Cooperativa sociale che offre servizi di ascolto, orientamento, formazione, accoglienza rivolti a detenuti/e, ex detenuti/e e persone che vivono in condizione di disagio sociale.

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Ricordi di mestruazioni ristrette: gli assorbenti in carcere

Mestruazioni ristrette: come vivono le donne il ciclo mestruale in carcere? Abbiamo chiesto a Maria di raccontarci la sua esperienza, i suoi ricordi di dentro relativi proprio alle questione della fornitura di assorbenti e delle condizioni in cui si abita l’istituzione totale penitenziaria. 

La testimonianza qui trascritta si inserisce nel più ampio progetto della Cooperativa P.I.D. “Assorbire il cambiamento”. Un progetto che ha lo scopo di portare un beneficio concreto alle persone recluse grazie alla donazione di materiali sanitari, di accendere l’attenzione della società, delle istituzioni e della cittadinanza sulla condizione delle donne recluse, nonché di raggiungere un cambiamento sistemico della questione affrontata.

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MARIA

Entrare in carcere: la dotazione

Quando entri in carcere ti viene assegnata una cella, un letto, se nella cella ci sono più persone e ti viene data una “dotazione”: le lenzuola, una specie di asciugamano, un asciughino per i piatti, bicchieri e posate di plastica e una saponetta. Poi, non è detto che te li diano all’inizio, ma comunque puoi chiedere un pacco di assorbenti al mese. Ovviamente sono indecenti come assorbenti, come qualità e soprattutto sono pochi.

A. «Quindi non ci sono le marche che girano fuori?»

No, sono cose di quelle tipo materassino, magari stretti e lunghi che comunque non si trovano in commercio… Sono quelle sottomarche che non so da dove vengono fuori, sicuramente ci saranno dei fornitori che producono proprio per il carcere, insomma.

A. «Immagino che poi non ti danno i vari “modelli” tipo il salvaslip o l’assorbente per la notte, eccetera…»

Ti danno un pacchetto standard che ti deve durare. Chiaramente il problema sta nel fatto che quasi tutto quello che ti danno loro non ti può bastare. Una saponetta non ti può bastare un mese. Una spugnetta, per dire, la spugnetta dei piatti magari un mese non basta. Quelle spugnettine per pulire si sbriciolano facilmente. Poi se vanno a contatto con la varechina è finita, so’ morte subito, istantaneamente. Quindi lì il problema… In carcere è sempre un problema di status economico, se hai qualcuno che ti può dare i soldi da fuori puoi comprare al sopravvitto che ne so, il bagnoschiuma, lo shampoo, eccetera. 

Poi dipende dalle carceri, ci stanno posti dove ti portano la lista per la spesa una volta a settimana, posti dove te la portano due volte a settimana e tu da lì tu puoi richiedere tutte le cose che stanno là. Se volevi particolari prodotti, un tempo lo richiedevi tramite domandina, ma dipende sempre dagli istituti. Da quello che so io, per esempio, adesso ai maschili fornirsi con le domandine è diventato quasi impossibile. Questo perché il fornitore che prende l’appalto per il sopravvitto e per il vitto magari non ci spreca il tempo a cercare le cose che chiedi. Qualche volta è garantito l’acquisto dei libri, quello sì. Ci mettono tanto tempo però poi te lo portano il libro. Per quanto riguarda l’assorbente in sè per sè è una carenza cronica, cioè all’interno del carcere. Poi ogni donna c’ha le sue, no?

Mestruazioni ristrette: convivenze e strategie

Consideriamo che può sembrare che con la convivenza arrivi anche la sincronizzazione delle mestruazioni

Sappiamo che questo fatto non è scientificamente provato ma nonostante ciò è qualcosa che torna spesso nelle esperienze condivise delle donne. 

«Nessuno dice che la coordinazione dei cicli mestruali non esista, sia chiaro. Stiamo dicendo che fino ad ora non esistono studi riproducibili che abbiano fornito evidenze numeriche a supporto di questa tesi. L’unica cosa che spiega l’effetto, ad oggi, è una distorsione nella percezione del fenomeno.» Fonte: Missionescienza.it

Per quanto riguarda la convivenza tra mestruazioni ristrette, infatti, può succedere che il ciclo mestruale di alcune persone si sincronizzi. Magari non tutte nello stesso periodo, insomma dipende, però questa cosa è stata notata. Il problema è che se stai male durante l’inizio delle mestruazioni devi chiamare l’infermiere per farti dare un antidolorifico perché non lo puoi tenere e anche qui le tempistiche sono lunghe, gli infermieri ci possono impiegare ore perché non si muovono per una sola persona, devi attendere il momento in cui fanno il giro della sezione.

Cioè, intorno alle mestruazioni si gioca un periodo delicatissimo della donna. Io sono una persona un po’ tetragona, sotto il punto di vista di cercare di condizionare i propri bisogni, quindi riuscivo o ad anticiparle o a posticiparle in vista di un possibile trasferimento che mi aspettavo per un processo o per altro. Riuscivo a condizionare il mio corpo ad aspettare che avvenisse quell’evento per non trovarmi durante il viaggio con il problema delle mestruazioni, perché non ti fanno scendere dal furgone durante i trasferimenti. È vietatissimo, a meno che non devi fare viaggi lunghissimi. Mi ricordo a suo tempo, adesso non lo so, avevano istituito anche i trasferimenti con gli aerei, se ad esempio devi fare viaggi molto lunghi, per abbreviare anche il tempo di pagamento della scorta che deve andare e tornare. Devono essere tre persone durante i trasferimenti: c’è il capo scorta, c’è quello che guida, l’autista, e poi c’è quello che sta dietro con il detenuto che lo deve accompagnare. Se porti tre detenuti devi portare tre persone, capito? Quindi diventa complicato. E quindi intorno alle mestruazioni si gioca tutta questa ansia. Oppure l’assenza delle mestruazioni a causa dello stress, lo shock del carcere colpisce moltissime ragazze, le fa perdere. 

Salute mestruale e visite ginecologiche

A. «Per quanto riguarda le visite specialistiche ginecologiche, come funziona?»

Anche le visite ginecologiche passano attraverso il sistema di richiesta tramite il medico del carcere. Tu vai dal medico, gli esponi il tuo problema e se lui ti dice “va bene ti segno” allora fai la visita con uno specialista. Se gli va bene, sennò rimani e aspetti.

A. «Dipende dalla persona che ti trovi davanti?»

Sì, i medici del carcere ce ne stanno di tutti i tipi. Ci stanno quelli che ti danno ascolto e quelli che non ti si filano per niente. Poi oggi, con tutti “i mattarelli” che stanno in carcere, invece di stare in un luogo più adatto per i disagi mentali, i medici hanno ancora più lavoro da fare: è un grande problema.

Comunque a me non è mai capitato che sono andate via le mestruazioni. La mia esperienza personale è che proprio a un certo punto ho cominciato a stare così male che ho chiamato io da fuori una ginecologa che è stata fatta entrare su richiesta mia dal direttore. La ginecologa mi ha detto che dovevo farmi operare immediatamente e togliere l’utero. E così è stato. Mi hanno mandato a Pisa e lì mi hanno operato: è stata un’esperienza abbastanza bruttina.

E a quel punto sono diventata fornitrice di assorbenti perché li prendevo per le altre. Mi spettavano, quindi un mese  a una, un mese all’altra… la mia parte di assorbenti si dava. Quelli del carcere si usavano per la notte principalmente. Se non hai i soldi per comprarli ti devi arrangiare con la carta igienica, ad esempio o gli asciugamanetti. Anche perché di carta igienica te ne danno tre rotoli al mese, ma che ci fai?

 

È una legge de’ natura insomma, te devi protegge’, è una questione di adattamento… in tutti i sensi: nelle relazioni umane, nelle relazioni con la custodia. Ti adatti  comunque sia a un ambiente in cui sai quello che puoi esprimere, quello che non puoi esprimere, come lo devi esprimere… che spazio vitale c’hai, no? Devi crearti il tuo spazio vitale, eh.

L’esperienza detentiva: amicizie e solidarietà

L’esperienza detentiva di Domenico torna oggi a raccontarci di un’amicizia stretta dentro, una tra le molte, che continua ancora adesso nel segno di una solidarietà costruita sulle ingiustizie vissute da chi oltre a non essere libero e legale, non è neanche “italiano”.

DOMENICO

Il carcere. Il carcere non fa bene. Fa male a tutti, a tanti fa incattivire. A me non mi ha fatto mai incattivire. Nonostante i tanti anni passati dentro, non è mai riuscito a mettermi la cattiveria, il veleno, niente.

Non ho mai fatto reati ostativi lesivi, risse, accoltellamenti, no mai. Mai perchè ho sempre cercato di evitarli, sono sempre stato amico con tutti. Ancora oggi ho amici in carcere a cui scrivo che me rispondono. Capisci?

L’incontro con il diverso da sé nell’esperienza detentiva

Di regola, dopo due mesi ti danno la cella “a solo”. Dove stavo io c’era un ragazzo del Senegal che erano 10 mesi che stava nel “cellone” – una cella chiamata così perché è dove si concentra un alto numero di presenza, circa 5 o 6 persone – questo faceva il Ramadan e tutto quanto. Un giorno io gli chiedo “Perché te stai sempre qua?”.

“Io vado dal comandante e il comandante eeh”. E io gli ho detto “‘Namo dal comandante, viè”.

Lì al penale bussi e te apre, se ce sta, il capo posto. Sono andato dal capo posto è gli ho detto “Senti ce sta sto ragazzo qui, so 10 mesi… so 10 mesi che sta nel cellone. So 10 mesi che sta lì… Allora lì fumano e lui non fuma, deve fare il Ramadan eeee è ‘n casino, poro fijo. Ma scusa eh!” E sono dovuto andare a parlarci io. 

Il capo posto mi risponde: “Ma tu sei l’avvocato suo?”. 

“No, non so’ l’avvocato suo ma non pare giusto che qui la gente entra e lo scavalcano, entra e lo scavalcano. Ma perché? Perché è scuro?” – gli ho detto – “Non è calcolato, non è giusto”.

E il comandante ha detto poi al ragazzo: “Ma perché lei è 10 mesi che sta così?” 

Manco lo sapeva! Manco lo sapeva. Poi all’ultimo gli hanno dato la cella a solo. A 3 mesi dal fine pena perché era stato condannato perché dice che era scafista ma lui me l’ha spiegato a me. “Io non ero scafista, io ho portato il motoscafo ma m’hanno pagato il viaggio sennò manco potevo venì” – mi ha detto – “Mica io ho frustato a qualcuno o ho fatto male a qualcuno, siamo arrivati lì e poi me ne so andato tutto qui e m’hanno dato 3 anni”. Quello è, ma è un bravo ragazzo.

Ora sta a Roma io ho il numero di telefono, siamo rimasti in contatto. Quando è uscito è venuto a pranzo da me, siamo stati insieme pure con il fratello. Lavora sempre, dalla mattina alla sera, pure la domenica, pure i giorni festivi.

Dal carcere ai CPR

Io pure sta cosa che gli extracomunitari una volta usciti li portano nei CPR (Centri di Permanenza per il Rimpatrio), ossia li ri-carcerano un’altra volta, non la capisco! Si fanno una doppia esperienza detentiva.

Dopo che hanno pagato quello che dovevano paga con la giustizia, li ri-carcerano n’altra volta poracci. Capito? 

E non è giusta sta cosa, è proprio sbagliata! Hanno già pagato! Io che ne so, devono aspettare mesi, mesi, mesi per che fare poi? Pe pote’ esse imbarcati al paese loro? E non va bene. Purtroppo, queste persone scappano perché hanno fame o per le guerre, le cose…  Vengono qui fanno i danni, nel senso che fanno i danni perché non hanno niente, parlamose chiaro. E che fanno una volta che commettono i reati? Li cacciano, pagano il reato che hanno fatto e li portano ai CPR, li fanno sta ancora lì dentro… è brutta sta cosa eh. Come se io , che ne so,  esco dalla galera e invece di mandarmi a casa me mandano da un’altra parte. Eh, non va bene.

La criminalizzazione del migrante si estende negli ultimi anni e sempre con maggiore ferocia anche all’atto stesso del migrare, come abbiamo potuto già osservare durante la Presentazione del Dossier Statistico Immigrazione 2023. Nella sezione dedicata, andiamo a leggere le particolarità di un fenomeno che vuole nell’immaginario sociale la persona straniera come persona pericolosa, così diversa e lontana per “cultura” o “etnia” che non può conoscere né comprendere “le regole di casa nostra”. Alla banalizzazione assoluta di termini complessi – rappresentanti persone, vite e storie reali – che spesso accompagnano i discorsi del quotidiano, rispondiamo con le analisi, le ricerche sociali e le statistiche raccolte nel Dossier riguardo ai processi di criminalizzazione del migrante, di categorizzazione sociale e di securitarizzazione dello straniero. Ripercorriamo insieme i punti fondamentali affrontati qui.

Costruzioni di genere attraverso due piani della realtà: tra mito e storia

Il corpo della donna e l’utero infame

Nel pieno dell’iniziativa che muove il progetto “Assorbire il cambiamento”, sono impegnata a districarmi tra le parole da comunicare sul blog e le tante ascoltate all’università e sembra che il modo migliore per riuscirci sia lasciar che le due realtà si incontrino. Oggi cercherò di produrre una connessione e parlarvi di alcune prospettive antropologiche sulle categorie di genere, ma con leggerezza. O almeno con più leggerezza possibile, considerando che parleremo del mito teogonico di Esiodo

Perché partire da così lontano? Perché mi piace “fare il giro lungo”… o forse perché per quanto distante, il mito – ordinatore logico della realtà – ci fa quasi sorridere per la potente evidenza delle basi costitutive di alcune nostre, diciamo così, categorie socio-identitarie come, ad esempio, quelle di genere

Il mito può essere osservato dal punto di vista del ruolo che ricopre in una cultura data, quello del dispositivo collettivo attivo di ordinatore logico del caos, in senso sia cosmologico che sociale. Un cosmo che si organizza secondo un equilibrio tra il femminile e il maschile e che attraverso le narrazioni della meta realtà del mito, assolve alla funzione di mettere ordine tra generi e generazioni, disciplinando le relazioni e le identità, collettive e individuali. 

Il mito teogonico di Esiodo

Andiamo al principio. Esiodo racconta che al principio c’era il Caos, poi Gaia (Terra) che tutto mette al mondo. 

La narrazione del mito prende avvio da un’entità associata alle istanze del femminile che senza alcun bisogno di una seconda parte compie l’atto di generazione e dà alla vita dei figli, la prima generazione teogonica: Urano (il Cielo), Ponto (il Mare) e la Montagna. L’unione con Urano permette di osservare alla nascita – nel mito – di una figura controversa, quella del padre

Urano colto da un sentimento di odio nei confronti dei suoi figli, li costipa nel ventre materno: li costringe al suo interno senza farli nascere mai del tutto. A questo punto, Gaia complicizza con uno dei suoi figli, Crono (Tempo): gli consegna una falcetta con la quale il figlio evira il padre dal ventre della madre, liberando se stesso e i suoi fratelli (la seconda generazione teogonica). 

Crono e sua sorella Rea concepiscono la terza generazione teogonica che non ha avuto proprio modo di farsi venire i daddy issues perché divorati dal padre subito subito.

Per dirla meglio, Crono – che ha evirato il padre – in prima persona ha sperimentato il rischio di un padre “tradito” da suo figlio, quindi esorcizza quel pericolo (insito, iniziamo a notare, nel ventre femminile della madre). 

Dal canto suo, Rea anche aveva l’esempio di quel che un padre poteva fare ai suoi figli e riesce a nascondere dalla macabra abbuffata del fratello-sposo un figlio, Zeus. Ci sembra ora ovvio a questo punto il destino di Crono: evirazione da parte dell’unico figlio rimasto.

Diciamocelo, come poteva uscire Zeus da una storia famigliare così disastrata? 

Zeus fa di Era la sua sposa ufficiale e nel mentre va a spargere il suo seme un po’ ovunque, anche tra le figure di donne non divine, come Meti e Semele. Ed è qui che compie il reale passo di rottura con i tristi epiloghi delle storie dei padri divini: dopo aver concepito i suoi figli, Zeus li espianta dai ventri materni e li incista nel proprio corpo. 

Dall’unione con Metis e dal cranio di Zeus nasce Atena,  dea della saggezza e della memoria. Nata guerriera in difesa del padre e della polis, non conosce ventre materno ed è lontana della madre. Atena stessa non vuole avere figli. 

Dall’unione con Semele e dalla coscia di Zeus nasce Dioniso, dio del vino, dell’ebbrezza e dell’estasi. Divinità nella quale si annida il principio degli opposti e attraverso il quale si celebra il caos. 

L’equilibrio di genere non è definito attraverso le due figure di Atena e Dioniso, la prima femmina con caratteri esplicitamente maschili, l’altro “ibrido”, sia maschio che femmina.  

Entrambi rappresentativi di un gioco tra identità e alterità nel quale si legge la possibilità che l’io contenga in sé l’altro. I due ruoli inoltre concorrono ad assolvere alla funzione del mito dal momento in cui lasciano aperto uno spiraglio di caos nell’ordine dato. In tutti i modelli mitologici, ci dice l’antropologa Laura Faranda, la possibilità del caos resta in aperta per renderci pronti al suo eventuale ritorno, come a voler munirci delle strategie per disciplinarlo e mantenere l’ordine. 

Attualizzare il mito

Nel mito assistiamo, con il gesto di Zeus, a un passaggio di potere dal femminile al maschile. Perché è così importante l’atto di rottura del dio olimpico? Zeus di fatto, incistandosi i feti dei figli nel proprio corpo allarga il suo potere di maschio. Trasforma quello che per nonno e padre era stato un tentativo (fallito) di esercitare un controllo sul corpo del femminile e sulla natalità in conoscenza del mistero della nascita. Zeus si fa femmina, elimina dall’equazione il corpo della donna. Vuole essere maschio dominante, padre e signore degli dei e per farlo deve poter dominare il “mistero” della nascita

Se il mito come abbiamo detto nasconde la storia, in che punto della storia si inserisce questo mito? Secondo la lettura che stiamo seguendo, nel momento in cui le comunità umane della Grecia antica iniziano a rappresentarsi come poleis, si comincia ad affermare un sistema proto-agrario per il quale costruire culturalmente un equilibrio tra il maschile e il femminile diventa necessario. Perché? Cosa arriva con la sedentarietà? 

Il principio di proprietà che si lega quasi subito a quello di ereditarietà si intreccia con un dilemma che riconosciamo ancora oggi nei detti e proverbi comuni come “la madre è sempre certa!” e il padre? Bisogna essere sicuri dei propri figli e quindi esercitare un potere sulla loro nascita, sui corpi femminili che li ospitano. 

Guardiamo un momento ora al presente: Zeus nel mito si prende tutto il controllo possibile dell’atto di nascita, oggi a chi appartiene questo potere?  

 

Ci lasciamo questo interrogativo aperto con la consapevolezza che la risposta sia osservabile direttamente nel dato empirico del vivere quotidiano e che molte altre prospettive possano scaturirne. Prossimamente parleremo ancora di queste tematiche allontanandoci dal mito e guardando ai corpi femminili, alla loro costruzione sociale in diversi contesti e all’iper-medicalizzazione dell’atto della nascita. Pensi possa essere interessante? Faccelo sapere nei commenti!

Testo consigliato : Laura Faranda. “Viaggi di ritorno. Itinerari antropologici nella Grecia antica.” Armando Editore, 2009.

Vissuti di dentro: racconti di incontri, legami e domandine

Lo scorso febbraio, in seguito a un commento ricevuto sotto un nostro post, un ex detenuto e utente della cooperativa ha deciso di condividere con noi la sua voce che oggi raccontiamo qui. Domenico è uscito definitivamente dal carcere nel 2022, un passato non molto lontano, ma è oggi libero e sereno perché “ha pagato tutto” e “non ha più nulla da nascondere”. La nostra chiacchierata inizia più o meno così: 

A. «Posso registrare?»

D. «Sì va bene tanto io non ho niente da nascondere, non ho più niente da nascondere. ‘Na volta sì adesso no».

LE PAROLE DI DOMENICO

Io ho conosciuto il PID nel 2005 dopo l’ennesima domandina che ho fatto, perché ne ho fatte svariate per poter parlare con un’operatrice del PID, eh!

Nel 2008 sono uscito e mi sono affidato al PID perchè io tutte le volte che sono uscito prima me ritrovavo sempre in mezzo alla strada e dovevo sempre fa’ reati, come me tanti altri detenuti che non hanno nessuno, nessun riferimento, nessuna opportunità diciamo. 

E il PID mi ha aiutato. Mi ha inserito nelle borse lavoro e mi sono trovato bene, non ho fatto più reati. E non mi hanno mai abbandonato, neanche in queste altre occasioni perché lo sapevano che io ormai ero uscito da tutto il contesto di delinquenza. 

Poi ho avuto altre carcerazioni, nel 2015 e nel 2019 ma erano tutte cose vecchie, prima del 2005 che sono andate definitive perché come si sa i processi vanno per le lunghe. 

 

A.«La famosa giustizia lenta?»

D. «Ma non direi lenta, lentissima».

Mi sono affidato a loro e sono riuscito adesso nel 2022. Grazie al PID però, perché mi ha dato una grande mano facendomi conoscere un’avvocatessa seria e mi ha salvato perché sennò il mio fine pena era il 2034.

Un lungo percorso “dentro” 

Ho cominciato con Porta Portese da minorenne e l’ho chiusa diciamo nel ‘67/’68. L’ex carcere minorile sarebbe. Poi sono andato a Regina Coeli, Rebibbia, San Vittore. Perché andavo pure fuori a lavorà, tra parentesi. San Vittore, Livorno, Firenze (sempre da minorenne) in Via della Scala; Chieti, dopo la rivolta del ‘74 a Rebibbia. Perché stavo là io quando c’è stato tutto il casino e abbiamo distrutto tutto quanto.

A. «Hai partecipato alle rivolte?»

D. «Si, ho fatto un casino lì. Ancora ero un ragazzo che la testa non c’era».

Entravo, uscivo, entravo, uscivo. Mi ritenevo l’omo più bevuto d’Italia

Che poi quando uscivo mi ritrovavo un’altra volta per strada… Dovevo campare, dovevo mangiare. Non avevo famiglia, non avevo niente.

Le domandine in carcere

In carcere devi fare domandina per tutto, per tutto ci vuole la domandina: per poter parlare con l’assistente sociale, per poter parlare con la psicologa, per poter parlare con il direttore, con il “capo posto” (il capo del reparto). 

Per fare entrare dentro un paio di scarpe nuove ad esempio, perché le vecchie sono rotte, devi darle prima indietro (le vecchie) altrimenti non entrano (le nuove). 

 

E certe domandine si perdono, diciamo si perdono… Tante le cestinano e invece tante si perdono. La domandina è tutto, senza domandina in carcere non ci fai niente.

Molte però, forse la maggior parte vengono perse. Io per poter parlare col PID ho fatto innumerevoli domandine. Finalmente poi mi hanno chiamato “Domenico? Devi anna’ a parla’ col PID”. “Oddio che sta a succede!”

Gli affetti da dentro e le feste in carcere

Allora uno che fa quando non trova un aiuto e si ritrova per strada?

Questo è quello che dicevo io… 

 

E lì ho passato svariati Natali, Natali brutti. Natali dove ho visto tanta gente, “criminali per davvero”, che in quei giorni la soffrivano veramente la galera. La soffrivano proprio perchè la gente diceva “sì, so criminali e tutto quanto” ma dentro c’hanno sempre ‘ncore. Hanno i figli, le famiglie, le madri, i padri che hanno lasciato fuori.E per quanto delinquenti senti che ti mancano quando arrivano questi giorni particolari. 

Sono gli affetti che mancano, mancano.

Io ce ne avevo pochi di affetti in quei periodi. Dopo ce ne ho avuti tanti, nel 2005 i miei due figli. Nel 2019 mio figlio era in clinica, ricoverato che ora sta male e lo seguo io, viviamo insieme perché da solo non può stare. Stiamo io e lui, lo aiuto con le terapie e quello che deve fare. Stiamo tranquilli.

A. «Quindi hai trovato la tua serenità in qualche modo?»

D. «Sisi, adesso sì. E cerco di dargliela pure a lui».

Torneremo a Domenico e alla storia, ai suoi preziosi racconti e alle sue parole desiderose di una giustizia che non dimentichi nessuno.

Assorbenti per le persone detenute – sensibilizzazione e raccolta

Assorbire il cambiamento – Vivere il ciclo in carcere  

  • CAMPAGNA DI SENSIBILIZZAZIONE E INFORMAZIONE SULLE QUESTIONI RELATIVE LE MESTRUAZIONI IN CONDIZIONI RISTRETTE
  • RACCOLTA E DONAZIONE DI SLIP MESTRUALI E ASSORBENTI PER LE PERSONE DETENUTE

Nella Giornata Internazionale della Donna vogliamo condividere e rendere ufficialmente pubblico il progetto che stiamo tessendo da mesi: “Assorbire il cambiamento”. Sono importanti le ricorrenze, sì ma non ci bastano.

Nel 2024 continua a versarsi un mare di discriminazioni, abusi e violenze sui corpi e le vite delle donne. Le lotte per i diritti, per i mutamenti necessari delle pratiche e politiche egualitarie delle identità di genere tutte si scontrano con una realtà nutrita da una cultura patriarcale, maschilista e paternalistica che ha costruito nei secoli profondi solchi nell’identificare gli individui secondo un netto binarismo e caratterizzarli seguendo principi che inneggiando alla “verità naturale e biologica”  hanno finito per determinare gli squilibri di potere che ancora oggi segnano i rapporti tra gli esseri delle comunità umane internazionali. 

L’otto marzo è tutti i giorni, come il venticinque novembre, come ancora tutte le giornate nazionali e internazionali istituite per ricordare e promuovere i diritti umani. 

 

Cogliamo oggi l’opportunità per tornare a parlare di carcere al femminile. Ci siamo chiest3: come vivono il ciclo le persone recluse negli istituti penitenziari italiani?  Gli assorbenti per le persone detenute sono abbastanza? Come vengono consegnati? 

Il P.I.D. Pronto Intervento Disagio Onlus, in occasione della Giornata dell’Igiene mestruale del 28 maggio, organizza una Campagna di raccolta assorbenti per il carcere femminile  e per le persone in esecuzione penale esterna ospiti all’interno di strutture di accoglienza.

La campagna, iniziata due anni fa, con la collaborazione di altre realtà del terzo settore romano, quest’anno prende il via sotto nuove vesti grazie al progetto “Assorbire il cambiamento”, a sua volta parte del più ampio progetto “POSTER. Pratiche oltre gli stereotipi”. 

Tra le attività promosse, oltre alla donazione di assorbenti per le persone detenute, sono previsti laboratori e incontri all’interno di Istituti femminili per promuovere maggiore consapevolezza sulle tematiche riguardanti il ciclo mestruale e la conoscenza dei “nuovi” prodotti igienico sanitari più ecologici quali coppetta, slip e mutande assorbenti. 

Il progetto ha lo scopo di portare un beneficio concreto alle persone recluse grazie alla donazione di materiali sanitari, di accendere l’attenzione della società, delle istituzioni e della cittadinanza sulla condizione delle donne recluse, nonché di raggiungere un cambiamento sistemico della questione affrontata.

Le donne sono una piccola minoranza della popolazione detenuta, poco più del 4% (2.392 secondo i dati rilevati fino al 31 dicembre 2023) e si confrontano con tutte le problematiche legate al sistema penitenziario, alle quali si aggiungono specifiche questioni, accentuate dal fatto che la detenzione è pensata per un mondo al maschile che non prevede le diverse identità di genere

In carcere gli assorbenti, così come altri prodotti consentiti, possono essere acquistati attraverso il cosiddetto “sopravvitto”, una sorta di negozio interno all’Istituto Penitenziario al quale possono accedere solo coloro che hanno soldi sul conto corrente interno. Chi non ha possibilità economica e di conseguenza non può acquistare, deve adeguarsi alla fornitura dell’Amministrazione Penitenziaria che, se non trascura questo aspetto, non riesce a garantire la scelta di un modello, di una marca o le quantità necessarie di assorbenti in base alle singole esigenze.

 

La raccolta di assorbenti per le persone detenute comincia venerdì 8 marzo 2024 e si conclude giovedì 23 maggio 2024:

  • si possono donare assorbenti classici di qualsiasi marca e modello e gli slip assorbenti, mentre i tamponi in carcere non possono entrare. 

I materiali donati possono essere consegnati presso i seguenti punti di raccolta nei giorni e negli orari indicati:

  • Casa delle donne Lucha Y Siesta: Via Lucio Sesto, 10 – Mercoledì dalle 11:00 alle 13:00, dalle 16:00 alle 17:00 e Giovedì dalle 12:00 alle 13:30.
  • Associazione Libellula: Viale Giustiniano Imperatore 280/A – Lunedì dalle 15:30 alle 18:30.
  • L’Archivio 14: Via Lariana, 14 – Mercoledì e Venerdì dalle 10:00 alle 13:00 e dalle 17:00 alle 19:00, Giovedì dalle 17:00 alle 19:00.

Se non si ha la possibilità di recarsi in uno dei precedenti punti di raccolta, i materiali possono essere spediti alla Sede legale della Cooperativa PID Onlus, all’indirizzo: Via Eugenio Torelli Viollier, 109 – 00157 Roma

 

Continua a seguire gli aggiornamenti sui nostri canali social per saperne di più sulle questioni relative le mestruazioni in carcere, i tabù del ciclo e la raccolta di assorbenti per le persone detenute.

Istituti penali per minorenni – gli effetti del Decreto Caivano secondo il Rapporto di Antigone

“Prospettive minori” è il VII Rapporto di Antigone sulla giustizia minorile e gli Istituti penali per minorenni, lucida fotografia delle conseguenze – forse prevedibili – dell’inasprimento delle pene del discusso Decreto Caivano.  

 

Sette mesi fa abbiamo affrontato l’argomento delle carceri minorili con Matteo che ha scritto riguardo a possibili “Spunti per il futuro”:

La questione della detenzione minorile solleva interrogativi fondamentali riguardo alla giustizia, alla riabilitazione e al benessere dei giovani coinvolti. Mentre il sistema tradizionale di carcere minorile è soggetto a numerose critiche, le alternative focalizzate sulla riabilitazione e sulla prevenzione della recidiva offrono una prospettiva utile per il futuro. Sviluppare politiche e programmi che favoriscano una riforma autentica del sistema diventa cruciale per garantire che i giovani coinvolti nel sistema penale possano intraprendere un percorso significativo di riscatto e reintegrazione positiva nella società.

 

Sappiamo oggi che una riforma della detenzione minorile è stata dettata, ma si muove in direzione opposta a quella auspicata. Lo spiega bene il rapporto di Antigone, lo affermano con preoccupazione i membri della nota associazione, sono i numeri a parlare e a dirci che qualcosa non va. Punire per educare sembra essere la direttiva deleteria che ha portato all’introduzione delle nuove misure del Decreto Caivano.

Dopo oltre un decennio,  in Italia tornano a crescere i numeri delle persone detenute recluse negli Istituti penali per minorenni (IPM). Nei soli primi due mesi del 2024 sono 500 i ragazzi e le ragazze ristretti. Nell’ottica di una dialettica causa-effetto osserviamo quali sono i mutamenti introdotti a settembre 2023 che hanno comportato e con tutte le probabilità continueranno a comportare la crescita delle presenze negli Istituti Penali per Minorenni:

 

  • «La possibilità di disporre la custodia cautelare in particolare per i fatti di lieve entità legati alle sostanze stupefacenti». Secondo il rapporto di Antigone infatti, se nel 2023 le ragazze e i ragazzi in misura cautelare erano 243, a gennaio 2024 il numero sale a 340.   
  • «L’aumentata possibilità introdotta dal Decreto Caivano di trasferire i ragazzi maggiorenni dagli IPM alle carceri per adulti». Il rapporto ci informa che quasi il 60% delle persone detenute nelle carceri minorili sono minorenni, principalmente tra i 16 e i 17 anni. 

 

Prospettive minori non è Mare Fuori, è la realtà di 500 ragazzi e ragazze in Italia. Fa riflettere, in un periodo dominato dall’interesse per una serie ambientata proprio in quegli ambienti e da una narrazione che vuole far emergere la complessità delle problematiche giovanili e l’importanza degli approcci educativi, si predilige la linea di sorveglianza e punizione. Se dovessimo ragionare in ottica foucaultiana, potremmo pensare ai metodi punitivi piuttosto che «come semplici conseguenze di regole di diritto o come indicazioni di strutture sociali» come qualcosa di inserito all’interno dei processi del potere. Quindi potremmo «Assumere, sui castighi, la prospettiva della tattica politica». (“Sorvegliare e punire. Nascita della prigione.” Michel Foucault.)

Sono molti gli strumenti e i contenuti messi a disposizione da Antigone per affrontare le tematiche legate alla giustizia minorile. Al rapporto infatti, è allegato “Traverse”, un podcast di Rebecca Zagarella (qui il link al rapporto di Antigone sugli IPM).

In questi mesi abbiamo a lungo sentito parlare dei giovani, spesso in relazione con parole come “devianza” o “disagio”. Abbiamo la certezza che questo sia il sistema migliore per aiutare una gioventù – in cui sì, mi ci metto anche io – segnata da anni di crisi e da quotidianità precarie? Da futuri incerti e scuole piene di ansiolitici? Circondati da “strade pericolose” tra cui scegliere, al primo passo falso gettati dietro le sbarre. Magari appena compiuti i 18 anni, dopo aver iniziato un percorso nell’IPM, spostati senza riguardi in una delle carceri per adulti. Una volta usciti, cosa resta? 

 

Concludiamo con alcune delle riflessioni di Antigone:

«Il settimo Rapporto di Antigone sulla giustizia minorile e gli Istituti penali per minori evidenzia i rischi di mettere da parte una bella storia italiana di de-istituzionalizzazione dei ragazzi e delle ragazze. Una storia che ha costituito un vanto dentro l’Unione Europea. “Punire per educare” è una politica perdente. È illusorio, nonché socialmente dannoso, inseguire gli obiettivi ricompresi in questo slogan oggi tanto di moda nelle carceri e finanche nelle scuole. Uno slogan che è diventato politica attiva. La giustizia penale minorile non meritava le involuzioni normative presenti nel cosiddetto Decreto Legge Caivano che ci riporta qualche decennio indietro nella storia giuridica del nostro Paese. A partire dal 1988, con l’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale, l’Italia aveva scelto un’altra via, quella dell’interesse superiore del minore.»

A un anno dalla nascita del blog

Il 13 febbraio dello scorso anno abbiamo pubblicato “ufficialmente” questo blog. Dopo mesi di preparazione, di aspettative, di negoziazioni si è detto a un certo punto: «Ok, puoi andare».

 

Passo dopo Passo è nato con tanti obiettivi, tante speranze e prospettive che in un anno non hanno fatto altro che moltiplicarsi. Se inizialmente abbiamo dato quasi un taglio diaristico, con le voci delle persone detenute all’interno delle strutture di accoglienza gestite della cooperativa PID Onlus, con il tempo si sono aggiunti punti di vista e penne critiche che hanno determinato quel che a me piace chiamare “la rubrica del ricercatore spossato”. C’è chi scrive delle proprie esperienze di dentro, chi decide di dire la sua su un fatto di cronaca, chi vuole raccontare il proprio lavoro, chi ancora riorganizza tutte queste informazioni con la speranza di aprire riflessioni più ampie. Abbiamo utilizzato e continueremo a utilizzare questo blog per dire dei progetti o per informare sulle questioni del carcere in Italia. Scorrendo tutti i 60 articoli prodotti fin qui cresce dentro un senso di soddisfazione generativa che dà risposta alla domanda che tante volte mi sono ritrovata a pormi: «perché lo fai?». Per non parlare del fatto che mi è quasi impossibile selezionare “articoli preferiti”, tutti sono unici a loro modo per il semplice motivo per cui sono stati scritti. 

È travolgente la micro realtà in cui ti immergi.

Così l’abbracci.

Esseri umani: questa la parola che più ho sentito pronunciare durante le mie chiacchierate con le persone seguite dal PID.

Esseri umani in quanto partecipi del rapporto tra individui, persone.

Le dinamiche che si intrattengono in Carcere, l’immediatezza dei ruoli, la consapevolezza sbiadita: fuggevole, attrice, di protesta e sostanziosa – la voce che racconta la complessità della vita.

Questa la realtà, il motivo della nascita di Passo dopo Passo sorge spontaneo.

A un anno dalla nascita del blog abbiamo vissuto avventure di ogni tipo, dall’organizzazione dell’evento celebrativo del nostro lavoro come cooperativa-famiglia, ai primi passi oltre i cancelli del carcere. Ho avuto la fortuna di vedere le persone uscire, ricostruire nuove libertà e nuove opportunità, ho ascoltato la pienezza delle parole «ho finito, non ho più nulla da pagare, ho pagato tutto». Le persone hanno attraversato la casa famiglia, l’hanno vissuta imprimendo la propria traccia sui balconi colorati di un semplice appartamento romano, raccontando parte della loro storia al mio registratore e lasciando che quella storia arrivasse a voi, su questo blog. Un po’ custode di qualcosa che doveva essere detto, che voleva essere narrato. 

Ogni settimana, da quando abbiamo aperto il blog, mi metto a pensare a cosa pubblicare. Non è semplice perché vorrei scrivere robe super “accademiche”, dimenticando che l’obiettivo iniziale era far parlare chi il carcere l’ha vissuto (e magari lo vive ancora). Da quando ho incontrato O, nonostante le difficoltà iniziali, nonostante ancora oggi a volte la comunicazione sia tutt’altro che semplice, il giovedì ricevo puntualmente articoli di innegabile coinvolgimento emotivo. Mi ricorda perché non posso smettere anche se a leggerci siete in pochi, perché mi piace quello che ho scelto di fare, perché ho “bisogno” di continuare a formarmi. 
Quanto è bella la voglia di condividere la propria voce anche quando nessuno l’ascolta o anche quando magari non riceve prontamente risposta. 

A un anno dalla nascita del blog abbiamo visto il mondo chiudersi lentamente e con ferocia, abbiamo sentito stringere il nodo alla gola, la paura che professionalità, dedizione e pazienza non sarebbero più bastati a svolgere al meglio il nostro lavoro. Che le persone detenute, un po’ di più di tutte le altre, non avrebbero neanche più avuto quei pochi diritti che faticano a stringere nelle mani. E tutto sempre con la consapevolezza di quanto sia semplice essere fraintesi quando si parla di carcere, di detenzione, di persone che hanno leso altre persone o le loro proprietà. Ho scritto già da qualche parte che «Quando ci si ritrova in questi discorsi, il rischio è sempre quello di sembrare i grandi giustificatori degli atti criminali, in fondo quel che si cerca qui di sostenere è che il confine tra quel che si considera giusto e quel che si considera sbagliato è troppo labile per perderci in generalizzazioni di questo tipo». 

 

Questa è la società che abbiamo, durante questi lunghi e complessi secoli, costruito. Riconosco a volte con amarezza e disillusione che il desiderio di un mondo più giusto e sicuramente più umano nel pieno senso della parola è una visione utopistica. Forse lo è sempre stata, forse lo sarà sempre.  Sono sistemi complessi che hanno un’altrettanto complessa moltitudine di “ragioni”. Non possiamo negare che figli e figlie della nostra cultura siamo costantemente incazzate e incazzati, senza sapere precisamente il perché. Tutto è così confuso. 

Siamo complici nel guardare un mondo di conflitti, nel vomitevole impigliarsi di una storia feticista. E noi nel nostro piccolo, con il nostro lavoro e il nostro blog cerchiamo di non esserlo. Le domande restano aperte, continuiamo a leggere e a formarci. Continuiamo a sederci su quel divano rosso e ascoltare chiunque in un modo o nell’altro ha esperito la violenza di fuori e di dentro. 

Qual è il confine tra la violenza legittima e illegittima?

 

Sono questi discorsi che lasceremo aperti per altri momenti di riflessione, più approfondita forse, meno pessimista. Ricomponiamoci gli animi per gioire anche un poco di tutto il lavoro svolto fino a oggi e di tutto quello che abbiamo davanti. 

A un anno dalla nascita del blog, sono molto grata per tutte le persone che hanno scritto qui, per tutte quelle che hanno letto e leggeranno le nostre parole. 

ALESSIA

La domandina, il dottor House , il “signor Martini”

La domandina, i diminutivi carcerari e il potere simbolico del linguaggio. Immaginiamoci di esserci appena svegliat3 nella nostra cella per la prima volta: Cosa devo fare? La domandina.
L RACCONTA

Dopo la prima notte, una notte di incubi in cui hai dovuto fare i conti con i fantasmi del tuo inconscio, ti alzi e ti guardi intorno smarrito, poi ti informi col tuo compagno di cella per questa o quella necessità quotidiana. Ti dirà che devi fare una “domandina”, si avete capito bene, domandina, indicando la “stanza di appartenenza” – attenzione – “stanza” e non “cella”. Ovvero quello spazio dove sei ristretto in 6 con accanto pochi altri metri quadri dove si cucina e si defeca anche. 

 

Poi ti chiameranno per una sorta di visita medica . Troverai un dottore accompagnato da un’infermiera ruvida nei modi, con lo stile tipico di un R.S.A., di quelle che si leggono nella cronaca dei giornali. Lui, il dottore, non è esattamente il geniale dottor House della famosa serie televisiva. Poche domande di rito su malattie pregresse e disturbi vari.

Il dottore ti vede ma non ti guarda, ti sente ma non ti ascolta, scrive chino sulla cartella medica , poi si alza, ti chiede di togliere la maglietta, una palpata sullo sterno, pochi secondi e tutto finisce lì. “Stavo mejo prima” direbbero a Roma … 

 

Rientri in cella, “la stanza” per intenderci, e chiedi agli altri come fare per occupare il tempo magari lavorando come “scopino”, fare le pulizie insomma. Ti dicono di fare l’ennesima domandina. Per dirla in breve vivi e subisci tutta una serie di trappole e trappolette cognitive disseminate lungo il tuo percorso detentivo a cominciare dall’uso ridondante di diminutivi linguistici, tanto per citarne un altro lo “spesino”.

 

Mentre cammini in corridoio noti un detenuto vicino di cella che cammina instancabilmente su e giù. Sembra che parli da solo. Qualcuno benevolmente ti fa notare che è il “mattaccino” della sezione. Non si ferma mai, chiede a tutti qualche sigaretta e un po’ di caffè, lo fa continuamente, tutto il giorno. Ha bisogno di aiuto, di un sostegno, ma dovrà fare una domandina pure lui. Gliela facciamo noi, perché non sa scrivere. Sembra quasi il signor Martini di “Qualcuno volò sul nido del cuculo”.

 

Tutto davvero surreale , non c’è un ca**o da ridere, cosa ci faccia qui dentro uno così con il suo disagio mentale non è dato sapere. Si cerca di aiutarlo per quanto possibile anche se è stordito dagli psicofarmaci

 

È il carcere, bellezza. “Situazioni che stancamente si ripetono senza tempo”, direbbe Edoardo Bennato.

 

M49, l’Orso

Nel bene e nel male – Terzo giorno

Terzo giorno di galera, il ricercatore “Orso” racconta: Ore 8 e trenta del mattino, apertura del blindo.

LE PAROLE DI L

L’insopportabile rumore metallico delle chiavi che lo aprono segnano il terzo giorno. Quel tintinnio delle chiavi sai che te lo porterai dietro per tutta la carcerazione. Dopo una notte in cui, preda delle tue angosce, pensi che “il futuro è passato e non te ne sei accorto”, proprio come in un film di Ettore Scola, ti alzi e scendi dalla branda e dai il buongiorno a tutti.

Poi sommessamente, tra te e te, pensi “buon giorno un ca**o”. Prendi un caffè che il tuo vicino di branda ti offre dopo averlo preparato con il classico fornello da campeggio.

Poi vai in doccia, è la terza volta, ma non sei ancora abituato e ti lavi senza le mutande proprio come facevi 72 ore prima dell’arresto.

“Ma che fai? Qui sei in galera” – ti dicono gli altri. “Ah scusa, me ne ero dimenticato” – rispondi, non ancora aduso a certi riti ai quali dovrai abituarti in fretta.

 

Ti vesti e vai al passeggio o all’aria, chiamatela come volete. 

 

“Ciao sei nuovo? T’hanno bevuto I’altro giorno?”

Lì per lì non capisci subito, pochi istanti dopo ricolleghi la parola “bevuto” a quella dell’arresto, ti abituerai presto a questo lessico colorato. “Il detenuto – tanto per usare una citazione erudita –  è un essere che si abitua a tutto” scriveva Dostoevskij. 

 

La conversazione al passeggio è tutto un susseguirsi di auspici su improbabili provvedimenti di indulto, amnistie, misure di clemenza e quant’altro. C’ è poi, irresistibile, proprio come in una fiction televisiva , l’irrefrenabile pulsione da parte di qualcuno che dando il peggio di sé si erge a tribunale dei detenuti, puntando il dito su questo o quel detenuto indicandolo a torto o a ragione poco raccomandabile in quanto “presunto informatore” o, a suo dire, “infame”.

 

Capita sovente quel colui che al primo approccio ti sembra affidabile, generoso ed altruista, ti suggerisce il nome del suo avvocato, a suo dire bravissimo ed espertissimo perché “se lo nomini ti farà uscire da questo posto in pochissimo tempo”. Ma attenzione, quasi sempre non è un atto di generosità ma il miserevole e maldestro tentativo di scaricare i costi delle parcelle del suo avvocato su di te

 

Sei soltanto al terzo giorno ed occorreranno settimane forse mesi per prendere consapevolezza piena del mondo carcerario nel bene e, bisogna dirlo, anche nel male . Per dirla tutta, non crediate che ci sia più umanità in carcere che fuori. Così non va, edulcorare questa realtà è ipocrita ed i primi a dirlo dobbiamo essere proprio noi detenuti.

Il carcere è semplicemente “lo specchio deformato” del mondo libero. 

Queste cose vanno dette.

Nel bene e nel male.

M49 

Carcere e omofobia

Carcere e omofobia, maternità surrogata e tutte le ipocrisie (o solo alcune) del mondo contemporaneo. Le tematiche che attraversano ogni giorno le strade e le case del globo incontrano e travolgono la società nascosta, la parte che si dimentica, a cui non si pensa.
L, come un lucido osservatore delle realtà socio-culturali che attraversano la quotidianità, ci racconta un carcere non molto lontano dalle nostre città. Non molto distante dalle idee e dalle narrazioni in cui si impigliano quei tanti modi di essere umani tra umani. E così, anche oggi, L ci dice la sua mettendo nero su bianco le sue riflessioni e consegnandole allo spazio di condivisione del blog.

“E si farà l’amore ognuno come gli va”

Lucio Dalla

LE PAROLE DI L

Non ho altre parole e non voglio trovarne. So che attirerò gli strali di alcuni detenuti (non la maggioranza per fortuna) ma è giusto dover dire che una certa “fascinazione” per l’ uomo forte gerarchicamente posizionato è molto presente in carcere e quindi soltanto sollevare certe questioni, tra queste quella dell’omofobia, è come cercare di abbattere “muri mentali” assolutamente difficili da rimuovere. Parliamo di pregiudizi e stereotipi costruiti nel tempo, a cominciare dai disgustosi commenti sul “cromatismo della pelle”, ma di questo parleremo un’altra volta. Si fatica a capire fuori di qui e “qui dentro” che a dover prevalere è la libera scelta delle persone. È questo il vero discrimine etico. Invece con giudizi talora spregevoli finiamo per rinchiudere in cella non soltanto i nostri corpi, ma la nostra mente e le nostre parole. 

“Le parole sono importanti” direbbe Nanni Moretti, invece sono anch’esse prigioniere entro categorie. Non capiamo che ci sono coppie omogenitoriali che vivono con bambini felicissimi e ignoriamo l’esistenza molto diffusa delle cosiddette “famiglie atipiche” in cui le relazioni contano più dei ruoli tradizionali. A prevalere in questi casi è la genitorialità. Si può essere madri o padri anche con figli concepiti da altri perché i figli sono anche di chi li cresce e non sempre di chi li concepisce. Basta con certi precetti morali! Per screditare le famiglie omogenitoriali si usa anche in modo strumentale la questione della maternità surrogata,  enfatizzata e volgarizzata come “utero in affitto” omettendo di dire che nel novanta per cento dei casi questa pratica riguarda famiglie eterosessuali

 

Il mantra “Dio Patria e Famiglia” è in crisi. Le nuove generazioni lo sanno. A non capirlo sono i moralisti d’accatto che si ergono a difensori della famiglia tradizionale patriarcale e finiscono poi nella loro vita privata a vivere di tradimenti, di bugie e di ipocrisie quando va bene e, quando va male, si voltano dall’altra parte se tradimenti e bugie finiscono in tragedie in cui a pagare con la vita sono le donne.

Orso M49 

Natale in carcere

E se il Natale lo avessimo passato in carcere?
Sono trascorse anche quest’anno le festività natalizie, le abbuffate, gli incontri annuali dei parenti di cui tanto spesso, noi di fuori, ci lamentiamo e che quasi non riusciamo a sostenere. Ci avete mai pensato, come sarebbe dentro? Il Natale in carcere, lo racconta brevemente L: le sensazioni e i pensieri nei giorni precedenti le “feste”.
LE PAROLE DI L

Si avvicinano Natale e il Nuovo Anno. In carcere non esiste solo il sovraffollamento quello “classico”, 51.000 posti in carcere e 61.000 detenuti effettivi al momento (ma questa criticità è destinata ad aumentare). 

C’ è un altro “sovraffollamento”, quello dei pensieri nella nostra testa, “l’over thinking”. E già, in prossimità delle feste natalizie e di fine anno si pensa a tutto e di tutto, si sovrappongono annoto pensieri negativi e positivi, qualche volta ossessioni sulle nostre compagne di vita fuori, su parenti, amici veri o presunti che non vediamo più, conoscenti, avvocati (se poi questo professionista è un difensore d’ ufficio, “peggio mi sento”, perché non è escluso possa essere “prono ai desiderata” della pubblica accusa). 

Ci consoliamo durante le feste pensando che rispetto ai nostri errori e reati non abbiamo avuto scelta. 

Ma evitiamo narrazioni “tossiche” e limitiamoci a dire che Natale e Capodanno sono molto distanti dalle nostre vite precedenti, quelle degli anni vissuti in libertà per intenderci.

Senza la vicinanza dei nostri cari, mogli, figli, sorelle, fratelli; senza gli umori, i sorrisi e gli sguardi di chi ci vuole bene; senza gli odori di un pranzo fatto in casa e i colori delle pareti di quella casa. Condividiamo un panettone nel chiuso di una cella a 6 (che dovrebbe essere a 3) con persone che non abbiamo scelto, scriviamo una mail di auguri, poi stracciamo il foglio e la riscriviamo sperando sia migliore della prima

 

C’è poi chi dopo aver “promosso” insieme ai suoi “sodali” il “nuovo pacchetto sicurezza” si sgrava la coscienza con la solita “passerella” a teatro in carcere. Si fosse fermato a Ciampino non ne avremmo sentito la mancanza. No, è sceso a Rebibbia. 

 

Natale in carcere: “Vivere e sorridere dei guai”, direbbe Vasco. 

Orso M49 

 

La storia di Giacomo – il ritorno

E poi c’è stato il ritorno…

CONTINUA 

 

Tra il 2009 e il 2019 Laura raccoglie la testimonianza di Giacomo. Giacomo, un ex detenuto ed ex utente del PID racconta la sua storia, condivide il suo percorso: dalla scelta di delinquere al carcere, alla misura alternativa. Abbiamo deciso di ripescare le sue parole e consegnarle allo spazio del blog un po’ alla volta. Così da darci il tempo di riflettere sulle esperienze vissute dal protagonista e tentare di ascoltarlo, comprenderlo e accoglierlo; evitando di cadere nella banalità di definire cos’è buono e cos’è cattivo senza considerare la complessità degli eventi che percorrono il quotidiano di un uomo. 

 

Mamma mia il ritorno… 

Già vado a fa’ i bagagli per Fiumicino e dicono che dovevo pagare 50 dollari in più perché avevo dei kg in più. Quando mi so’ imbarcato erano i primi di novembre, sudavo come una bestia per il nervoso

 

Sono stato proprio stupido che mi sono consegnato – mi dice scuotendo la testa – 

prima sono andato al consolato e ho detto che mi ero perso il passaporto per rifarlo originale e mi hanno detto di portare il biglietto aereo e le foto e che mi facevano un passaporto per 20 giorni. 

 

Poi sono andato a Santa Monica e un amico mio – è stato proprio st*o*zo – stavamo parlando vicino all’impiegato  e mi hanno chiesto perché andavo via e io gli ho detto che avevo problemi con la giustizia: l’amico mio se n’è andato, si è spaventato e mi ha lasciato lì.

 

È andata così, sono ritornato in Italia, a prendermi c’era mia figlia con la macchina ma io non sono salito in macchina con lei: sono andato alla polizia. Che stupido, che stupido!

 

Una volta entrato e spiegata la situazione, la polizia ha controllato sul computer, dopo dichè mi hanno guardato è mi hanno detto che ero un pazzo. Vabbè, due/tre anni, poi basta che non siano reati gravi, mi avevano detto. E invece erano 23 anni…

 

Poi da 23 sono sceso a 19 con l’indulto, poi meno 4 anni, a un quarto di pena si potevano chiedere permessi, ma non me li davano che il mio educatore era un ba*ta*do.

Poi un giorno mi ha chiamato il magistrato per parlarmi, s’è letta il fascicolo e mi dice: “chiama l’avvocato, parla con lui”. Quell’avvocato però non lavorava bene, allora – sai com’è – parlando con gli altri detenuti mi hanno consigliato l’avvocato che c’ho ancora, ch’è nu bravo guaglione.

 

Poi è successo che lui stesso mi ha detto che ci stava una legge vecchia, ex Art. 71… Lui non la voleva chiedere e io invece ci ho voluto provare: e tutto da solo ho mandato un istanza per chiedere l’applicazione di sta’ legge. Era il 28 di maggio e il 27 di giugno mi chiama la matricola e mi dice che era stata accordata.

 

Il  quintuplo della pena era da 13 anni rimasti mi hanno levato sette anni. Neanche l’avvocato ci credeva perché è una legge vecchia, ma è andata bene.

Poi l’educatore non mi ha aiutato e ancora non uscivo. Poi sono stato male di salute e alla fine ce l’ho fatta e sono uscito in permesso.

 

La libertà… la libertà com’è stata? Mo ti racconto…

Quel giorno non mi è preso un colpo quando sono uscito, ma mi ha fatto impressione vedere tutti sti’ palazzi tutti uguali: la prima cosa che ho fatto è stato comprare il telefonino. 

Anzi la prima prima: sono andato al bar e ho chiesto se potevo fare un colpo di telefono,  non mi hanno fatto chiamare, si vedeva che ero un detenuto, lì sono abituati ma mi hanno mandato al negozio dei telefonini.

Sono andato, ho chiamato la signora e le ho chiesto se le potevo parlare, le ho spiegato – che poi lo sapeva pure lei – che ero detenuto e mi ha fatto fare subito il telefono.

 

E sono andato là, alla casa dove mi avevano dato l’accoglienza e poi sono arrivato in questa casa qui  e una volta qui ho chiesto la detenzione e mo sto qua.

Adesso ho finito la condanna e  posso andare a casa mia. Mo’ voglio stare tranquillo, mi voglio scorda tutto. Non è facile…

 

Tanti anni fa feci tre mesi (di carcere) per sbaglio, sono stato a Poggio Reale per qualche giorno, che neanche ci dovevo stare: un amico mi fa “ricordati che tu hai un tatuaggio nella schiena che non si toglie… è molto difficile che si toglie”, e questa frase non me la posso dimenticare.

La storia di Giacomo – l’America

Mi è venuto a prendere mio fratello all’aeroporto, mi ha fatto aspettare 3 ore seduto, le ore più brutte. Non lo vedevo da 5- 6 anni, ma non è quello: è stato uno dei momenti più brutti perché l’ho aspettato da solo con i bagagli in mezzo alla strada, non parlavo la lingua, lì da solo sembrava che il tempo non passasse mai. Poi mi ha preso e mi ha portato a casa.

E quando  ho visto Los Angeles… madonna mia!

 

CONTINUA

 

Tra il 2009 e il 2019 Laura raccoglie la testimonianza di Giacomo. Giacomo, un ex detenuto ed ex utente del PID racconta la sua storia, condivide il suo percorso: dalla scelta di delinquere al carcere, alla misura alternativa. Abbiamo deciso di ripescare le sue parole e consegnarle allo spazio del blog un po’ alla volta. Così da darci il tempo di riflettere sulle esperienze vissute dal protagonista e tentare di ascoltarlo, comprenderlo e accoglierlo; evitando di cadere nella banalità di definire cos’è buono e cos’è cattivo senza considerare la complessità degli eventi che percorrono il quotidiano di un uomo. 

[…] che se prima di ogni nostro atto ci mettessimo a prevederne tutte le conseguenze, a considerarle seriamente, anzitutto quelle immediate, poi le probabili, poi le possibili, poi le immaginabili, non arriveremmo neanche a muoverci dal punto in cui ci avrebbe fatto fermare il primo pensiero.

José Saramago – “Cecità”

Sono stato un paio di mesi da mio fratello, e un giorno ho trovato un lavoretto di pulizie e sono andato. Ho conosciuto un uomo messicano e siamo diventati amici. Siamo ancora amici, mi ha dato una mano con tutto: i documenti, il lavoro, tutto.

Il nome non te lo posso dire – dice sorridendo – mi ha aiutato a comprare la green card.

Ho fatto amicizia e ho cominciato ad ambientarmi, a conoscere persone. C’era una famiglia italiana da cui andavo sempre a pranzo e a cena la domenica. Poi, piano piano ho fatto tutto. Non ho avuto problemi con la lingua, perché parlavano tutti spagnolo chiaro, “limpido”. Proprio tutti: argentini, messicani, parlavano tutti spagnolo. Certo un po’ di inglese sì, ma poco.

 

Sono stato dal 90 fino al 2007/2008 e poi sono tornato e mi sono consegnato che l’avvocato mi aveva detto che dovevo fare sette anni.

Sono mancato da casa 18 anni.

Se il dolore per la lontananza è stato duro da affrontare? 

 

Giacomo mi guarda prima di rispondere e capisco che si è dovuto inventare un modo per andare avanti, per sopportare.

 

Eh, non ci pensavo perché a casa non potevo telefonare: non sapevo a cosa andavo incontro. Non potevo mandare assegni, ogni tanto venivano loro, ma io non potevo perché  mi cercavano sia il gruppo che la polizia. Ogni tanto andavano da mia moglie, entrambi: le chiedevano, ma lei diceva che ci eravamo lasciati. L’avvocato mi aveva detto di non mandare niente e di non fare niente. E io che facevo? Non ci pensavo.

Ogni tanto una telefonata ma è terribile, è terribile. Sapevo le notizie tramite mia zia che stava lì in California: lei li chiamava e chiedeva notizie per me. E invece è stata una ca**ata perché non sapevano niente in Italia, infatti quando mi sono consegnato ho detto, “che st*o*zo”. Non sapevano niente.

 

Non li ho mai potuti far venire lì perché mia moglie non voleva, voleva  stare vicino alle figlie che stavano diventando grandi. Venivano uno, due mesi: una volta s’è stata tre mesi con la figlia piccola, che bello.

Ho sofferto, sì che ho sofferto.

Per esempio, quando è morto mio padre … Non ho mai pianto in tutti quegli anni, solo quando è  morto mio padre, che non l’ho potuto salutare e poi quando si è sposata mia figlia, è stata una giornata terribile: sapevo che mia figlia si stava sposando e io non potevo portarla all’altare.

 

C’era un detto italiano e americano, mia zia lo diceva sempre,  tutti i migranti dicevano  “salute e lontananza” come dire: salute e vai avanti. Tutti i migranti italiani dicono ‘sta cosa perché è così, non puoi scervellarti col pensiero, non puoi stare a pensare sempre sennò diventi matto.

 

Nel 2001 (quando) è morto mio padre ho ricominciato a telefonare, non me ne importava più, io telefonavo: non mi fregava più niente.

Nel 2007/2008 mi so’ detto “mo’ basta, voglio tornare”.

E in quegli anni è morta mia zia che era come una mamma americana, io la mamma non ce l’avevo più e lei era bella aperta come me. Mi so’ detto “mo basta e se mi succede qualcosa a me?” Il pensiero che mi ha fatto decidere di tornare è stato questo: è stata la famiglia, ovvio. Non ho mai sofferto troppo, ma io sono molto emotivo, e alle feste sentivo questa sensazione, come una malinconia. Era brutto e l’amico mio diceva “andiamo a Las Vegas” mi portava a Las Vegas. Andavo ogni due mesi e ci giocavamo un bel po’ di dollari.

 

In quegli anni la cosa più bella che mi ha portato avanti, che mi ha dato la forza, è stato il volontariato dentro le chiese il sabato e la domenica, era bello, ma devo dire la verità, sono loro ad aver dato una mano a me.

Andavo  e davo da mangia’ 250 “sanguìch” una busta così – fa cenno della misura con le mani – c’era o “sanguìch”, il latte, frutta, dolci … Noi andavamo a prendere (il cibo) nei supermercati, là non è come qua. Una settimana prima che scadessero levavano tutti i prodotti: noi li passavamo a prendere col furgone, li portavamo alla chiesa e li davamo ai poveri; stavano per scadere ma erano ancora buoni. La mattina andavamo lì e  li scaricavamo. Avevo fatto  amicizia con Vito, era un siciliano, vecchissimo, una persona stupenda e lui mi aiutava su tutto, lì tra migranti c’era la solidarietà, non è come qua, lì non c’era razzismo con gli italiani anzi, anzi.

 

Continua a parlare a raccontare aneddoti tutti diversi, riemergono nomi, facce, battute. 

 

Una volta ho conosciuto una donna che lavorava al mercato del pesce, mi fa “ue paisaa”, non mi voleva lasciare e mi ha portato a casa sua a mangiare.

Poi lì non è come qua, pure i poveri non li riconosci, sai? Una volta, non me lo posso mai scordare: c’era un direttore di banca a prendere la busta dei poveri. E pure i neri che mi prendevano in giro e mi dicevano “l’americano”, io rispondevo che ero italiano: era diventato un gioco tra di noi. È stata una bella esperienza: tutte le famiglie italiane che ti fanno il barbecue e ti chiamano, bello sempre. Sono stato ben accolto, quando sono andato via mi sono dispiaciuto perché mi hanno fatto sentire che mi volevano bene.

E poi c’è stato il ritorno…

 

CONTINUA

La storia di Giacomo – la fuga

Per sei/sette anni, poi ci sono stati i problemi.

Che problemi vuoi sapere tu eh?

 

Il sorriso si smorza sul suo volto e si comincia  a toccare nervosamente le mani – Eh, perché me ne volevo uscì fuori e purtroppo una volta che sei entrato dentro…

 

Si ferma e capisco che le cose non erano come se le immaginava.

 

CONTINUA

 

Tra il 2009 e il 2019 Laura raccoglie la testimonianza di Giacomo. Giacomo, un ex detenuto ed ex utente del PID racconta la sua storia, condivide il suo percorso: dalla scelta di delinquere al carcere, alla misura alternativa. Abbiamo deciso di ripescare le sue parole e consegnarle allo spazio del blog un po’ alla volta. Così da darci il tempo di riflettere sulle esperienze vissute dal protagonista e tentare di ascoltarlo, comprenderlo e accoglierlo; evitando di cadere nella banalità di definire cos’è buono e cos’è cattivo senza considerare la complessità degli eventi che percorrono il quotidiano di un uomo. 

“Il racconto di storie è un’educazione dell’attenzione”.

Tim Ingold

Non era una batteria autonoma, era legata alla malavita del casertano, solo che a un certo punto gli ho detto “non mi conviene più, io devo rischiare la galera per gli spiccioli. Non gli spiccioli però, è un bel guadagno, però… me ne posso guadagnare molti di più da solo. Ed è successo il patatrac! Mi hanno minacciato, mi hanno puntato il coltello e mi hanno tagliato guarda qua – mi fa vedere una cicatrice – ho avuto paura, perché non me ne potevo uscire se no mi ammazzavano, che poi chi sta in mezzo alla strada lo sa che ci stanno pericoli, ma non così.

 

Poi un avvocato mi ha detto che cominciavo ad avere qualcosa di penale e me ne sono andato, tanto ero bruciato perché avevo delle pendenze penali e mi potevano scoprire.

Dopo che mi hanno minacciato… Beh, la mia famiglia a casa sapeva tutto, ma quando sono arrivato a casa tagliato con i punti è stato diverso. Parlando con l’avvocato e pensando a questa gente, in accordo con la famiglia, abbiamo deciso che dovevo andare via, lontano. Che poi ho fatto bene perché a quest’altra persona che se ne voleva uscire lo hanno sparato in Francia, chi era? Era  quello che dirigeva, ma lui ha continuato troppo perché quando sono arrivati i computer tutte le banche si sono accorte. Prima non usciva niente dai computer: i documenti, i numeri, le serie, non usciva niente. Io me ne sono andato perché avevo paura che mi ammazzassero, ho chiamato un fratello che stava lì in America e lui anche lo sapeva, sapeva tutto: gli ho detto “arrivo” e sono andato.

 

Sono partito con il passaporto falso, ma originale – come ti raccontavo prima per le carte di identità – ma col nome mio, la foto mia. In America mi hanno fatto spaventare a Philadelphia, non mi ricordo come era la storia, però c’era una bomba quando sono arrivato. C’erano le Olimpiadi a  Chicago e pensavano ci fosse una bomba e così tutti gli stranieri li hanno fatti stare 5/6 ore fermi, poi ci hanno lasciati passare.

 

Si ferma e raccoglie i ricordi, sono vivi e lontani allo stesso tempo ed è come se li scorresse mentre si narra, va avanti poi si ricorda un particolare divertente o importante per lui e li riavvolge, come si faceva con le musicassette con il rewind …e ricomincia con più colori,odori, più immagini e personaggi come se piano piano venissero fuori uno alla volta da dietro un sipario di velluto rosso.

 

C’era l’interprete all’aeroporto: mi hanno chiesto perché il passaporto fosse così pieno di timbri.

Quando mi hanno fatto il passaporto – mica so “fess” – sono andato in Romania, in Jugoslavia, per avere i timbri. Quindi quando mi hanno domandato perché era così rovinato, io gli ho detto che facevo  l’autista e che me lo mettevo in tasca, nei jeans. E quando hanno finito con le domande, non me lo scordero mai, è arrivato un uomo gigante, me lo ha sbattuto in mano e mi ha fatto “Vai fuori, via. Vai in America”. 

 

Era l’89, e non c’era il computer che subito si guarda, ora sanno tutto ma prima non era così.

La storia di Giacomo è complicata tortuosa e avventurosa eppure lui è un uomo così semplice, è emotivo e ansioso. Così ansioso che mi domando come abbia fatto ad affrontare tutte queste trasformazioni, ma nessuno di questi passaggi credo sia stato indolore. E così domando “Cosa hai provato? Cosa sentivi?”

 

Eh, quando sono partito io non me lo posso mai scurda: c’era la canzone di Gianni Morandi che cantava “Dai che ce la fai”. Mi è venuto a prendere mio fratello all’aeroporto, mi ha fatto aspettare 3 ore seduto, le ore più brutte. Non lo vedevo da 5- 6 anni, ma non è quello: è stato uno dei momenti più brutti perché l’ho aspettato da solo con i bagagli in mezzo alla strada, non parlavo la lingua, lì da solo sembrava che il tempo non passasse mai. Poi mi ha preso e mi ha portato a casa.

E quando  ho visto Los Angeles… madonna mia!

 

CONTINUA

La storia di Giacomo – delinquere

Tra il 2009 e il 2019 Laura raccoglie la testimonianza di Giacomo. Giacomo, un ex detenuto ed ex utente del PID racconta la sua storia, condivide il suo percorso: dalla scelta di delinquere al carcere, alla misura alternativa. Abbiamo deciso di ripescare le sue parole e consegnarle allo spazio del blog un po’ alla volta. Così da darci il tempo di riflettere sulle esperienze vissute dal protagonista e tentare di ascoltarlo, comprenderlo e accoglierlo; evitando di cadere nella banalità di definire cos’è buono e cos’è cattivo senza considerare la complessità degli eventi che percorrono il quotidiano di un uomo. 

 

«Tutto sta nell’osservare le persone, osservare significa tentare di capire i loro comportamenti e capirle significa già perdonarle. La gente finge non perché è cattiva. Finge per paura […] o per amore. Il problema è se riconosciamo queste finzioni in modo generoso, senza fare distinzioni tra Bene e Male

Krzysztof Kieślowski

Io sono arrivato qua, in questa casa di accoglienza perché non volevo tornare a casa, volevo evitare di far parlare la gente del paese, l’ho fatto per la mia famiglia: perché la gente parla.

Ti devo  raccontare come sono arrivato qui, la mia storia. Sono arrivato qui in casa famiglia perché stavo in carcere.

 

È una storia complicata … 

Ho perso il  lavoro che avevo 45 anni più o meno, facevo il meccanico; ho bussato un po’ in giro cercando e niente. Non trovavo niente. Un giorno un amico mi ha detto che non c’era nessun problema e che, visto che ero una persona affidabile poteva farmi fare un lavoro. E così è cominciata. 

Lui mi ha detto che c’era un rischio. L’ho fatto due/tre volte, ed è andata bene. Così un po’ alla volta… lui mi dava dei documenti falsi, mi dava degli assegni, io andavo in banca e li cambiavo.

 

E ho cominciato così. Il guadagno era buono, cambiavo assegni circolari e guadagnavo il 35 % dell’importo degli assegni, era un bel mestiere, non era male: un bel guadagno. All’epoca si poteva fare perché non c’era il computer e in banca non c’erano le telecamere.

Non ero agitato, ero tranquillo quando “lavoravo”, l’ho fatto bene per tanti anni. Entravo sicuro che io ero quella persona e basta.

 

Eh, come facevamo? – vuoi sapere – Eravamo una batteria è logico, io ero sempre da solo in banca, non mi piaceva stare con gli altri. Facevo tutto da solo.

Sui documenti c’era la mia fotografia e la carta d’identità, tutto. Erano originali, mi davano il documento, io partivo e me ne andavo: Torino, Milano, Bologna … dove mi dicevano di andare.

Era un documento vero del comune, però falso: con la mia fotografia, nome e cognome dell’assegno. Logico, c’era qualcuno che sfilava (rubava) le carte d’identità prestampate del comune originali e le dava a quello che si occupava dei documenti.

Consegnavo l’assegno e la lettera della ditta, ovviamente non so come facessero di preciso a prendere i documenti originali, avevano un uomo al comune, credo, che li sfilava. Poi c’era uno proprio che faceva i documenti e metteva pure i timbri, tutto insomma.

Tra di noi  ci conoscevamo tutti, gli unici che non ho mai visto sono i postini. Loro prendevano gli assegni: erano quelli che facevano il primo passaggio. I postini vendevano gli assegni a queste ditte… diciamo “ditte”.

 

Se avevo dei travestimenti? – sorride e con aria un po’ fiera dice – È logico, ogni documento aveva  il suo personaggio. Era come fare l’attore: io avevo sempre il genere “perito agricolo”, era il mio ruolo. A volte ero infermiere diplomato, ero un sacco di cose, ma andava bene, ero bravo.

E una volta sono stato addirittura cardinale: quella  volta mi hanno detto “ci sono diversi assegni piccoli li devi mettere tutti insieme e li devi prendere”; mi sono messo il vestito scuro da cardinale con la crocetta, l’anello, tutto e ho portato due ragazzi con me pure loro vestiti da prete e non c’è stato nessun problema. Era l’88 – ride – con la macchina, il mercedes, siamo andati e tutto apposto ce li hanno dati.

 

Gli assegni erano da 5 milioni (di lire) in poi, non conveniva andare in banca per gli spiccioli logico, assegni piccoli? No, no, c’era il rischio. Ero io che dovevo combattere col cassiere, ero io che dovevo convincerlo, parlarci. L’ho fatto bene, lo facevo bene. Per ogni personaggio ci andavo come ci dovevo andare: se ero un meccanico mi mettevo la tuta e ci andavo. Per sei/sette anni, poi ci sono stati i problemi.

Che problemi vuoi sapere tu eh?

 

Il sorriso si smorza sul suo volto e si comincia  a toccare nervosamente le mani – Eh, perché me ne volevo uscì fuori e purtroppo una volta che sei entrato dentro…

 

Si ferma e capisco che le cose non erano come se le immaginava.

 

CONTINUA

 

Il detenuto “adultolescente”

Il detenuto, la sessualità e l’affettività in carcere. L ci scrive:

LE PAROLE DI L 

 

I carcerati sono ridotti alla stregua di adolescenti ma che dico ADULTOLESCENTI per dirla con un neologismo. Il vero danno non è “l’astinenza”, quanto la frantumazione della vita di coppia. Nessun luogo è lontano, neanche il carcere in una società. 

Eppure il legame affettivo è eroso dal carcere e con esso la sessualità, riconosciuta invece in altri Paesi europei.Quando se ne parla assistiamo sempre ad un vergognoso “girotondo” di pregiudizi, si crea attorno a questo “diritto negato” un ” humus ” favorevole a chi con pulsioni irrefrenabili, con un florilegio di insulti e con toni sbracati urla “chiedendo di buttare via Ia chiave”.

Tutto questo semplicemente per raccogliere uno squallido dividendo elettorale.

 

La sessualità è una componente essenziale in un rapporto di coppia, corrobora la relazione coniugale, ne scongiura il logoramento a vantaggio anche degli altri componenti di una famiglia

Con la negazione di questo diritto capisci che il tuo tempo, il tuo vissuto, la tua storia di coppia possono dissolversi. 

Ti accorgi, con Io sguardo perso nel vuoto/che c’era un “prima” ma che forse non ci sarà un “dopo”. Si finisce con il dissipare un legame o quantomeno si rischia di ridurlo ad un guscio vuoto. C’è una regressione “adolescenziale” del detenuto che si rassegna alla “piattezza” della vita quotidiana dietro le sbarre. 

 

Aspettiamo la Consulta, “Nessuna notte è infinita” direbbe Renato Zero.

 

ORSO M49

Riflessioni di L sull’attualità

LE PAROLE DI L

Quante volte

Quante volte con improvvidi “cazzeggi” giuridici ci scagliamo noi detenuti con improbabili certezze contro la cosiddetta ” discrezionalità” del Magistrato di fronte ad una sua ordinanza? Senza rendercene conto difendiamo interessi non nostri che non ci appartengono, interessi ” diciamolo pure ” apertis verbis” di “classe ” .

Pochi giorni fa la Giudice Valeria Ciampelli ha deciso di applicare la misura cautelare del solo divieto di dimora ad una donna , Zaira, di Tor Bella Monaca difesa dalla avvocata Manila Salvatori. Zaira era stata fermata dalla Polizia con alcune dosi di crack ed eroina. Non era la prima volta: una donna disperata con un marito morto in un incidente , con dei bambini senza futuro , prospettive di lavoro, nulla. La Giudice ben lungi dal sollevare in modo “lombrosiano”il sopracciglio e percependo il dramma di questa donna e la condizione di marginalità sua e dei suoi bambini che con un padre ormai deceduto ed una madre in galera chissà dove sarebbero finiti ha deciso di attenuare la misura.

Senza la discrezionalità , senza questo strumento di garanzia tanto inviso al garantismo di classe, quello a corrente alternata per intenderci dove si è deboli con i” colletti bianchi”e duri e puri con i “poveracci” tutto questo non sarebbe potuto accadere.

Quante volte anche noi detenuti ci lasciamo andare a supercazzole giuridiche il Giudice non è un” algoritmo” e non è ancora subalterno al potere politico.

Un atto di giustizia

Poche settimane fa un decreto del tribunale civile di Matera ha ordinato alla ASL di eseguire una risonanza magnetica ad una donna di 51 anni che da settimane a causa di alcuni noduli al fegato cercava di sottoporsi a questo accertamento. La donna non aveva i soldi era in uno stato di indigenza , un quadro disperante insomma, e non poteva per fare in fretta , attesa la gravità , rivolgersi ad un privato. Salvifico è stato il provvedimento di un Giudice ,il dott. Angelo Franco, il quale accogliendo il ricorso dell’avvocato Angela Maria Bitonti , Presidente dell’Associazione per la tutela dei diritti dell’ uomo I’ “ADU“, ha poi consentitola TAC.

Noi detenuti pervasi, è comprensibile, da un pregiudizio ideologico, (siamo o siamo stati pur sempre in carcere a seguito di una condanna emessa da un magistrato) ci saremmo aspettati tutto tranne che vedere un magistrato porre coraggiosamente rimedio questo singolo caso . Ciò che traspare in modo evidentissimo è la selvaggia privatizzazione ispirata da lobbies economiche che in nome del” profitto” e forti della loro presenza nei consigli di amministrazione, condiziona le scelte dei politici” sponsorizzandone” la loro elezione in Parlamento.

Un plauso a questo Giudice che potremmo dire ha dato coraggio alle paure di questa donna, alla sua disperazione, alla sua marginalità.

“Sconfiggere la povertà non è un atto di carità, è un atto di Giustizia”.
Nelson Mandela

Il passato che non passa

“A noi…II dovere di reprimere!” è la frase di un film …

La guerra agli ultimi, ai marginali ai migranti alle mamme detenute con figli minori ai detenuti quelli ristretti in carcere e quelli rinchiusi senza titolo nei C.P.R., la guerra nei loro confronti è già cominciata con l’inasprimento delle pene. Si creano nuove norme, si assimila la resistenza passiva del detenuto che disobbedisce a quella del detenuto violento, si fa la stessa cosa con i ragazzi ambientalisti considerati con le nuove norme alla stregua di terroristi.
Tutto questo con buona pace dei reati finanziari e fiscali ed anche quelli di mafia dove il “bottino” il mal tolto o chiamatela come credete la “refurtiva” è di gran lunga superiore.

Questa è la predicazione di chi ci governa, del “Presidente del Consiglio” (non ama le declinazioni al femminile e non la chiameremo” la Presidente” vittima com’è della sua concezione patriarcale) che si dice “orgogliosa” di questo pacchetto sicurezza.

Siamo ormai al balconismo recidivo non più a Piazza Venezia ma poche centinaia di metri più in là a Palazzo Chigi.

“La città è malata ad altri spetta il compito di educare e di curare, a noi il dovere di reprimere la repressione è il nostro vaccino!”

Sono le parole di Gianmaria Volontè nel panni di un funzionario di polizia nel celebre film del 1970 di Elio Petri “Un cittadino al di sopra di ogni sospetto”.

Il passato che non passa, bellezza.

 

ORSO M49

Il permesso premio: Noodles e Fat Moe

LE PAROLE DI L

Il permesso premio «consente al detenuto di “uscire temporaneamente” dal carcere, per periodi non superiori a quindici giorni, fino ad un massimo di quarantacinque giorni all’anno, per coltivare interessi affettivi, culturali e di lavoro» Dott.ssa Francesca Saveria Sofia

Provvidenziale fu la legge del 10 ottobre 1986 numero 663 ovvero la “legge Gozzini” del Senatore Comunista Mario Gozzini con la quale si introdussero le misure alternative al carcere e tra queste i permessi premio ai detenuti.

ll “permesso premio” è quel beneficio premiale che ti consente la riappropriazione del tempo perduto e la valorizzazione di quello presente e futuro.
Ci si relaziona con i propri cari, si riassaporano “frammenti di libertà”, anche quando banalmente da ” semiliberi” si sorseggia un caffè al bar, si fa una corsa al parco o si carezza un cane.
E poi … diciamola tutta … si stemperano le ” tempeste ormonali “. Le giornate tornano ad essere non più ripetitive, non c’è più l’automatismo temporale che si vive dietro le sbarre dove a sovrastarci è la “predazione” del nostro tempo.
Al netto dell’emergenza climatica e dell’inquinamento ambientale si respira comunque il “profumo della libertà”. Capita spesso che, al primo permesso premio, parenti amanti conoscenti amici veri o presunti ti chiedano “cosa hai fatto per tutto questo tempo”.

La risposta, quella vera, dolce e malinconica è “sono andato a letto presto”. Proprio come Noodles (De Niro) rispondeva a Fat Moe (Larry Rapp) nel capolavoro cinematografico “C’era una volta in America” del 1984 del regista Sergio Leone.

Noodles Fat Moe i permessi premio.

ORSO M49

La criminalizzazione del migrante

ALESSIA

La criminalizzazione del migrante si estende negli ultimi anni e sempre con maggiore ferocia anche all’atto stesso del migrare, come abbiamo potuto già osservare durante la Presentazione del Dossier Statistico Immigrazione 2023. Nella sezione dedicata, andiamo a leggere le particolarità di un fenomeno che vuole nell’immaginario sociale la persona straniera come persona pericolosa, così diversa e lontana per “cultura” o “etnia” che non può conoscere né comprendere “le regole di casa nostra”. Alla banalizzazione assoluta di termini complessi – rappresentanti persone, vite e storie reali – che spesso accompagnano i discorsi del quotidiano, rispondiamo con le analisi, le ricerche sociali e le statistiche raccolte nel Dossier riguardo ai processi di criminalizzazione del migrante, di categorizzazione sociale e di securitarizzazione dello straniero. Ripercorriamo insieme i punti fondamentali affrontati.  

Le tre dinamiche dell’equazione migranti=criminali 

Il Dossier ci illustra, attraverso le parole della dottoressa Eugenia Blasetti (Università La Sapienza di Roma) tre dinamiche che «concorrono a costruire un nesso tra migrazioni e criminalità». Il sentimento comune può essere relativo alla percezione della persona migrante come persona pericolosa e dunque rappresentante una minaccia nei confronti “nostri”, della società per intero. Questo tipo di equazione “migranti=criminali” fonda le sue radici nei processi di categorizzazione sociale, securitarizzazione e criminalizzazione del migrante; i quali si inseriscono in modo trasversale negli ambiti del socio-culturale, del politico e del giuridico. 

  • Per categorizzazione sociale della persona migrante si intende l’assoggettazione di quest’ultima alla sua identità sociale; il ruolo e la posizione che essa ricopre all’interno di un gruppo umano. La rappresentazione sociale di una categoria di persone ha un peso importante nella definizione dei rapporti interpersonali e nella «produzione di identità condivise e conflittuali». Le persone migranti sono inserite all’interno di questo processo di rappresentazione collettiva, in relazione alla categoria criminale dalla quale è sicuramente molto difficile uscire fuori.
  • Sul piano politico vi è la tendenza a trasformare la questione dell’immigrazione in “meta-problema”, cioè – spiega Blasetti – «un fenomeno che può essere indicato come la causa di molti problemi»
  • Questo si traduce, sul piano normativo, in piani securitari della gestione delle persone migranti: non a caso affidati alle forze dell’ordine, garanti della sicurezza pubblica.  

Si può affermare quindi che la figura della persona che migra è costruita attraverso processi che tengono conto di almeno tre preconcetti – individuati dalla dottoressa e ricercatrice – quali: pericolosità, affidabilità e marginalità sociale (supposte).

Criminalità straniera in Italia

Se dovessimo partire dal dato statistico senza considerazioni ulteriori, come invece andremo a fare sempre grazie al lavoro della Blasetti, dovremmo sicuramente concludere che il tasso di criminalità della popolazione straniera che vive in italia è maggiore di quello degli italiani: il rapporto infatti sembra essere di 4,1% contro l’1,0%. 

Nell’anno 2021 ci sono stati 831.959 casi di arresti e denunce totali, dei quali il 68,1% nei confronti di cittadini italiani, il 26,6% di cittadini stranieri e il restante 7,4% di ignoti. (Fonte dati Dossier Statistico Immigrazione 2023)

Quali considerazioni siamo tenuti a fare per leggere la realtà con un occhio critico che va oltre i numeri? 

  • La popolazione straniera coinvolta nei casi di denunce e arresti è maggiore di quella effettivamente residente in Italia, dunque comprende, ad esempio, anche le persone di passaggio (per assistere a eventi, spettacoli, manifestazioni, ecc.) o le persone con permesso di soggiorno di breve durata per ragioni mediche, di turismo, di missione ecc.
  • Le denunce e gli arresti a carico delle persone migranti possono riguardare questioni relative la loro permanenza sul territorio italiano (tipo il titolo di soggiorno scaduto), quindi non un criterio di paragone con i titolari di cittadinanza italiana, in quanto questo tipo di reati “amministrativi” non li riguardano in alcun modo. Inoltre, la bassa pericolosità sociale di questo tipo di reati la dice lunga sulla scelta di inserirli tra gli “indicatori di criminalità”.  
  • Tenere conto che i casi raccolti riguardano il numero delle denunce e degli arresti, non delle persone denunciate o arrestate: quindi, in un anno la stessa persona può essere ad esempio denunciata più volte e dunque aumentare il tasso di criminalità della popolazione straniera in Italia. 
  • Infine, alla luce di quanto detto in precedenza e di quanto vediamo ogni giorno nelle stazioni e per le strade d’Italia, possiamo legittimamente affermare che il controllo (sia sociale che delle forze dell’ordine) si indirizza in modo selettivo e privilegia la persona straniera

 

Abbiamo riportato brevemente le questioni relative alla criminalizzazione del migrante in Italia – illustrate nel Dossier – sia da un punto di vista socio-culturale che giuridico-politico, cosa ne pensate?  Vi siete mai resi e rese conto di questi fenomeni nel vostro quotidiano? Come vi comportate di fronte a episodi di razzismo? Raccontatecelo nei commenti!

I 25 anni del PID Onlus

La Cooperativa PID Onlus – Pronto Intervento Disagio – lavora per l’inclusione sociale di persone svantaggiate – detenuti, ex detenuti, donne, minori, migranti e adulti in difficoltà – e per il recupero alla legalità di soggetti a rischio, attraverso progetti volti all’autonomia dell’individuo, alla tutela dei diritti, all’uguaglianza, alla legalità, all’integrazione e alla cittadinanza attiva.

 

In occasione del venticinquesimo anno della nostra storia – iniziata il 27 novembre del 1998 – abbiamo deciso di condividere insieme a voi la passione e l’amore che caratterizzano il nostro lavoro quotidiano. Vi invitiamo sabato 2 dicembre 2023 a un brunch durante il quale, attraverso una serie di tappe, potrete conoscere meglio i progetti più e meno recenti, sviluppati in carcere o nelle strutture di accoglienza per persone detenute che scontano parte della loro pena in misura alternativa. 

L’evento si terrà sabato 2 dicembre 2023 dalle ore 11:00 alle ore 17:00 a L’Archivio 14 – Via Lariana,14 RM. Riserva il tuo posto inviando una mail di conferma all’indirizzo pidonlus@gmail.com 

All’entrata vi sarà richiesto un contributo minimo di 15 € grazie al quale ci aiuterete a sostenere e promuovere le nostre iniziative, allo stesso tempo ci permetterete di condividere con voi un gustoso pasto a buffet, percorrendo le tappe del percorso che abbiamo pensato per voi.

Mostra e laboratorio di arteterapia

L’arteterapia è una forma di approccio alla persona che utilizza il canale non verbale mediato da diversi strumenti artistici, per raggiungere diversi obiettivi cognitivi, emotivi e sociali e per supportare lo sviluppo positivo degli individui.

ll progetto è stato pensato e costruito per  persone ristrette all’interno della 3° Casa Circondariale Roma Rebibbia da Monica Giaquinto, psicologa e arteterapeuta del team PID. 

Durante l’evento sarà possibile vedere le opere prodotte durante i laboratori e Monica organizzerà con voi un piccolo laboratorio per farvi avvicinare all’arteterapia; la partecipazione è volontaria e prenotabile all’entrata. 

L’angolo dei gadget

I nostri gadget nascono tutti da progetti interni ed esterni alle mura dei penitenziari in cui abbiamo lavorato, nascono dalle riflessioni e dalla creatività delle persone ristrette a cui il nostro costante impegno è rivolto. 

Sarà possibile acquistare i gadget per sostenere le attività della Cooperativa PID.

La creatività di un prigioniero

Mostra delle opere di un artista recluso. Come l’arte e la creatività riescono ad abbattere i muri.

Sarà possibile  ammirare ed acquistare le opere presenti.

Aiutare chi ha sbagliato non è peccato

Sostenere PID Onlus vuol dire contribuire allo sviluppo di attività, servizi e progetti a favore di persone in difficoltà nel cammino verso l’integrazione e l’inclusione.

Grazie al vostro impegno, ci permetterete di pianificare meglio le nostre azioni, garantendo maggior continuità ed efficacia ai nostri progetti. 

Nel caso in cui non riusciate a essere presenti all’evento ma volete donare un contributo alla Cooperativa, sul nostro sito (www.pidonlus.it) troverete tutte le informazioni necessarie per farlo.

QUI PER SCOPRIRE COME SOSTENERCI

Inoltre, sulle nostre pagine social di Facebook e Instagram potrete seguire i percorsi e le iniziative elaborate per le persone ristrette o che scontano la loro pena in misura alternativa, avendo accesso diretto alle loro riflessioni scritte sul blog “Passo dopo Passo” attivo da febbraio 2023. 

 

Dossier Statistico Immigrazione 2023

ALESSIA

Ieri mattina si è tenuta la presentazione della trentatreesima edizione del Dossier Statistico Immigrazione nel Nuovo Teatro Orione di Roma. Il Dossier Statistico Immigrazione 2023 è il frutto del lavoro meticoloso svolto da IDOS in collaborazione con la rivista Confronti e l’Istituto di Studi Politici Pio V volto a fotografare la situazione dei migranti in Italia. A coordinare i lavori sono stati Claudio Paravati, direttore del Centro Studi Confronti e Maria Paola Nanni, Centro Studi e Ricerche IDOS.

 

Come lo scorso anno, l’incontro delle parole di un’umanità che si stringe stretta attorno alla sua causa ha rilasciato nell’ambiente come un alone di fiducia, un senso quasi di speranza

Fiducia e speranza per un futuro diverso, per un mondo che ci sembra oggi quasi utopistico a causa del sempre maggior radicalizzarsi di una violenza generalizzata e strutturale che tende all’emarginazione e la reclusione dei migranti e di tutte le diversità non riconosciute o definite nelle categorizzazioni più volgari e simbolicamente veicolanti di insipidi pregiudizi. In un periodo storico in cui, come ha ben affermato Alessandra Trotta (moderatora della Tavola Valdese) “gli ideali più alti” sembrano essere stati calpestati e ormai irraggiungibili; il lavoro svolto da IDOS, Confronti e l’Istituto di Studi Politici Pio V è fondamentale in quanto oltre ai numeri e ai dati, o meglio, dietro ai numeri e ai dati, ci sono le persone reali. 

 

Un incontro denso sulla contemporaneità raccontata dal Dossier Statistico Immigrazione 2023 che ha visto il teatro riempirsi dell’unione di attivismo, esperienza, accademia e politica per ragionare su l’attenta fotografia dell’attuale tragicità che vivono i migranti in Italia. Un problema, quello che riguarda i migranti che riguarda noi tutti e tutte, come ha sostenuto Gianfranco Schiavone, socio Asgi (Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione) in riferimento alle recenti proposte concernenti la reclusione nei Centri di Permanenza per i Rimpatri (CPR): «Scivoliamo sempre di più verso misure potenti che sono la privazione della libertà per una condizione di una persona, non per la condotta!».

 

Quale società si configura? Si configura la società voluta dalla Costituzione?

 

Schiavone ricorda la Convenzione di Ginevra per cui non si possono applicare sanzioni penali a persone che entrano seppur “illegalmente” in un paese se per ragioni di sicurezza. Questo sembra un’affermazione ovvia ma è in realtà tutto ciò che viene messo in discussione oggi. L’atteggiamento politico e istituzionale nei confronti dei migranti e il conseguente sentimento ostativo della popolazione autoctona in generale può esser considerato il frutto di una distorsione, una narrazione errata sul concetto stesso del “cercare asilo”, molto spesso identificato con la sfera morale: una condotta sbagliata.

Il lento e devastante tessere di una rete di regolamenti e procedure, per il fine di arginare il “problema di fondo” (proteggere la sicurezza interna?) ha generato l’assurda condizione per cui si tentano di trovare tutti i modi possibili per rendere le richieste di asilo inaccessibili. Così, si potrebbe dire con le parole di Maria Paola Nanni (IDOS), assistiamo a un sempre maggiore “assottigliamento della linea tra accoglienza e trattenimento”. 

Cosa pretendiamo di capire da chi scappa dalla propria casa per salvare la propria vita? Quale prova tangibile vogliamo cercare della loro condizione a rischio? Un “certificato di persecuzione”? (Schiavone)

 

Ad introdurre la presentazione, le parole di Luca Di Sciullo (presidente del Centro Studi e Ricerche IDOS) che ha parlato della prospettiva securitaria performante delle legislazioni che normano la migrazione in Italia e in Europa, la quale da almeno cinquant’anni ha condotto alla triste e più che mai contemporanea realtà costituita da razzismo istituzionalizzato e pratiche di esclusione delle persone che migrano. 

 

«Ciò che mette davvero a repentaglio la sicurezza nazionale non sono i profughi che arrivano ai confini, ma è il trattamento disumano che, per legge, riserviamo loro in modo sistematico in tutti gli ambiti più fondamentali della vita, disconoscendone i diritti basilari e rendendo proibitiva la realizzazione dignitosa della loro persona».

 

Di Sciullo ha parlato di una doppia trasformazione antropologica che si è progressivamente messa in atto in questi anni: dal richiamo della violenza per perseguire “l’unità del branco” attraverso le dialettiche nazionalistiche, alla “cosificazione dei migranti” sui quali, per mezzo degli schermi proiettiamo i nostri sentimenti di oppressione ed esasperazione. Si potrebbe definire un razzismo 2.0, ha illustrato ancora il presidente: un razzismo che prevede la deumanizzazione del migrante il quale approda a “cosa”.

 

Condivisione civica, speranza, diritti: sono una necessità contemporanea. Luca Casarini (capo missione della nave Mare Jonio di Mediterranea Saving Humans) ha tenuto a sottolineare, parafrasando Hannah Arendt, che la democrazia non è mai sicura, va conquistata ogni giorno. E raccontando delle esperienze di salvataggio che porta avanti in mare – un mare che è nostro amico, tristemente trasformato dalle politiche nel mausoleo che è oggi – Casarini ha dato voce ad una “grande verità” secondo il mio parere poco considerata nel marasma dei discorsi sui migranti: «Noi li soccorriamo ma sono loro a salvarci dal precipitare del mondo che vedete proiettato nelle televisioni, quello lì è il loro mondo noi ne vogliamo costruire uno diverso».

 

Anche se brevemente e non in modo completo, ho tenuto a dedicare questo spazio alle parole e alle riflessioni aperte ieri dall’incontro della presentazione del Dossier Statistico Immigrazione 2023, in quanto sostengo siano state dense di significato e sia importante riportare alcune delle considerazioni emerse, così da poter tentare davvero di ripensare insieme un mondo diverso

Se ti interessa saperne di più vai al link www.dossierimmigrazione.it e facci sapere cosa ne pensi!

 

Nei prossimi articoli, utilizzeremo questa fonte fondamentale del Dossier per affrontare il discorso della percezione comune della persona migrante come criminale e della condizione reale delle persone straniere nelle carceri italiane

Per concludere, come di fatto ieri ha concluso Paolo De Nardis, presidente dell’Istituto di Studi Politici S. Pio V: «Oggi sono stati citati i numeri della migrazione, ma senza mai perdere di vista il filo rosso dell’urlo di battaglia di queste persone coraggiose, a dimostrazione che non è solo importante l’io ma anche il noi. Le nostre esistenze devono essere rivedute nello specchio del sé, perché l’alterità è una cosa bella, non solo da studiare ma anche da vivere».

Quanto costano le mail in carcere?

LE PAROLE DI L

Il vento delle mail in carcere, a caro prezzo

C’è un dato che deve confortare, almeno chi se le può permettere, stiamo parlando delle mail in carcere. È un “mezzo di comunicazione” notevole dietro le sbarre. Con la mail “parliamo scrivendo” al cuore dei nostri cari e loro parlano al nostro. 

 

Con la mail comunichiamo più celermente con i nostri avvocati, talvolta inca**andoci con loro chiedendo rassicurazioni ed altro. Con le mali siamo presenti laddove siamo assenti: il mondo libero, ca va sans dire.

 

La mail può rafforzare la nostra identità scalfita dall’assenza della libertà

Ci sono per noi detenuti, in questa forma di comunicazione, nostalgia e sensi di colpa per ciò che non si è vissuto, nel bene e nel male. Ma si continua a sognare un futuro con l’arma della scrittura. 

 

Non deve sembrare questa una narrazione edulcorata e rosea della realtà, perché i nodi da sciogliere sono tanti a cominciare dai costi e dai tempi di invio e ricezione che non sono esattamente gli stessi che si hanno “fuori” in libertà. La posta elettronica “smistata” da altri arriva sempre il giorno dopo. Quella di venerdì poi il lunedì successivo. Quello che parenti, mogli, figli ed avvocati scrivono può essere letto solo il giorno dopo. E, molte volte, neanche letto perché viene ricevuto e mandato in automatico nello SPAM del ricevente, perché non viene riconosciuto dalla email. 

Quanto ai costi… Et voilà 30 pagine 12 euro, 70 pagine 24 euro, 165 pagine 40 euro e dulcis in fundo, 250 pagine 54 euro.

  

È bello il non detto…. 

Sarebbe giusto riconoscere questa modalità di comunicazione anche a chi è “l’ultimo degli ultimi ” e non ha un centesimo, ma tant’ è. 

 

M 49 

Le telefonate, il blindo socchiuso dei detenuti

I PENSIERI DI L

La “stretta” sulle telefonate per i detenuti  lascia presagire tempi “duri” per gli Ultimi, quelli dietro le sbarre.

Fa sorridere per non dire inca**are, scusate il rigurgito lessicale, che in un periodo in cui impazzano decreti legge non più “ad personam” come ai tempi del Cavaliere, ma “contra personam” (vedi Cutro) decreti ormai prassi quotidiana con buona pace della “necessità ed urgenza”, non ci sia nulla che riguardi la popolazione detenuta. 

E dire che spesso “manine”, provvidenziali per qualcuno, inseriscono in questi decreti cose estranee agli stessi provvedimenti legislativi per compiacere lobbies, gruppi industriali e consorterie varie. Ma non c’è nulla che possa mitigare l’espiazione della pena

 

Le quattro telefonate settimanali consentivano a tutti noi di poter tenere socchiuso, (è una metafora) il blindo del carcere, permettendo, per qualche minuto a tutti noi di pensarci fuori con i nostri cari, ci si quasi illudeva di poter condividere le loro quotidianità, ansie, gioie e preoccupazioni. Era poco ma era tanto, per usare un ossimoro. Stupisce che un Ministro che “brandiva” la bandiera del garantismo ora appaia come colpito da afasia e sia inerte di fronte a questo abisso securitario. 

 

Le scorie post-fasciste si sono ormai diffuse nei palazzi di potere. 

“Non abbiamo le prove ma sappiamo che è vero”, direbbe Pasolini. 

 

Cosa pensano i detenuti del mondo fuori?

Nulla è per sempre, tutto è transeunte. 

Pensando a quel che doveva essere e non è stato (nella nostra vita) molti di noi detenuti provano amarezza. Il passato resta (in parte) ed è anche giusto che sia così, perché si deve rispondere delle proprie condotte illegali. Tutto ci “segue e ci insegue” a cominciare dai sensi di colpa per i danni causati alle parti lese ed alla Comunità, per finire alle delusioni ed alle sofferenze che con quelle condotte abbiamo provocato ai nostri familiari. Ed allora per non buttare via il tempo e dare un senso non più distruttivo alle nostre vite è giusto pensare di “utilizzare” un giorno noi stessi al servizio degli altri. Ci confrontiamo, discutiamo (talvolta con asprezza) per condividere idee e progetti con altri detenuti, con gli operatori sociali ed il volontariato. 

 

Di fronte alla questione migranti ed al dramma che ne consegue (ci si ostina a considerarlo un problema solo emergenziale e non strutturale ed epocale), di fronte alla de-umanizzazione degli ULTIMI, alle sperequazioni sociali, ad un Esecutivo che vorrebbe una Magistratura subalterna al potere politico, una  Giustizia “strabica”, forte con gli ultimi e debole con i “Colletti Bianchi”, anche noi detenuti spesso ci interroghiamo, discutiamo, ci misuriamo ognuno con le proprie convinzioni

 

Perché una volta “fuori” sarà questo il mondo con cui interagire, 

E dovremo farlo in modo costruttivo, questa volta. 

 

M49 L’orso

La giustizia di classe

La giustizia di classe, secondo il nostro ricercatore spossato: L commenta la perplessità dell’esecutivo riguardo il recente provvedimento della Giudice di Catania. Le sue riflessioni principiano spesso dal profondo desiderio di non restare fuori dal mondo, di condividere il proprio punto di vista e dimostrare, un po’ a se stesso, ma soprattutto alle altre persone,  che la detenzione non deve necessariamente rappresentare una “chiusura” nei confronti di quel che accade all’interno della società per intero e di tutto quello che non riguarda in modo diretto l’universo totalizzante della reclusione e della pena.
LA GIUSTIZIA DI CLASSE SECONDO L

Vorremmo tanto che qualcuno spiegasse alla “nostra” basita (sic) Presidentessa, ma non chiamatela la “Presidentessa” altrimenti s’inca**a… (a tal punto da fare gioire Crozza che la “parodizza” in modo impareggiabile) vorremmo, dicevamo, che fosse a conoscenza che Montesquieu non era l’allenatore di una squadra di calcio francese, il Paris Saint. Germain o il Marseille ma il teorico della separazione dei poteri: quello esecutivo, legislativo e quello, se ne faccia una ragione, giudiziario. Non le hanno detto che anche chi ha il mandato popolare deve conformarsi alla Costituzione (Articolo 10) ed alle norme di diritto Internazionale

Lo straniero al quale sia impedito nel suo Paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica secondo le condizioni stabilita dalla Legge”.  

La vicenda è quella che riguarda la Giudice di Catania Dott.ssa Iolanda Apostolico che con un coraggioso provvedimento ha ritenuto illegittimo sostenere che la provenienza dalla Tunisia (Paese sicuro e democratico in realtà soltanto a parole) di alcuni poveri disperati possa essere una motivazione valida per il “fermo” e la detenzione degli stessi.

 

Verissimo, atteso che i “fermi” dovrebbero considerare la “posizione” degli esseri umani e non il Paese da cui provengono. Sui social già imperversa lo “squadrismo digitale” infarcito di apprezzamenti d’ogni sorta nei confronti della dottoressa Apostolico. 

Quelle della Giudice Iolanda Apostolico sono valutazioni giuridiche e non politiche.

Il fermo di Polizia disposto dal Questore sulla base di un  provvedimento incostituzionale del Governo doveva essere annullato. 

È tutto surreale, sembra di essere tornati ai tempi del Berlusca… ricordate? 

È un déjà-vu.

 

Il Cavaliere sì, proprio quello che aveva nella sua villa assunto come “giardiniere” uno stragista latitante e che con noncuranza urlava attraverso i “servi sciocchi” delle sue tv contro la magistratura milanese indicandola vergognosamente come “un’associazione a delinquere”, “un cancro da estirpare…” usando come corpo contundente, un giorno sì e l’altro pure vergognose leggi classiste ad personam partorite dal suo Esecutivo, ma pensa un po’ proprio lui … parce sepulto. 

La nuova Presidente qualche decennio dopo con toni più “rozzi” ha rispolverato lo stesso copione, lo stesso armamentario con esternazioni che sono una topica colossale.

 

Queste vicende riguardano tutti, anche noi detenuti appartenenti con modalità diverse alla categoria degli ULTIMI. Dobbiamo solidarizzare con gli altri detenuti, peraltro senza titolo, rinchiusi nei centri di detenzione. Bambini, donne, uomini con la sola colpa di aver cercato, disperatamente (con un’improbabile fuga verso la libertà), una vita dignitosa. 

Questo è il Belpaese della “bulimia normativa” delle improbabili “decretazioni d’urgenza” rovesciate poi sui social per carezzare gli istinti più bassi e feroci della gente. Politici che non creano il consenso con argomentazioni degne, semplicemente lo inseguono correndo dietro ai sondaggi.

Questo è “ il Belpaese “ dove si abolisce l’abuso d’ufficio, si vogliono inasprire le pene per il piccolo spaccio praticato da ragazzi che se non “recuperati”, una volta in carcere, finirebbero con il perfezionare ed approfondire le proprie abilità criminali.

Quando poi si deve perseguire la grande evasione fiscale con ridicole flatulenze verbali condite da ridicole giustificazioni, annunci e bla bla bla, si ricorre con sprezzo del ridicolo ai condoni.

 

È la giustizia di classe, bellezza.

 

L’ORSO-M49

 

Aborto libero e sicuro: my body my choice

«Mi dispiace essere la prima donna a intervenire, ma la quarta a intervenire. Qui si sta parlando di un problema che riguarda principalmente le donne e, come al solito, il dibattito prende avvio da due uomini… Io mi auguro che stasera ognuno di noi dimentichi che l’aborto non è un gioco politico. Che a restare incinte siamo noi donne, che a partorire siamo noi donne, che a morire partorendo o abortendo siamo noi. E che la scelta tocca dunque a noi. A noi donne. E dobbiamo essere noi donne a prenderla, di volta in volta, di caso in caso, che a voi piaccia o meno. Tanto se non vi piace, siamo lo stesso noi a decidere. Lo abbiamo fatto per millenni. Abbiamo sfidato per millenni le vostre prediche, il vostro inferno, le vostre galere. Le sfideremo ancora.»

ALESSIA

Era il 1976, Oriana Fallaci rendeva la sua posizione nel dibattito sull’aborto in una puntata di “AZ: un fatto, come e perché”; due anni dopo in Italia viene introdotta la legge 194. Una legge indubbiamente ambigua e ampiamente discussa ma della quale dobbiamo necessariamente riconoscere l’importanza per l’introduzione della libertà di scegliere sull’interruzione di gravidanza. Una libertà che come tutte le altre va rivendicata con forza ogni giorno, dal momento in cui sembra tristemente non essere scontata. L’ambiguità e la poca concretezza della legge 194 si palesa sul piano del quotidiano, nei racconti delle donne che hanno dovuto subire gli atteggiamenti pregiudiziali degli obiettori di coscienza, vittime di un sistema culturale che non “concede” alle persone la libertà di scelta sul proprio corpo e sulla propria vita ogni volta che pronuncia “il mito” dell’istinto materno.

 

«L’attuale legge 194 non garantisce un vero diritto all’aborto ma lo consente in determinati e specifici casi. Ha avuto il merito di arginare la piaga dell’aborto clandestino ma non ha in alcun modo garantito l’autonomo diritto di scelta. Noi chiediamo un autonomo diritto di scelta e autodeterminazione, per far sì che la libertà riproduttiva non incontri più ostacoli morali e amministrativi e possa essere liberamente accessibile per chiunque decida di interrompere una gravidanza.» 

 

La campagna “Libera di abortire” nasce il 20 maggio 2021 al fine di abbattere ogni tipo di ostacolo riguardo l’esperienza personalissima di scegliere di mettere al mondo un essere umano. Una scelta appunto così personale che oltre a dover essere garantita, direi anche che non può e non deve essere giudicata da nessunissima persona. Ad esempio io non vorrei mai sentire parole come “purtroppo l’aborto è una delle libertà delle donne” o cose simili, ma purtroppo le sentiamo tutte e tutti noi.

 

In una classe di quinto liceo, qualche anno fa, una professoressa di religione ha proiettato sul muro un video che sicuramente con la materia religiosa, almeno in termini di storia delle religioni, non aveva niente a che vedere: la vita di un embrione nel ventre della donna, insomma dalla formazione dello zigote in poi. Sarebbe potuta sembrare più una lezione di scienze che di religione. Questo almeno fino a quando la professoressa non ha bloccato il video al “primo trimestre” di gravidanza, più o meno il limite di tempo entro il quale una persona può scegliere di abortire. 

 

«Oggi in Italia la donna può richiedere l’interruzione volontaria di gravidanza entro i primi 90 giorni di gestazione per motivi di salute, economici, sociali o familiari.» 

Alla luce delle informazioni del video circa lo sviluppo del feto durante il primo semestre di gravidanza – si forma il sacco amniotico e la placenta; inizia il processo di generazione degli organi e a comparire gli arti – la professoressa ha chiesto alle sue studentesse se, dal momento che il feto aveva già un cuore, due braccia e due gambe, l’aborto potesse essere considerato un omicidio. 

Non molto appropriato come metodo di apertura di un dibattito su una questione così intima, come l’interruzione volontaria di gravidanza. Non solo possono esserci milioni di motivi differenti rispetto alla decisione di una persona di non dare al mondo un essere umano, ci sono almeno altrettanti atteggiamenti con cui si attraversa un’esperienza di questo tipo. Dietro ogni scelta c’è il volere di una persona, i suoi sentimenti al riguardo e le sue uniche e incontestabili ragioni: nessuno ha il diritto di accusare, sottostimare o stigmatizzare le donne che abortiscono liberamente, avendo pieno controllo sul proprio corpo e la propria vita.

Analizziamo la Violenza di Genere in Italia: con il principio di Pareto 80/20

MATTEO

La violenza di genere è un problema persistente in Italia e in tutto il mondo. Per esaminare questa questione complessa, possiamo applicare il principio di Pareto 80/20, noto anche come il principio di “vital few e trivial many“. I più assidui lettori del blog ricorderanno che questo principio suggerisce che circa l’80% degli effetti proviene dal 20% delle cause. 

 

Il 20% dei Casi di Violenza di Genere

Nel contesto della violenza sulle donne in Italia, il 20% dei casi rappresenta una grande parte del problema. Questi sono i casi più gravi, che spesso portano a gravi danni fisici e psicologici per le vittime. Questi casi richiedono una risposta urgente e coordinata da parte delle autorità e delle organizzazioni di supporto.

 

Le Cause Principali dell’80%

L’80% dei casi rimanenti di violenza di genere ha spesso cause radicate in dinamiche sociali, culturali ed economiche. Queste includono stereotipi di genere, disuguaglianza economica, mancanza di istruzione e consapevolezza, e altre sfide strutturali. Affrontare queste cause richiede un impegno a lungo termine per promuovere cambiamenti significativi nella società.

 

Concentrarsi sull’Educazione e la Sensibilizzazione 

Uno dei modi più efficaci per applicare il principio di Pareto è concentrarsi sull’educazione e sulla sensibilizzazione. Investire nella formazione delle giovani generazioni e nell’informazione delle comunità può contribuire a ridurre la violenza di genere. Promuovere l’uguaglianza di genere nelle scuole e nelle campagne di sensibilizzazione pubblica può avere un impatto significativo.

 

Supporto alle Vittime di violenza di genere

Per affrontare il 20% dei casi più gravi, è essenziale migliorare l’accesso delle vittime a servizi di supporto. Questi servizi dovrebbero essere facilmente accessibili, rispettare la privacy delle vittime e offrire assistenza legale, psicologica ed economica.

 

L’applicazione del principio di Pareto 80/20 alla violenza di genere in Italia ci offre una prospettiva interessante sulla questione. Concentrando gli sforzi sull’80% dei casi meno gravi e sulle cause principali, possiamo lavorare per creare un cambiamento significativo nella società italiana. Questo richiede una collaborazione tra istituzioni, organizzazioni non governative e la società civile per affrontare la violenza di genere in tutte le sue forme e promuovere un futuro più equo e sicuro per tutti.

Morire di lavoro

LE PAROLE DI L

Il paradosso di questi anni è che si debba constatare la morte violenta di chi lavora “per campare” e che ci si stia abituando a queste tragedie. Il lavoratore non è più garantito ed è visto semplicemente come una sorta di mezzo di produzione. Per dirla in breve non si vive più per lavorare ma si muore di lavoro. Il “liberismo feroce” di questi anni, quello del “digrignar di denti” di certe oligarchie finanziarie sostenitrici della produttività ad ogni costo, il laissez-faire hanno portato a questo. Cosa dovremmo fare imbavagliarci e stare zitti? Fare finta di nulla di fronte a queste stragi? 

 

È avvilente questo politicamente “corretto” dei nostri leader intriso di demagogia, ogni volta che muore un lavoratore. Dippiù: provoca conati di vomito. 

Sono gli stessi politici che hanno tolto il reddito di cittadinanza a quei lavoratori (in nero) che percepivano 3 euro l’ora. Non si era mai vista, come negli ultimi anni, un’inclinazione così feroce alla produttività ad ogni costo, con buona pace dell’Articolo 36 della Costituzione

 

 «Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa. La durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge. Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi.»

 

Questi fatti vorrebbero che si desse esecuzione a provvedimenti di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori. Li faranno? Lo vorrei tanto.

 

Ci ostiniamo a credere che “un altro mondo sia possibile”. Proprio come quelli che urlavano, che manifestavano al G8 di Genova. (2001) Un altro mondo dev’essere possibile! L’Italia “derubata e colpita al cuore” quella che con grande intuizione aveva denunciato e previsto De Gregori non è il paese che vogliamo per le future generazioni

 

M49

Miliardari – La “democrazia distorta” secondo L

«Io non creo niente: io posseggo. E noi facciamo le regole: le notizie, le guerre, la pace, le carestie, le sommosse, il prezzo di uno spillo. Tiriamo fuori conigli dal cilindro mentre gli altri, seduti, si domandano come accidenti abbiamo fatto. Non sarai tanto ingenuo da credere che noi viviamo in una democrazia: vero, Buddy? È il libero mercato, e tu ne fai parte: sì, hai quell’istinto del killer…» – dal film “Wall Street” (1987).

Per la rubrica “L ci parla di”, oggi il nostro ricercatore spossato riflette sulle parole del film “Wall Street” in correlazione ai recenti eventi del nostro paese che hanno coinvolto l’Anfiteatro Flavio e due degli uomini più ricchi al mondo. 
LE PAROLE DI L

Due miliardari “squali” che detengono un patrimonio di 350 miliardi stavano per trasformare il Colosseo in un ridicolo luogo di combattimento tra gladiatori attempati. Si chiamano Musk e Zuckerberg. Il “nostro” Ministro della Cultura con sprezzo del ridicolo, in cambio di una “mancetta milionaria” (per costoro qualche milione di euro sono pur sempre spiccioli) si era fatto promotore di questa “cafonata miliardaria” salvo poi ricredersi. 

Un teatrino simile promosso poi dai nostri sedicenti “patrioti” suona come uno sberleffo nei confronti di chi patriota lo è per davvero. Patriottismo è ben altro, un uomo per tutti. (Pertini)

 

Suvvia, basta ca**ate, si facciano pagare le tasse a questi due imprenditori stile cafonal. Solo così si difende la dignità del nostro paese. Meglio preferire la parola “paese” e non “nazione”, posto che proprio coloro che stavano per allestire nella nostra città un ring a beneficio di questi due miliardari con un ego ipertrofico con degenerazioni narcisistiche suscitano l’entusiasmo e l’adulazione perversa di certi governanti. 

 

A questa sub-cultura in grado di sedurre la “piccola borghesia” più restia da sempre ai cambiamenti sociali Michela Murgia, con il suo radicalismo linguistico, aveva contrapposto un nuovo “umanesimo digitale”, più esattamente una “letteratura digitale” non a caso invisa all’accozzaglia di quei  “leoni da tastiera o killer digitali” da sempre sostenitori del peggior sovranismo patriarcale. Vogliamo ostinarci a credere che la democrazia sia un valore preminente. E tanti saluti ai discendenti di Gordon Gekko, Wall Street, Micheal Douglas e alla loro distorta lettura del digitale.

La rete deve poter estendere l’eguaglianza, i diritti dei popoli. Non deve … “rinco*****ire” la gente.

 

Colgo l’occasione per dirti, Michela: ci mancherai!

M49
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