione è data alle persone detenute negli istituti femminili in rapporto alla loro condizione di madri. Che se da un lato rappresenta una risposta necessaria – ma non sufficiente – alla paradossale esperienza di molte bambine e bambini che si trovano a muovere i primi passi nell’ambiente carcerario; dall’altra rispecchia una società che ritiene centrale il diritto di una donna di essere madre a discapito del diritto di una persone di essere e autodeterminarsi come vuole. Vero anche che con il nuovo Ddl Sicurezza, questa gentile accortezza nei confronti delle donne incinte, sembra esser messa in dubbio: proprio alcuni giorni fa infatti la società civile si è espressa contro l’incarceramento delle donne incinte presso il Senato della Repubblica (qui il link). 

Oltre alle madri, quando si parla di “donne” nell’Ordinamento Penitenziario?  

Sono principalmente due gli articoli dell’Ordinamento penitenziario specifici per la regolamentazione delle persone detenute negli istituti femminili. 

  • Articolo 14: “Assegnazione, raggruppamento e categorie dei detenuti e degli internati”

“Il numero dei detenuti e degli internati negli istituti e nelle sezioni deve essere limitato e, comunque, tale da favorire l’individualizzazione del trattamento.

L’assegnazione dei condannati e degli internati ai singoli istituti e il raggruppamento nelle sezioni di ciascun istituto sono disposti con particolare riguardo alla possibilità di procedere ad un trattamento rieducativo comune e all’esigenza di evitare influenze nocive reciproche. Per le assegnazioni sono, inoltre, applicati di norma i criteri di cui al primo ed al secondo comma dell’ articolo 42 .

É assicurata la separazione degli imputati dai condannati e internati, dei giovani al disotto dei venticinque anni dagli adulti, dei condannati dagli internati e dei condannati all’arresto dai condannati alla reclusione.

É consentita, in particolari circostanze, l’ammissione di detenuti e di internati ad attività organizzate per categorie diverse da quelle di appartenenza.

Le donne sono ospitate in istituti separati o in apposite sezioni di istituto.”

  • Articolo 42-bis: “Traduzioni”

“Sono traduzioni tutte le attività di accompagnamento coattivo, da un luogo ad un altro, di soggetti detenuti, internati, fermati, arrestati o comunque in condizione di restrizione della libertà personale.

Le traduzioni dei detenuti e degli internati adulti sono eseguite, nel tempo più breve possibile, dal corpo di polizia penitenziaria, con le modalità stabilite dalle leggi e dai regolamenti e, se trattasi di donne, con l’assistenza di personale femminile. […]”

 

Se nell’Ordinamento penitenziario l’attenzione nei confronti delle specifiche esigenze femminili è scarsa, qualcosa migliora con il Regolamento di esecuzione del 2000.

 

  • L’articolo 8  sull’igiene personale
  • L’articolo 9 sul vestiario e il corredo
  • L’articolo 7 sulla presenza del bidet in cella 

 

Il paradosso di cui parlano Franca Garreffa e Daniela Turco nel focus “Le donne nei Poli universitari penitenziari: ostacoli e prospettive di sviluppo” (Primo Rapporto sulle donne detenute di Antigone) riguarda una doppia tendendenza opposta tra il fuori e il dentro: da un lato, c’è la lotta contro l’abbattimento delle differenze tra i generi, dall’altra il mettere in evidenza le stesse diversità nell’ambito dell’esigenze detentive femminili

 

Un paradosso che potremmo complessificare, osservando che l’abbattimento delle differenze non nega le diverse esigenze e ne anzi mette in risalto le problematiche legate al mancato riconoscimento. Non è dunque un problema di per sé la differenza tra i sessi e i generi, ma il diverso trattamento che viene riservato alla componente maschile, la rigidità dei ruoli sociali assegnati, la contrapposizione agonistica tra un noi e un loro e i rapporti di potere che essa genera e che caratterizzano la società contemporanea; sia libera che reclusa, perché, ricordiamolo, apparteniamo tutt3 alla stessa. 

Si tratta di quel concetto di equità che dovrebbe essere alla base di uno stato che si dice democratico: non uguale per tutte le persone ma uguale in base alle specifiche condizioni delle persone prese in considerazione. 

Istruzione, formazione e opportunità per le persone detenute negli istituti femminili

Pubblicato su Ristretti Orizzonti, l’articolo di Manuela D’Argenio di novembre 2024 per tgcom24.mediaset.it, è introdotto così:

«Le sezioni femminili restano inadeguate, le attività professionali sono poco variegate, l’accesso agli studi non è uguale per tutti: la discriminazione di genere, di fatto, è rimasta immutata. Il carcere come istituzione totale è una struttura pensata per uomini in cui si riscontra, anche nei documenti ministeriali, un’incapacità di rielaborarlo al femminile». (Qui il link)

D’Argenio evidenzia i numerosi problemi esistenti all’interno del sistema carcerario legati alla discriminazione di genere. Le persone detenute negli istituti femminili spesso sono sottoposte a stereotipi e aspettative tradizionali legate al “comportamento femminile”. Infatti vengono introdotte ad attività come il ricamo e l’uncinetto, in contrasto con la maggior offerta di attività prevista per la componente maschile. Un’ulteriore tendenza di differenziazione riguarda l’accesso a opportunità lavorative e formative: esiste infatti un’alta disparità nell’accesso agli studi universitari tra popolazione carceraria maschile e femminile. 

 

Sembra chiaro che il dato numerico inferiore delle detenute e la loro distribuzione nelle sezioni femminili di carceri maschili contribuiscono – insieme alle suddette condizioni stereotipate con cui vengono pensate attività e servizi nell’istituzione penitenziaria – a una visibile marginalizzazione e a una scarsità di percorsi di reinserimento sociale adeguati.

Corpi ristretti e sensi di colpa

Sono meno persone sì, ma sono pure meno strutture. E quindi, se il sovraffollamento carcerario ad oggi è pari al 132% (qui il link), sembra che siamo proprio le carceri femminili a risentirne di più. 

Le persone detenute negli istituti femminili si trovano a vivere ammassate l’un l’altra e per di più in strutture pensate per la categoria di genere maschile, il che contribuisce a una mancanza di supporto e di risorse dedicate.

La discriminazione di genere in carcere è radicata nella concezione stessa della pena e nella struttura dell’istituzione che grava nell’emergenza continua data l’assenza di riflessione sulle condizioni di vita interne.

Spesso inoltre è presente quel tipico assorbimento dello “spirito abnegante” caratterizzante il ruolo di accudimento e cura assegnato culturalmente alle persone con utero ancor prima della nascita che si esplicita nel senso di colpa nei confronti di figli, compagni, padri e mariti lasciati fuori. Il senso di colpa può tradursi in atteggiamenti di sottomissione, atti di autolesionismo, suicidi o uso prolungato di psicofarmaci: tutti fattori che sembrano essere più frequenti tra la popolazione detenuta femminile rispetto alla maschile. 

 

Forse la bassa percentuale delle presenze femminili in carcere è uno dei motivi per cui sembra più difficile per le persone di genere femminile in carcere accedere a quei benefici – come corsi di professionalizzazione o universitari – maggiormente preposti per la componente carceraria maschile. Forse, invece, sono gli aspetti di una cultura patriarcale e omotransfobica che sono duri a morire e che condizionano la vita e i rapporti tra i generi sia fuori che dentro il carcere. 

O forse, entrambe le cose. 

Questo focus fa parte della Campagna PID “Assorbire il cambiamento 2.0” – Un’iniziativa che prevede la donazione degli assorbenti in carcere, la realizzazione di laboratori e incontri all’interno di istituti penitenziari femminili e strutture di accoglienza per promuovere maggiore consapevolezza sul ciclo mestruale e sui “nuovi” prodotti igienico sanitari ecologici quali coppetta, slip mestruali e assorbenti lavabili. Leggi di più qui

Un cartone animato Disney che spiega le mestruazioni: The story of menstruation (1946)

Siamo 1946 in America: la Disney viene finanziata e commissionata dalla International Cello-Cotton Company – una nota azienda produttrice di assorbenti – a dar vita a un cortometraggio che spiegava alle bambine e alle ragazze le mestruazioni, “The Story of Menstruation”. Per garantire l’accuratezza scientifica e ottenere il supporto di medici e infermieri scolastici, fu coinvolto un ginecologo come consulente nella produzione.

Il corto “The Story of Menstruation” dura dieci minuti e, con la voce di Gloria Blondell, spiega con precisione il ciclo mestruale, pur mantenendo un tono distaccato e senza essere troppo espliciti. Possiamo pensare che per i tempi, il corto rappresenti una una novità educativa all’avanguardia, ma proprio contestualizzando il periodo storico in cui è stato prodotto, non stupisce che “The Story of Menstruation” presenta degli aspetti critici. Se fino a poco tempo fa il ciclo nelle pubblicità era simpaticamente colorato di blu, il sangue mestruale nel cartone Disney è rappresentato in bianco e nelle animazioni tra le parti dell’apparato genitale femminile risulta assente all’appello la vulva

 

Per essere pensato nel 1946, “The Story of Menstruation” è stato uno strumento pedagogico importante, inoltre non si possono negare almeno due aspetti sinceramente apprezzabili: 

  • Viene smentito il falso mito del “non ci si lava con il ciclo” invitando il pubblico a non smettere di fare il bagno durante il ciclo mestruale ma a fare attenzione alla temperatura dell’acqua, che non sia né bollente, né gelata. 
  • Vengono spiegati la crescita e i cambiamenti del corpo, specificando che questi processi generano le diversità tra i corpi delle persone in modo rassicurante.  

 

La storia è semplice e racconta non pochi stereotipi di genere: una bambina in fasce viene seguita nel corso della sua crescita fino al giorno in cui diventerà moglie e mamma a sua volta di una bambina. Il film presenta le mestruazioni come «una parte del piano eterno della natura per trasmettere il dono della vita».

Una delle prime lampanti problematiche è la divisione di genere nelle classi durante la visione del cortometraggio. Dai commenti su Youtube sotto il video, leggiamo ad esempio:

Noi bambini abbiamo visto questo film nella quinta elementare negli anni ’60. I genitori dovevano firmare un’autorizzazione per permetterci di vederlo. All’epoca mi sorprese davvero quando ci dissero che avremmo visto il film. In classe? Durante l’ora di ginnastica? Non ricordo, ma i ragazzi non furono informati perché le cose erano diverse allora e tutto era molto segreto.

 

Si spiega alle bambine americane degli anni Cinquanta e Sessanta che bisogna cercare di non abbattersi per la stanchezza, di non lasciare che il ciclo interrompa le attività quotidiane: come ad esempio, si vede bene nelle immagini, quella di pulire casa

Il cortometraggio Disney inoltre invita il pubblico a non piangersi addosso, a prendere quei giorni con filosofia, così che sia possibile passarli con un bel sorriso in faccia e senza sbalzi d’umore. Anche perché, nonostante come ci sentiamo, bisogna vivere con le persone e con noi stesse

 

Alcune affermazioni o immagini fanno sorridere, altre ci fanno salire l’amaro in bocca. Non tanto perché non comprendiamo che “The Story of Menstruation” è un cartone animato del 1946 e rispecchia l’immagine dei rapporti di genere dell’epoca; ma perché nel 2025 oltre ad esserci persone che negano l’esistenza di una cultura patriarcale e omotransfobica, ci sono fondi stanziati per la «formazione degli insegnanti su fertilità maschile e femminile, con un focus sulla prevenzione dell’infertilità». Un’educazione “sessuo-affettiva” nulla, che probabilmente sarà più simile al video della Disney del ‘46 che non a quello per cui ci si batte quotidianamente: un’educazione al consenso, alla parità dei generi plurimi, alla libertà di autodeterminazione, al rapportarsi con una sessualità sicura e libera.

In ogni caso, se vi abbiamo incuriosito qui lasciamo il link del cortometraggio: “The Story of Menstruation”.

 

Quando leggiamo “menstruation” può sembrarci strano la presenza della parola “men” a nominare uno degli aspetti caratterizzanti della vita biologica del femminile. Potremmo perfino infastidirci della cosa, ma per quanto possa sembrare ironico, è solo una coincidenza dovuta all’etimologia di queste parole. Sulla piattaforma Quora un utente, Dhaval Rathod ha spiegato:

La parola “man” ha una radice che affonda fino al sanscrito “manu”, che secondo la mitologia induista è considerato il primo uomo. Le parole relative a “menstruation” derivano dalle radici latine “mensis” (mese) e “menstrua” (mensile). La stessa radice è anche responsabile delle parole “semester” [sex (sei) + mensis (mese)] e “trimester” [tri (tre) + mensis (mese)]. La parola latina “mensis” ci porta ancora più in profondità a una parola greca “mēn”, che significa anch’essa “mese”. Queste parole che rappresentano un periodo di un mese sono associate all’apparizione della full “moon” (greco: “mēnē”). La nostra “moon” ha anche dato origine alle parole “monday” e “month”. 

Questo focus fa parte della Campagna PID “Assorbire il cambiamento 2.0” – Un’iniziativa che prevede la donazione degli assorbenti in carcere, la realizzazione di laboratori e incontri all’interno di istituti penitenziari femminili e strutture di accoglienza per promuovere maggiore consapevolezza sul ciclo mestruale e sui “nuovi” prodotti igienico sanitari ecologici quali coppetta, slip e assorbenti lavabili. Leggi di più qui.

Di carcere si muore

Da Regina Coeli a Modena, da Modena a Firenze Sollicciano – i suicidi in carcere 

A Regina Coeli un ragazzo di 23 anni si è tolto la vita, è stato trovato nel bagno della sua cella. A Regina Coeli, dove vivono 1060 persone in spazi pensati per 566. A Regina Coeli,  non c’è aria per respirare, non c’è spazio per muoversi, non ci sono opportunità né scelte, né alternative. A Regina Coeli, come altri carceri italiani, si preferisce la morte

«La situazione è da tempo ingovernabile e meriterebbe interventi celeri e concreti da parte dell’esecutivo.» – ha detto De Fazio, segretario generale della Uil-Pa polizia penitenziaria

Fino al 31 dicembre dell’anno appena passato ci siamo augurat3 che le cose cambiassero, con l’amara consapevolezza che non sarebbe successo veramente. Trovo sia dannatamente ironico ricominciare il conto dei suicidi in carcere neanche una settimana dopo l’aver affermato che il 2024 è stato l’anno che ha registrato un numero indicibile di vite spezzate dall’istituzione penitenziaria (89 persone detenute e 7 agent3). 

Ma così siamo abituat3 a fare, a darci dei tempi e dei numeri. Quindi ripetiamolo anche qui, l’anno nuovo è iniziato da appena 9 giorni e sono già morte 5 persone detenute e 1 operatore.

«È palese che in queste condizioni non si possa neanche pensare a concreti processi organizzativi, ma ci si rabatti giorno per giorno mirando alla “sopravvivenza”, senza peraltro riuscire sempre a salvaguardala, come in questi casi. Parlare di art. 27 della Costituzione e di rieducazione è esercizio di mera retorica”, prosegue il segretario. “Servono subito misure deflattive della densità detentiva, vanno compiutamente potenziati gli organici della Polizia penitenziaria e delle altre figure professionali, è necessario assicurare l’assistenza sanitaria e vanno avviate riforme complessive dell’esecuzione penale. Il 2025 è cominciato malissimo.» – ha sentenziato De Fazio

Oltre al ragazzo a Regina Coeli, ricordiamo l’uomo sui 40 anni che si è tolto la vita nel carcere di Paola in Calabria. Meno di 24 ore dopo, nello stesso carcere, a scegliere la morte è stato un impiegato delle funzioni centrali. Il giorno dopo la chiusura definita delle festività natalizie sancita dall’arrivo dell’epifania, a morire è stato un altro uomo detenuto, questa volta nel carcere di Modena. 

«L’uomo avrebbe inalato gas da un fornello da campeggio, un gesto che lascia dubbi sulla sua natura: un incidente durante una pratica per ottenere effetti allucinogeni o un deliberato suicidio? Tuttavia, l’assenza di tossicodipendenza porta a propendere per la seconda ipotesi.» – si legge su “Il Dubbio”.

Sempre a Modena domenica scorsa si è spenta un’altra persona detenuta che era stata condotta in ospedale dopo aver tentato di suicidarsi. Nei primissimi giorni del 2025 invece, un uomo ha scelto la morte al posto del carcere di Firenze Sollicciano. 

Il giorno della vigilia di Natale siamo stat3 contattat3 su Instagram da una volontaria che ci ha espresso l’esigenza di condividere la frustrazione circa le condizioni delle carceri italiane.

«Ciao, operando come volontaria nel settore carcerario, sento il peso di dover lanciare un grido d’allarme. Le recenti violenze nel carcere di Trapani, i numerosi suicidi e le inquietanti dichiarazioni del sottosegretario alla Giustizia Delmastro hanno messo a nudo un sistema carcerario marcio. Non si tratta più di ‘poche mele marce’, ma di un problema strutturale. La violenza all’interno delle mura carcerarie non è un’eccezione, ma la regola. Un equilibrio precario basato su minacce e soprusi, dove le gerarchie sono rigide e implacabili. I più deboli sono vittime di vessazioni costanti. Come sosteneva Norberto Bobbio, le carceri sono uno specchio della società. Ciò che accade dietro le sbarre ci rivela molto sulla collettività e sullo stato-istituzione. I direttori di carcere sembrano gli ultimi feudatari, detenendo un potere quasi assoluto sulle vite dei detenuti. Il personale di polizia penitenziaria, nella maggior parte dei casi, è complice di queste vessazioni. Chi osa opporsi viene isolato e marginalizzato.

Il malaffare, la corruzione e la violenza regnano sovrani, calpestando ogni forma di dignità umana. È giunto il momento di affrontare questo tema con onestà e coraggio. A tal proposito, consiglio la lettura del romanzo “La collina delle lucciole- Cronaca di un carcere a luci rosse” di Rocco Casalegno pubblicato da Amazon. Basato su fatti realmente accaduti, questo libro offre una denuncia cruda e appassionata delle condizioni carcerarie italiane. È un grido di disperazione che arriva direttamente dall’interno del sistema. 

Ti chiedo, nei limiti delle tue possibilità, di promuovere un dibattito approfondito su come migliorare le condizioni di vita dei detenuti e garantire una maggiore umanità all’interno delle nostre carceri.» – Gaia Fardini

Quando si inizierà a pensare alle carceri, ai loro abitant3? Quando cesserà il silenzio istituzionale di fronte a un sistema che non funziona? Quando diverrà formalmente illegittimo il morire di carcere?

Un carcere che “protegge” le donne – Delitto d’onore in Giordania

Nel libro “Donne violate. Forme della violenza nelle tradizioni giuridiche e religiose tra Medio Oriente e Sud Asia” Marta Tarantino affronta il rapporta tra cultura e legge, mostrando come gli intrecci che hanno intessuto i ruoli di genere nell’area mediorientale della Giordania influiscono sulla legislazione del Paese. 

Gerarchia famigliare e ritualità identitarie

L’autrice ricostruisce dapprima il corpus dei valori etico-morali che caratterizza il contesto arabo-islamico del regno Hashemita di Giordania, partendo dall’esplicitazione del duplice ruolo che ha la famiglia. Da un lato, essa assolve alla funzione privata di definizione e costruzione identitaria dell’individuo; dall’altro si fa strumento politico-religioso attraverso il quale la comunità dei credenti continua a esistere nella storia. 

Come uno specchio della società, la famiglia mediorientale è organizzata verticalmente secondo gerarchie e regolata da valori patriarcali. Nella vita famigliare di un bambino o di una bambina inizia la socializzazione ai modelli del femminile e del maschile attraverso lo scandirsi dei rapporti genitoriali dove la madre detiene un potere “temporaneo” sul figlio. Dopo i primi sette-nove anni di vita il bambino compirà quel rito di passaggio della circoncisione che segnerà il suo giungere, dalla maschilità – ossia la condizione biologica – alla mascolinità – il ruolo di genere. Se nei primi anni è stata la madre a curarsi del figlio, sarà poi l’autoritario e distaccato padre a dover guidare il bambino maschio. La bambina invece continuerà ad essere socializzata dalla madre e dalle altre donne di casa: 

«Per le donne invece, la lingua araba utilizza il termine unūah tanto con significato di “essere femmina” o “essere di genere femminile” quanto con quello di “essere molle”, sottolineando con quest’ultimo una sfumatura spregiativa, una semplificazione atta a ribadire il concetto patriarcale di subordinazione e debolezza dell’universo femminile rispetto a quello maschile.» M. Tarantino“La Giordania contemporanea tra cultura tribale e delitto d’onore” 

Una costruzione identitaria che segna una duplice costrizione, una duplice sofferenza: se gli uomini dovranno onorare il proprio ruolo machista e violento, le donne sentiranno il peso di una sessualità di cui hanno l’onere di custodire. Queste costruzioni identitarie, incarnate simbolicamente nella virilità dell’uno e nella verginità dell’altra, s’incontrano nel vincolo del matrimonio, l’unico luogo in cui l’atto sessuale viene legittimato. E a quel punto, la rottura dell’imene della donna durante la prima notte di nozze, rappresenterà non solo l’onore di lei ma quella dell’uomo, della famiglia e di tutta la comunità.  

Delitto d’onore in Giordania

In Giordania la popolazione è caratterizzata da un substrato tribale che include sia arabi musulmani che cristiani ortodossi, i quali di solito appartengono a tribù di natura nomade, semi-nomade o sedentaria. Questa struttura contribuisce a una rete complessa di pratiche e consuetudini che, in molti casi, si sovrappongono o sostituiscono le leggi ufficiali dello Stato, creando una coesistenza di poteri che risale alla nascita dello Stato giordano moderno.

È proprio grazie a questa eredità culturale che la protezione dell’onore e della reputazione si è evoluta nel tempo, assumendo forme di violenza che sono moralmente accettate e normalizzate dalla comunità, in particolare nei confronti di chi mina l’onore e la dignità della famiglia.

Il codice di comportamento non scritto riservato alle donne è necessario al mantenimento dell’onore della famiglia, il quale gli uomini hanno il compito di proteggere e mantenere e che una volta perso, non può essere ripristinato.

Il delitto d’onore può essere letto come un reato culturalmente orientato e nasce proprio da questa responsabilità tutta al femminile dell’onore rappresentativo dell’uomo. La condotta vuole che la donna sia pudica e riservata per tutta la sua vita e in ogni ambiente che abita. Le cause del delitto d’onore possono essere di vario tipo: dalla conversazione di una donna con uno sconosciuto in un posto pubblico, all’assenza prolungata da casa; dal rifiuto di un matrimonio combinato, all’arrivo di una gravidanza illegittima se pure consumata da una violenza. 

«I delitti seguono poi uno schema che si ripete in gran parte dei casi: in una prima fase vi è la presa di coscienza da parte della famiglia del “disonore”, spesso oggetto di discussione di vere e proprie riunioni familiari, seguita dalla designazione di chi dovrà portare a compimento il delitto. Generalmente, l’esecutore materiale dell’omicidio è il fratello della vittima, sebbene all’azione possano concorrere tutti i parenti maschi più prossimi (il padre, lo zio paterno o il cugino), con impiego di armi di vario tipo fra cui coltelli, pistole o veleno nel cibo. Trattandosi di delitti che solitamente avvengono in aree lontane dai grandi centri abitati, spesso i corpi vengono abbandonati in zone remote, rendendone più difficile la scoperta, l’identificazione e complicando la successiva indagine.» M. Tarantino – “La Giordania contemporanea tra cultura tribale e delitto d’onore” 

Legittimare un carcere che “protegge” le donne in Giordania

Nel 1992 la Giordania firma la Convention on the Elimination of all Forms of Discrimination Against Women (CEDAW) che diventa effettiva nel 2007. Nel 2008 il Parlamento pubblica il Protection from Family Violence Law con lo scopo dichiarato di voler coadiuvare la riconciliazione fra i membri delle famiglie in conflitto. Nonostante le intenzioni, il testo resta poco chiaro e polveroso su alcune questioni fondamentali, come la stessa definizione di violenza che viene relegata nell’ambiente domestico. Il delitto d’onore resta di fatto facilitato dal codice penale, da letture misogine della religione musulmana e dalla forza delle consuetudini tradizionali. L’articolo 340 del Codice penale giordano fino al 2001 rendeva possibile la completa assoluzione degli accusati e nonostante le modifiche del testo tese a rendere le disposizioni più neutre, a oggi si recitano i benefici delle attenuanti per un uomo che dopo aver scoperto in ”flagrante delicto” sua moglie o parente la ferisca o uccida.  

«Nessuna donna è detenuta senza motivo, pertanto può avvenire (che essa venga detenuta) per proteggere la sua vita futura, l’eventualità di una disgrazia sociale.» – ibidem, cit. intervista di Amnesty International al Direttore del Dipartimento per i Diritti umani del Ministero degli Interni giordano (2020)

Così accade che per “salvare” la vita a donne che hanno macchiato l’onore della propria famiglia – magari per essere state stuprate e poi aver rifiutato il matrimonio con il carnefice, per essere fuggite via, per avere il grembo il frutto della violenza – queste vengono messe in carcere. In che senso?

Dopo essere stata costretta a sottoporsi a test medici “sulla verginità”, dopo essersi salvata dalla famiglia, dopo aver tentato invano di denunciare alle autorità la sua condizione di pericolo, per effetto del Crime Prevention Act del 1954 può succedere che una donna venga detenuta a “scopo tutelare”. 

  • Nel 2013 la maggioranza della popolazione detenuta femminile si trova nel carcere dei Juweida: vivono in condizioni precarie, vittime di abusi fisici e psicologici. Donne giovani, senza figli né marito, poco abbienti, donne che hanno subito violenze in ambito domestico, che sono state abbandonate dalle famiglie dopo l’incarcerazione. Per entrare e per uscire è necessaria la decisione del governatore locale che però non può acconsentire alla scarcerazione se non è sicuro che la famiglia non abbia intenzioni punitive. Così alcune ricorrono ai matrimoni combinati, altre vanno incontro alla libertà con una sentenza di morte appena fuori le porte del carcere.
  • Nel 2017 inizia ad accendersi il dibattito pubblico intorno alle questioni relative al delitto d’onore, i primi passi verso un’inversione di marcia vengono mossi grazie alle cronache giornalistiche, al lavoro delle associazioni e a una parte moderata del mondo islamico che guardano al problema riconoscendone le radici culturali.
  • Nel 2018 è istituita la casa-rifugio Dar Amneh per permettere alle donne in detenzione amministrativa di avere accesso a servizi, opportunità e assistenza per il reinserimento nella società. Tutti fattori negati all’interno del carcere di Juweida.

Il governo Hashemita sembra aver mostrato così un doppio atteggiamento che da un lato è caratterizzato dalla volontà di rendersi partecipe di un processo di riforma, dall’altro –  impedendo il trasferimento delle donne dal carcere alla casa-rifugio – si fa portatore di un potere arbitrario sulle donne tentando di convincerle a “tornare sotto la protezione maschile”.

«La difficoltà nel debellare il fenomeno è dovuta alla refrattarietà dell’intero sistema valutativo dei reati, il quale esprime, attraverso i vari organismi coinvolti, forme reiterate di male guardianship, partendo dagli uomini della famiglia per giungere ai medici incaricati di sottoporre le donne a test di verginità e gravidanza, al personale carcerario e in ultimo ai giudici chiamati a esprimersi nei processi.» M. Tarantino – “La Giordania contemporanea tra cultura tribale e delitto d’onore” 

Questo focus fa parte della Campagna PID “Assorbire il cambiamento 2.0” – Un’iniziativa che prevede la donazione degli assorbenti in carcere, la realizzazione di laboratori e incontri all’interno di istituti penitenziari femminili e strutture di accoglienza per promuovere maggiore consapevolezza sul ciclo mestruale e sui “nuovi” prodotti igienico sanitari ecologici quali coppetta, slip e mutande assorbenti. Leggi di più qui.

Il tabù del femminile e l’interiorizzazione dello spirito abnegante

Tabù del femminile nelle piazze di oggi

Quattro giorni fa sulle testate italiane leggiamo che in piazza Municipio, a Napoli, accanto all’opera fallica di Gaetano Pesce, è comparsa una vulva provocatoria che ha avuto però vita breve. Rimossa prontamente dalle autorità, l’opera dell’artista Cristina Donati Meyer, ci ricorda ancora una volta la maggiore legittimità dell’esibizione pubblica della Grande bellezza del fallo rispetto a quella di una vulva che continua, tra le altre cose, ad essere erroneamente definita “vagina”. 

Certo, non si nega che l’opera di Donati Meyer non era stata autorizzata, tuttavia ci chiediamo, come ha fatto anche il team di PeriodOff: “Ma se un’artista chiedesse l’autorizzazione di una vagina gigante, quale amministrazione gliela concederebbe?”

Sul territorio italiano è letteralmente “visibile” il tabù del femminile: le statue e i monumenti eretti in memoria di personaggi e storie femminili sono 171. E poche di queste figure sono ricordate per altro oltre che per i meriti di sacrificio e di cura. Sono persone realmente esistite, personaggi letterari o leggendari, e rappresentazioni di collettività anonime, tutte situati in spazi pubblici come piazze, giardini e strade. Le rappresentazioni monumentali del femminile in Italia sono state individuate nel 2021 dal censimento e la ricerca portata avanti dall’associazione Mi Riconosci che potete consultare qui

 

All’ostentazione fallocentrica dell’essere maschio, corrisponde un’immagine del femminile che deve essere celata, se non espressa dalle prospettive del genere opposto. Lontana dagli occhi di chi attraversa le piazze ma allo stesso tempo proiettata sugli schermi come quella maga accattivante, quella sirena ammaliante che fa cadere ai suoi piedi ogni uomo e tremare di invidia ogni donna. La contrapposizione di genere maschile e femminile si gioca in tutte le cose che caratterizzano il nostro quotidiano, pensiamo banalmente alla dimensione domestica: per lungo tempo sede indiscussa del femminile, luogo-prigione in cui si relega il ruolo di tutrice, curatrice, dispensatrice di cibarie e affetto materno. La performatività del ruolo di genere prende il suo potenziale naturalizzante  dalla stessa capacità di essere ripetibile.

La ripetitività della performance di genere – parafrasando Judith Butler – fa sì che attraverso le parole, il sapere, le narrazioni, le pratiche e i rituali si reitera un tipo di atteggiamento in linea con il ruolo socialmente costruito di uomini e donne nei diversi gruppi culturali. 

 

I dualismi interiorizzati – del duro e del morbido, del forte e del debole, del pubblico e del privato, del razionale e dell’emotivo – possono essere rintracciati in altri contesti, nella ripetitività di un rituale che conferma – invertendole – le regole sociali associate ai comportamenti di genere.

Vediamo, ad esempio, la manifestazione di questa pratica performativa nel rituale naven osservato da Bateson tra il 1935 e il 1936 della popolazione Iatmul della Nuova Guinea. Un rituale incentrato sul “mostrarsi”, sul “dare a vedere” che consiste nello scambio dei ruoli tra il maschile e il femminile: gli uomini iatmul, travestiti da donne, inscenano una femminilità crudele e seducente in grado di suscitare quasi l’incesto; le donne iatmul, travestite da uomini, esasperano le gestualità maschili e le manifestazioni di orgoglio e fierezza dei guerrieri.

Il rituale naven si inserisce nel contesto di rito di passaggio dei giovani e permette agli appartenenti al gruppo di mostrarsi fieri o affettuosi uscendo dalle proprie categorie di genere in uno spazio e un tempo precisi, al di fuori dei quali, nella quotidianità, questo non è possibile. Non è possibile per un uomo iatmul esprimersi in atteggiamenti di affetto come non è possibile per una donna iatmul mostrarsi fiera. Ed è qui che entra in gioco il rituale naven: rende possibile una fuga momentanea dal proprio habitus e un ritorno che modifichi le tecniche incorporate per esprimere emozioni con nuove gestualità sulla scena sociale. 

«Attraverso un’esperienza corporea intensamente emozionale, determinata dall’assunzione di una diversa identità corporea, lo zio materno e la madre del giovane possono manifestare i loro sentimenti senza entrare in contrasto con il comportamento socialmente legato al proprio ruolo sessuale, e il giovane può riposizionarsi in termini affettivi nei confronti di entrambi.» – Giovanni Pizza, “Antropologia medica. Saperi, pratiche e politiche del corpo”

Interiorizzare una vocazione alla cura (del maschile)

Quando una persona con utero soffre di terribili crampi mestruali non trova che una rete ben consolidata al femminile che supportandola, sta lì a ricordarle che è naturale soffrire se si è donna* (*o appunto, se si ha un utero). La naturalizzazione di questa sofferenza insita nell’essere socializzate donne, oltre ad essere frutto di una costruzione socio-culturale – come non ci stancheremo mai di ricordare – è anche causa della parzialità della ricerca medico-scientifica sui corpi femminili

«Anche qui i rapporti di genere sono l’esempio più paradigmatico [della presenza di violenza strutturale]: gli uomini, in modo straordinariamente costante e trasversale a moltissime società, tendono a non sapere pressoché nulla della vita, del lavoro o delle prospettive delle donne, mentre le donne di solito sanno molto degli uomini – in effetti, sono tenute a farlo, dato che buona parte di quel lavoro interpretativo (se si può chiamare così) sembra ricadere sempre sulle donne – il che, a sua volta, spiega come mai di norma non è considerato affatto un “lavoro”». – David Graeber, “Le origini della rovina attuale”

Internet e i media, attraverso la loro specifica facoltà di connettere le persone e le loro storie, ci aiuta oggi a tenere assieme tutte le esperienze di violenza strutturale che colpiscono chi, ad esempio, recatasi dal medico per dolori cronici, deve superare le 7 fatiche d’Ercole e più per farsi riconoscere e diagnosticare l’endometriosi: perché alla fine se soffrire è naturale, quale altra risposta potrebbe dare un medico di fronte alla sofferenza femminile se non “sarà lo stress”?

 

L’oppressione storica che contraddistingue il femminile ha reso questa dimensione più accogliente, più accomodante e abnegante della controparte maschile che invece è naturalizzata al potere, al successo, al privilegio.

In condizione di pari difficoltà può succedere che sembrino le donne ad essere “più forti”, perché appunto più abituate a cavarsela in condizione subordinata. In realtà non è sempre così, né può essere vero per tutte le persone. Questo è chiaro, ma dobbiamo riconoscere le influenze culturali nella costruzione delle nostre identità che condizionano le nostre vite per intero

Così leggiamo anche nelle parole di Goliarda Sapienza, quando racconta di un giorno in cui la sua compagna di cella Roberta, dopo essersi incontrata con suo marito, torna incupita ragionando sui modi differenti con cui uomini e donne affrontano il carcere. 

« -Oggi, per esempio, mi metto questo vestito – l’ho fatto io, per dieci giorni ho lavorato… Ebbene lui s’incazza… “Come puoi avere testa a farti un vestito! Voi donne…” eccetera… Il fatto è, Goliarda, che noi donne reggiamo meglio il sistema carcerario. Certo, questo è possibile perché abbiamo un passato di coercizione e qui in fondo troviamo uno stato di cose che non ci è nuovo: il collegio, la famiglia, la casa… Sappiamo ancestralmente usare le mani, distrarci con mille lavoretti, e accetto anche – come lui dice – che sappiamo essere piú meschinamente furbe… Ma io aggiungo in risposta a lui, che mi si presenta sfessato da far pena, che noi sappiamo rendere creativa la giornata ora per ora, e non solo qui a Rebibbia che in fondo è un paradiso… Certo, il carcere a noi donne risveglia tutti i lati “femminili” che stiamo cercando di seppellire, il carcere forse ci vizia, ci fa regredire… Ne abbiamo parlato tanto con le compagne quando ero a Messina… Ma io dico: facciamo bene noi donne ad affossare tutte le “qualità” che i secoli di schiavaggio hanno sviluppato in noi? Dopo tanti anni di prigione, Goliarda, ti posso garantire che è un errore… Non bisogna dimenticare il nostro passato di schiave…» – Goliarda Sapienza, “L’università di Rebibbia”.

Roberta manifesta nei suoi pensieri quel ruolo interiorizzato di donna-sofferente (quindi più forte) e  ci comunica delle contraddizioni e delle negoziazioni con cui ci si confronta nel processo di decostruzione delle identità di genere

 

Questo focus fa parte della Campagna PID “Assorbire il cambiamento 2.0” – Un’iniziativa che prevede la donazione degli assorbenti in carcere, la realizzazione di laboratori e incontri all’interno di istituti penitenziari femminili e strutture di accoglienza per promuovere maggiore consapevolezza sul ciclo mestruale e sui “nuovi” prodotti igienico sanitari ecologici quali coppetta, slip e mutande assorbenti. Leggi di più qui

Il carcelazo – la sindrome del carcere in Bolivia

ALESSIA

«Il termine carcelazo non era conosciuto da tutti i reclusi di San Pedro. Lo utilizzavano quei detenuti che avevano contatti con carcerati stranieri i quali, probabilmente, lo avevano sentito in altre prigioni latinoamericane» (“La casa di sapone. Etnografia del carcere boliviano di San Pedro” Francesca Cerbini

Il carcelazo è una malattia che non esiste nei libri di medicina, né probabilmente al di fuori dell’istituto penitenziario che ne è per l’appunto la causa, l’agente patogeno, come suggerisce il nome stesso. Eppure il carcelazo è reale ed è significato  in modi diversi dagli interlocutori dell’antropologa Francesca Cerbini. 

Mal di cuore, mal di testa, furto dell’animo. Può essere il diavolo che ti afferra o la depressione. In tutti i casi, questo tipo di patologia non viene mai o quasi esplicata dalle persone che ne sono colte alle diverse soggettività terapeutiche esistenti nella casa di sapone boliviana. Né con il medico, né con lo psicologo e spesso neppure con lo yatiri, si corre il rischio di esser presi “per matti”. E allora si cerca di trovare le parole giusto per spiegare un malessere indicibile

NB. In Bolivia lo yatiri può rappresentare una guida spirituale e tradizionale, spesso legata alle pratiche andine. Come nelle comunità extramurarie, in carcere lo yatiri è il saggio che, in connessione con l’esoterico, fornisce consulenze e somministra preghiere, rituali o letture – spesso con le foglie di coca. Può essere un punto di riferimento per le persone in carcere anche per dare senso al male dell’essere rinchiusi.

« […] anche se voi non ci credete, sono morto» (2016. F. Cerbini, p.183) 

Descritto come qualcosa che annienta i sensi, il carcelazo è una forma di disperazione che colpisce le persone in seguito alla presa di coscienza dell’essere recluso, o dopo una serie di eventi negativi. Gli interlocutori dell’etnografa che sperimentano il carcelazo,  raccontano che la manifestazione dei sintomi arriva in momenti ben precisi: ad esempio dopo l’emissione del verdetto, o per chi aveva creduto di esser stato incarcerato per sbaglio, quando realizza che non uscirà tanto presto. 

Non è possibile dare a questa sindrome un tempo o associare dei sintomi che siano validi per tutti, in quanto il carcelazo è intrinsecamente legato al vivere il carcere e ogni persona lo vive in modo differente. Questa patologia pare delinearsi in due forme: una leggera e una più grave. Per la prima può parlarsi del disorientamento iniziale di entrare in carcere e il rimedio è spesso l’uso delle sostanze stupefacenti, metodo magari utilizzato già fuori dalle mura. La seconda si abbatte sul corpo del detenuto prigioniero zzato dopo il pronunciamento della condanna, in genere quando sono già passati uno o due anni dall’incarcerazione.

«Prendeva forma una specie di calendario del malessere del carcelazo che mostrava i suoi ancoraggi simbolici negli avvenimenti giudiziari o affettivi più rilevanti: l’entrata o il compimento del primo anno di reclusione, i diciotto mesi attesi per cercare di ottenere la “retardación de justicia”, la condanna o l’allontanamento della famiglia. Per cui ognuno, sulla base delle proprie propensioni e della situazione personale, segnava il ritmo della sindrome». (ivi, p.184)

NB. La “retardación de justicia” è uno degli aspetti che caratterizza le ingiustizie dell’iter giudiziario boliviano di chi è preventivamente detenuto in misura cautelare e aspetta la scarcerazione per decorrenza dei termini.

Gli eventi scatenanti il carcelazo non riguardano solamente il fallimento del percorso giudiziario ma tutto quello che riguarda la vita della persona condannata, quindi anche – e a volte soprattutto – le relazioni con l’esterno, la famiglia, gli affetti. La rottura dei legami, della quotidianità precedente al vivere ristretto, di un’identità personale conduce al carcelazo che si configura a questo punto come “perdita si senso dell’esistenza”. E oltre alla disperazione, al mal di cuore, alla perdita di senso, la sindrome del carcere colpisce il corpo del detenuto indebolendolo, abbassando le difese

«D. Quando le è venuto il primo carcelazo

I problemi arrivano tutti insieme. Avevano pronunciato la mia condanna, mia moglie smette di portarmi mio figlio […] e improvvisamente in una settimana ero pieno di problemi: familiari, economici, la condanna… e ti fanno deprimere. Non mancano i buoni amici che ti fanno provare droga e alcol, quell’alcol rosato, non il bianco. Non sei quasi interessato alla vita.

D. Quanto dura il carcelazo?

Dipende da ognuno. Io avevo voglia di uccidermi ed ero diventato uno straccio. La famiglia ti abbandona, hai sempre più problemi, e vorresti impiccarti […]. Alcuni, quando hanno avuto la loro condanna a trent’anni, si sono uccisi. Una coppia si è uccisa insieme dopo la sentenza.

D. È questo il carcelazo?

Sì, non ce l’hanno fatta a resistere qui dentro. È la depressione, quando ti senti solo, abbattuto, quando nulla ha più senso, quando senti che il mondo non ha più senso nella tua vita. – Jaime, sezione Álamos, 6 marzo 2008» (ibidem)

Il carcere in Bolivia è chiaramente molto diverso da quello che conosciamo qui oggi in Italia e non è questo lo spazio adatto per affrontare tutti gli aspetti che lo caratterizzano. Non è però un caso aver scelto questo in particolare, il carcelazo è una sindrome che agisce sul corpo della persona detenuta in conseguenza stessa della sua pena che seppur vuole definirsi incorporea, è invece indubbiamente il contrario. Come in Bolivia, in Italia e probabilmente nel mondo. 

Se sei interessat* ad approfondire faccelo sapere nei commenti, ti consigliamo comunque di leggere il libro di Cerbini

Il costo degli assorbenti e le collane di perle

Il costo degli assorbenti è solo uno degli aspetti che riguarda il ciclo mestruale e la vita delle persone con utero, un aspetto significativo. La normalizzazione dell’idea che il genere femminile sia portatore del fardello della sofferenza ci convince che non c’è poi nulla di male a pagare prezzi spropositati per qualcosa che nessuno ha chiesto, un’esigenza fisiologica che coinvolge forse la metà della popolazione mondiale. 

Avere un utero costa spesso più del dovuto, costa in termini di discriminazioni, di libertà, di vita e anche sì, in termini  economici. Pensiamo che ogni persona che ha le mestruazioni, le continua ad avere per decenni: in media passano circa 40 anni dal menarca alla menopausa.

Costo annuale degli assorbenti

Il prezzo dei prodotti per l’igiene mestruale, che siano assorbenti usa e getta esterni o interni (tamponi) è variabile ma potremmo, con l’aiuto di ChatGPT, stilare una media.

Una persona con utero necessita più o meno di 10/15 assorbenti o tamponi al mese, in base al personale flusso mestruale (questo numero indicativo è fluttuante). Il costo medio di un pacco di assorbenti in Italia varia tra i  5 e i 10 euro. Il prezzo cambia in base alla marca, alla qualità e alle conseguenti scelte personali di chi acquista un prodotto rispetto a  un altro, ma anche alle necessità di acquistare tipologie di assorbenti migliori per prevenire irritazioni e infezioni, a costi maggiori. 

Seguendo questi calcoli, si può dire che il costo annuale di assorbenti o tamponi può variare da 60 a 180 euro.

Maschi cis-etero che parlano dei corpi con utero

Lo scorso due ottobre, sulla pagina Instagram @accountciclo leggiamo i commenti a un post in cui l’amministratrice scrive: «Ognuno è libero di scegliere l’opzione più confortevole, non è normale essere costrette a pagare una cifra così alta per qualcosa che non abbiamo scelto».

Ora, non ci sembra che sia stato detto nulla di assurdo, anzi. Oltre  ad essere ragionevole, l’affermazione postata da @accountciclo è rappresentativa di un’esigenza che coinvolge le vite di tutte le persone che hanno le mestruazioni e che si trovano costrette a scendere a patti con i costi che implicano. Se parlare di cultura patriarcale fa venire i brividi ai molti che la riducono a sistema giuridico ormai estinto e quindi inesistente, dovrebbero stupirci le parole di un maschio cis-etero in risposta al post, purtroppo però non ci stupiscono affatto: «Ok, spendono 150€ per farsi il colore, piega e ricci. Ma andate a lavorare».  

* Sul post originale è stato pubblicato anche il nome dell’account che ha scritto questo commento, noi abbiamo deciso di metterlo qui anonimo, perché può essere rappresentativo di un pensiero comune tra una parte delle persone con cui abitiamo gli spazi virtuali dei social. 

Il nesso tra l’andare a farsi i capelli e l’avere le mestruazioni che questo commento ci palesa è la considerazione implicita del ciclo come una scelta, il problema è che qui non portiamo gli assorbenti al collo come collane di perle, ma li usiamo per una necessità che ci è data dalla nascita, senza alcun tipo di scelta se non quella delle tipologie di dispositivi igienici più consone ad affrontarla, quando siamo fortunat3 e questa scelta l’abbiamo. Ed è quindi una questione di diritti, più specificatamente di diritti mestruali

La tampon tax e le altre parti del mondo

Con la Legge di Bilancio 2024 sono state introdotte diverse novità per quanto riguarda l’IVA, quello che qui ci interessa è ancora come queste novità hanno impattato sul costo degli assorbenti:

  • L’aumento delle aliquote su alcune categorie di prodotti, come quelli per l’infanzia e per l’igiene femminile. 

«Inoltre è stata prevista l’aliquota al 10% (in luogo di quella del 5%) anche per i prodotti assorbenti, per i tamponi destinati all’igiene femminile, per le coppette mestruali, nonché per i pannolini per bambini. Torna ad applicarsi nella misura ordinaria, pari al 22%, l’IVA per seggiolini per bambini.» (Articolo fonte)

In risposta all’aumento dell’IVA, nel mese di ottobre WeWorld in collaborazione con CHEAP ha lanciato la campagna #LegalizeMestruazioni per chiedere «una cosa davvero molto semplice: giustizia per le persone che hanno le mestruazioni».

Cosa che in alcuni paesi del mondo già accade. Vediamo alcuni esempi:

  • In Catalogna è garantita la gratuità su tutti i dispositivi igienico-mestruali riutilizzabili (coppette, assorbenti o slip);
  • In Scozia gli assorbenti sono gratuiti per tutte le donne in età fertile;
  • In Nuova Zelanda sono garantiti per le studentesse;
  • Nel Regno Unito, in Canada e in Irlanda gli assorbenti non sono tassati.

 

Questo focus fa parte della Campagna PID “Assorbire il cambiamento 2.0” – Un’iniziativa che prevede la donazione degli assorbenti in carcere, la realizzazione di laboratori e incontri all’interno di istituti penitenziari femminili e strutture di accoglienza per promuovere maggiore consapevolezza sul ciclo mestruale e sui “nuovi” prodotti igienico sanitari ecologici quali coppetta, slip e mutande assorbenti. Leggi di più qui

La banalità del male

ALESSIA

Il male è banale, è semplice, quotidiano. Seppur le sue ragioni, radicate nella realtà stessa della società, siano complesse, esso dilaga nel silenzio e nel tacito accordo che si stringe tra relazioni squilibrate di potere di pronunciare, agire e diffondere la violenza fino a quando questa arrivi a non lasciare più alcun stupore, fino all’indifferenza. Si tratta di sminuire, di ridurre, di semplificare un atto banale di male, come può essere quel ceffone dato a una compagna che “non sapeva comportarsi” di fronte a uomini che non erano il suo. Si tratta di semplici gesti quotidiani, di parole come “uccidere bambini” indirizzate a chi sceglie di interrompere una gravidanza. Si tratta, ancora, di un bombardamento di notizie, immagini e gossip sulle storie violente, sul male che incombe, sulle vite spezzate e quelle da rinchiudere, sulle ipocrite prese di posizione contro persone e popoli oppressi. 

NB. Questo male di cui parliamo non è un male tipo la parte oscura della moneta: retta via/peccato, bene divino/male infernale ecc. Ci siamo appropriat3 delle parole di Hannah Arendt proprio per questo. Magari è giusto citarne un passo per indirizzarci meglio al discorso. 

«Quel che ora penso veramente è che il male non è mai ‘radicale’, ma soltanto estremo, e che non possegga né profondità né una dimensione demoniaca. Esso può invadere e devastare il mondo intero, perché si espande sulla superficie come un fungo. Esso ‘sfida’ come ho detto, il pensiero, perché il pensiero cerca di raggiungere la profondità, di andare alle radici, e nel momento in cui cerca il male, è frustrato perché non trova nulla. Questa è la sua ‘banalità’. Solo il bene è profondo e può essere radicale.» – H. Arendt “La banalità del male, Eichmann a Gerusalemme (1963)

 

Quel tacito accordo, quell’accettare di vedere e ascoltare il male senza riconoscerlo, è stato intessuto fino a oggi per poterci permettere di avere tra le cariche del governo persone che dicono cose aberranti come:

«L’idea di veder sfilare questo potente mezzo che dà il prestigio, con il gruppo operativo mobile sopra. Far sapere ai cittadini chi sta dietro a quel vetro oscurato. Come noi sappiamo trattare chi sta dietro quel vetro oscurato. Come noi non lasciamo respirare chi sta dietro quel vetro oscurato. Credo sia una gioia, è sicuramente per il sottoscritto, un’intima gioia

A pronunciare queste parole, Andrea Delmastro Delle Vedove, Sottosegretario di Stato alla Giustizia. Parole che hanno indignato non poche persone, quelle almeno che tentano di resistere a questo dilagare violento smantellamento dei diritti umani. Nella nostra bolla, ci sembra a volte inverosimile. Tra di noi ci scriviamo preoccupati, amareggiati, disillusi. Condividiamo frustrazioni che non sappiamo come risolvere, lo sconforto è reale quanto l’impossibilità di smettere di credere che qualcosa cambi. Parlo del lavoro che svolgiamo ogni giorno, dell’impegno e la determinazione che gli educatori, le educatrici del PID e non solo investono in quelle attività che coinvolgono la loro vita per intero, senza momenti veramente liberi dalle responsabilità di accogliere, ascoltare e tentare di sfruttare qualsiasi mezzo a disposizione per permettere e rendere possibile alle persone che vivono le ristrette condizioni che il carcere gli ha lasciato addosso, di costruire una nuova vita. E ci vuole coraggio a farlo, non perché, come ai più potrebbe venire alla mente, si lavora con persone “pericolose”, ma perché si lavora per mettere toppe a un sistema che vacilla, che non funziona, che cade a pezzi negli intenti e nei valori che l’hanno messo in piedi. Parliamo di carcere come un’istituzione che non ha mai avuto, forse nella storia dell’umanità, un reale motivo di esistere se non quello della reclusione e della limitazione della libertà personale con il solo fine di punire chi ha rotto il “patto sociale”. Parole come “risocializzazione” abbiamo già sottolineato altrove, sono solo la base dell’ipocrisia insita nello stesso concetto di galera. 

«Parliamo di rieducazione e di risocializzazione come scopi ultimi delle pene, da un lato e di un’istituzione totale che separa – come prima e solenne ragion d’essere – le persone che commettono il reato dal resto della società nella quale è previsto il cosiddetto reinserimento.» – Dall’articolo “Donazione assorbenti per il carcere: cosa può significare il rifiuto di un dono da parte di un’istituzione?”

Perché il carcere è qualcosa che chiude e non apre alle possibilità, è un posto predisposto a eliminare l’umanità ad abbatterla. Non solo per chi la abita per “pagare” i suoi errori, ma anche per chi la vive per lavoro. Un’istituzione totale, come scriveva Erving Goffman, non è altro che «un luogo di residenza e di lavoro» dove agglomerati di persone sono tenute lontane dalla società per un significativo lasso di tempo. E sono, questi gruppi di persone, accomunati dalla medesima condizione di dover trascorrere porzioni di vita in «un regime chiuso e formalmente amministrato.» 

 

E se siamo poco indignati di fronte all’intima gioia di un umano di non far respirare un altro è perché il male è banale e ci ha sopraffatti, oltre che assuefatti. Perché è da tempo che sentiamo le notizie di chi si toglie la vita in carcere, del sovraffollamento, degli abusi di potere contro quei corpi rinchiusi. Siamo avvezzi a queste violenze continue e non ci stupiscono più. 

Pensiamo al potere delle parole, pensiamo alle reali conseguenze che generano: parliamo dei recentissimi casi emersi dal carcere di Trapani? Abbiamo letto le invettive, accompagnate dalle botte a secchiate di piscio di alcuni agenti penitenziari sui corpi indifesi, testimoni di ingiustizia, delle persone detenute. 

Male legittimato dall’essere compiuto verso quegli ultimi che ci hanno insegnato a disprezzare, a temere, a evitare, senza però conoscere. Si dipingono le persone che commettono reati come bestie senza cuore, ed è facile così cadere nell’errore che allora, nei loro confronti, tutto è lecito. La violenza, l’umiliazione, la crudeltà. Ed è in questa banalità che si arresta il pensiero, si riduce la complessità tutta umana di agire e sentire del mondo.

Assorbire il cambiamento 2.0

Una Campagna di raccolta assorbenti e slip mestruali per il carcere in occasione della Giornata Mondiale dell’Igiene Mestruale del 28 maggio

 

Il P.I.D. Pronto Intervento Disagio Onlus, lancia la Campagna Assorbire il cambiamento per raccogliere e donare assorbenti agli istituti penitenziari femminili e alle persone in esecuzione penale esterna ospiti all’interno di case famiglia.

L’iniziativa, iniziata tre anni fa con la collaborazione di diverse realtà del terzo settore romano, quest’anno prevede, oltre alla donazione, la realizzazione di laboratori e incontri all’interno di istituti femminili e strutture di accoglienza per promuovere maggiore consapevolezza sul ciclo mestruale e sui “nuovi” prodotti igienico sanitari ecologici quali coppetta, slip e mutande assorbenti.

 

Le donne sono una netta minoranza della popolazione detenuta, poco più del 4%, ma si confrontano con tutte le problematiche legate al sistema penitenziario, alle quali si aggiungono specifiche questioni accentuate dal fatto che la detenzione è pensata per un mondo al maschile che non prevede le diverse identità di genere. Negli standard internazionali, definiti dalle Nazioni Unite, per il trattamento delle donne detenute e le misure non detentive per le donne autrici di reato (Regole di Bangkok, luglio 2010), la salute mestruale è un requisito fondamentale che prevede la distribuzione gratuita di assorbenti. Nel nostro paese se ne occupa l’Amministrazione penitenziaria che però non garantisce le quantità necessarie di assorbenti in base alle singole esigenze, tantomeno la scelta di un modello o di una marca. Chi ha la possibilità economica li acquista attraverso il cosiddetto “sopravvitto”, una sorta di negozio interno all’Istituto Penitenziario, chi non ha possibilità economica deve adeguarsi alla fornitura prevista. Durante il primo anno della Campagna, il PID ha raccolto diverse testimonianze che confermano la mancanza di azioni volte a garantire e promuovere la dignità mestruale. 

 

Se lo scopo immediato della Campagna è portare un beneficio concreto alle persone recluse, quello a lungo termine è promuovere il cambiamento attraverso il coinvolgimento delle singole persone, della società civile organizzata e delle istituzioni, favorendo la conoscenza della reale condizione delle donne che vivono in carcere. Lo scorso anno, grazie a una notevole partecipazione della cittadinanza, abbiamo portato oltre 2000 assorbenti negli istituti penitenziari laziali e nelle strutture di accoglienza per persone detenute ed ex detenute. 

La raccolta inizia mercoledì 20 novembre 2024 e si conclude mercoledì 28 maggio 2025, per partecipare si possono donare assorbenti classici di qualsiasi marca e modello e gli slip assorbenti, mentre i tamponi in carcere non possono entrare

 

I materiali donati possono essere consegnati presso i seguenti punti di raccolta nei giorni e negli orari indicati:

  • Casa delle donne Lucha Y Siesta – il mercoledì e il giovedì dalle 11 alle 13.30. Via Lucio Sestio 10.
  • L’Archivio14 – il giovedì e il venerdì dalle 17 alle 19, il mercoledì anche la mattina dalle 10 alle 12. Via Lariana 14.

Se non si ha la possibilità di recarsi in uno dei precedenti punti di raccolta, i materiali possono essere spediti alla Sede legale della Cooperativa PID Onlus, all’indirizzo: Via Eugenio Torelli Viollier, 109 – 00157 Roma.

Tutti gli aggiornamenti relativi a nuovi eventuali punti di raccolta saranno condivisi sui canali social Facebook e Instagram dell’associazione.  Se si vuole organizzare un punto per la raccolta assorbenti scrivere a: massaroni.pidonlus@gmail.com.  

Persone straniere detenute in Italia

Nel microcosmo carcerario italiano, le persone straniere detenute sono spesso trattate come un’unica categoria omogenea, senza considerare le specificità delle diverse comunità di provenienza. Come espresso da Antigone nel Ventesimo rapporto sulle condizioni di detenzione in Italia, sarebbe invece opportuno avviare una riflessione che complessifichi la realtà, sia per le politiche penali, sia per le opportunità di accesso alle misure alternative alla detenzione. 

Secondo i dati rilevati da Antigone, al 31 marzo 2024 la popolazione detenuta straniera nelle carceri italiane per adulti è pari al 31,3% di quella totale. Una percentuale in calo che rappresenta un significativo abbassamento rispetto ai picchi registrati nel passato, quando la percentuale superava il 37%. Negli anni 2008-2013, il numero degli stranieri in carcere non è mai sceso sotto le 20.000 unità. 

Il tema della sicurezza, di cui abbiamo discusso ampiamente in altri articoli e che ci riporta inevitabilmente anche al lavoro del Dossier statistico immigrazione 2024, è in gran parte un esercizio di propaganda. In realtà, focalizzarsi solo su questi numeri non aiuta a sviluppare politiche efficaci di prevenzione o di giustizia sociale.

 

Emerge un dato interessante riguardo la questione delle persone straniere ristrette in Italia, cioè quello relativo al tasso di detenzione degli stranieri: la percentuale degli individui detenuti rispetto alla popolazione straniera residente in Italia. Secondo i dati Istat, la popolazione straniera in Italia è cresciuta negli ultimi quindici anni, passando da 3,89 milioni di persone nel 2009 al 5,14 milioni nel 2023, pari all’8,7% della popolazione totale

Nonostante questo aumento, il numero di persone straniere detenute in carcere è diminuito, il che smentisce l’idea di una “emergenza criminalità” legata all’immigrazione.

Nel 2024 il tasso di detenzione per gli straniere è sceso allo 0,37%, con un calo complessivo di 0,24 punti percentuali negli ultimi 15 anni. Questo riflette una tendenza positiva che suggerisce che le politiche di regolarizzazione e integrazione (quando funzionano) hanno un impatto positivo sulla riduzione della criminalità, contribuendo a una minore incidenza di reati tra gli stranieri.

 

Quando si analizza la popolazione carceraria straniera, è fondamentale anche considerare le specificità delle singole nazionalità. Ogni gruppo presenta sfide e caratteristiche diverse, legate tanto al contesto socio-politico di provenienza quanto alle difficoltà incontrate in Italia a causa dei pregiudizi e gli stereotipi xenofobi fomentati e legittimati dalle poetiche nazionalistiche che urlano alla “difesa dei confini”. L’ordinamento penitenziario prevede nella teoria un trattamento personalizzato della persona ristretta che tenga conto delle differenze culturali, sanitarie e sociali.

Riprendendo ancora il Dossier, nello specifico il contributo di Sofia Antonelli (Associazione Antigone) leggiamo:

«Nonostante la loro contrazione, gli stranieri in carcere continuano ad essere sovra- rappresentati rispetto alla loro incidenza sulla popolazione residente in Italia. Indigenza ed emarginazione sociale aumenta, insieme al rischio di commettere reati, quello di finire in carcere anche solo per attendere la condanna o per scontare una pena breve, che invece potrebbe essere espiata con una misura di comunità. […] A prescindere dalla gravità del reato, più si adottano misure contenitive, più cresce la sovra-rappresentanza degli stranieri, visto che per gli italiani resta più facile accedere a percorsi alternativi alle restrizioni del sistema penale. Ciò è ancor più vero per i minori stranieri, la cui sovra-rappresentanza negli istituti minorili è anche più alta di quella degli adulti. Sebbene tra tutti gli infra-25enni residenti in Italia gli stranieri rappresentino l’8%, al 15 giugno 2024 quelli in carico dei servizi di giustizia minorile rappresentavano il 23% del totale e, dei 555 ragazzi detenuti negli istituti penali per minorenni (Ipm), quelli di origine straniera erano 266, il 48%.»

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