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Conclusione della campagna di raccolta assorbenti per le persone detenute

ALESSIA

Giornata mondiale dell’igiene mestruale, oggi 28 maggio 2025.

Il ciclo mestruale è un qualcosa di quanto intimo, tanto condiviso che parlarne può essere generativo di spazi in cui si riducono ruoli, si assottigliano differenze, si abbattono gli stereotipi. 

Assorbire il cambiamento, tra le altre cose, è stato anche rendersi conto che forse capita poche volte nella vita di incontrarsi per parlare del nostro ciclo, eppure una volta che lo fai succede che un’estranea, un’insegnate, la mamma di un’amica, una collega diventa semplicemente persona che come te, sanguina più o meno una volta al mese. 

 

Nella campagna di sensibilizzazione di assorbire il cambiamento abbiamo attraversato diversi focus tematici: il costo degli assorbenti come fossero collane di perle, carceri che salvano donne dall’oppressione e dalla violenza patriarcale, storie di pillole anticoncezionali e accesso all’IVG; abbiamo detto di donne senza utero, della gestione “lunare” del ciclo mestruale, del gender gap nel lavoro in carcere; insomma, sono stati tante le vie intraprese durante questo percorso che dura ormai da due anni. Se può interessare a chi è sfuggito qualche titolo, lascio il link del blog, dove nella sezione apposita si trovano tutti gli articoli e gli approfondimenti: qui.   

Per la Giornata Mondiale dell’Igiene Mestruale vorrei riprendere le fila del progetto assorbire il cambiamento e raccontarvi delle riflessioni che ne sono scaturite. Forse però in maniera inversa, comincerei proprio dalle riflessioni sulla questione dell’igiene mestruale o dei diritti mestruali, o come vi è più comodo definirla. 

Mestruare tra le macerie

Mi sembra fondamentale in questo mondo dalle stesse violente distopie che abbiamo letto nei più famosi libri del passato, sia narrativi che di storia, prestare orecchio a Gaza.  

 

In questi giorni abbiamo letto le parole di Mariam Khateeb:

I titoli raramente parlano di questo, di cosa significhi per una ragazza avere il ciclo sotto i bombardamenti, di madri costrette a sanguinare in silenzio e ad abortire su pavimenti freddi o a partorire sotto i droni. La guerra a Gaza non è solo una storia di macerie e attacchi aerei. È una storia di corpi interrotti, invasi e a cui è stato negato il riposo. Eppure, in qualche modo, questi corpi continuano a esistere.

Come donna palestinese e studentessa sfollata che ora vive in Egitto, porto con me questo ricordo corporeo. Non come una metafora, ma come un dato di fatto. Il mio corpo sussulta ancora ai rumori forti. La mia digestione vacilla. Il mio sonno è frammentato. Conosco molte donne – amiche, parenti, vicine – che hanno sviluppato malattie croniche durante la guerra, che hanno perso il ciclo mestruale per mesi, i cui seni si sono prosciugati mentre cercavano di allattare nei rifugi. La guerra entra nel corpo come una malattia e rimane. 

 

La guerra si gioca sui corpi delle persone, più spesso su quelli femminili. Mi pare evidente la particolarità macabra di questo caso specifico che chiamare “guerra” o “conflitto” non solo suona riduttivo, ma non restituisce la drammaticità dei corpi dei palestinesi prosciugati dalla fame indotta dall’alto di uno stato che con il pretesto del diritto alla difesa, un pretesto che dopo un anno e mezzo diciamocelo, non regge più, sta a logorare, sfinire e massacrare un’intera popolazione. Si dice che un genocidio si riconosce dalla pelle delle vittime, che è a Gaza sempre la stessa

 

Quella pelle e quei corpi  non trovano riparo, scrive ancora Mariam Khateeb:

Non c’è una tenda per il corpo a Gaza. Nessuno spazio sicuro dove il corpo femminile possa dispiegarsi senza paura. La guerra ci spoglia – non solo delle nostre case e dei nostri beni, ma anche dei rituali che ci rendono umane: lavarsi, avere le mestruazioni, elaborare il lutto in privato. Ma anche senza un riparo, i nostri corpi sopportano. Ricordano. Resistono.

 

In questi casi ci si trova a informarsi da lontano, magri partecipare alle manifestazioni, tentare azioni di boicottaggio economico ed ecco infine, scrivere anche qualche parola di protesta; ma quello che personalmente mi resta di fronte al genocidio è un forte senso di impotenza e di rabbia

 

Nella Giornata mondiale dell’igiene mestruale, quando ci raccogliamo a riflettere sulla period poverty, pensiamo anche alle donne di Gaza. E come per ogni giornata onorifica, che possa essere un punto d’inizio e non solo una svogliata condizione circoscritta a 24ore, una storia su Instagram e via. 

Tra ecologie mestruali e la concretezza dei bisogni

Con Livia abbiamo riflettuto fin da subito sulla donazione di assorbenti “ecologici”, ma anche in seguito all’aver ricevuto osservazioni o domande circa la nostra donazione in carcere composta principalmente da assorbenti usa e getta. Si pone la questione: se organizzate una campagna di raccolta assorbenti, perché non incentivare all’utilizzo dei dispositivi igienico-sanitari riutilizzabili? 

 

Gli assorbenti usa e getta “classici” dei grandi marchi più noti e non – perché con questa campagna ci sono arrivate marche di assorbenti che non avevamo mai visto da nessuna parte – hanno un grande impatto a livello ambientale. 

Come ha riportato National Geographic:

Secondo Ann Borowski, che ha studiato l’impatto ecologico dei prodotti sanitari, i numeri complessivi sono impressionanti.

“Non voglio contribuire a 40 anni di immondizia in discarica solo per gestire qualcosa che non dovrebbe nemmeno essere visto come un problema”, dice. “A partire da adesso dovremmo avere un maggior controllo su questa cosa. Non voglio avere un impatto del genere sul pianeta”.

 

Pensiamo di spedire una coppetta a Gaza o in altri territori di occupazioni e conflitti. Dove non c’è acqua. Quanto può essere prioritario in questo contesto la promozione di dispositivi più ecologici? 

 

Lo stesso, per diversi motivi e condizioni di cui ho più volto discusso in questi mesi, vale per il carcere.

MARIA

In carcere tutte le cose, anche le mutande normali si lavano nello stesso posto in cui si lavano le stoviglie. Io posso dire una cosa secondo la mia esperienza. Purtroppo in cella con altre persone ci sono stata poche volte, solo quando mi trasferivano a *** alla massima sicurezza dove c’erano cella da tre letti. Quindi ci sono stata qualche volta, però lì c’era (per fortuna) nel cortile dell’area uno spazio per gli stendini. Quindi là ti potevi stendere tutto quello che volevi, senza dare fastidio a nessuno.

Insomma, introdurre assorbenti lavabili o coppette può risultare problematico in luoghi caratterizzati dall’assenza e la privazione di beni e/o di condizioni igienico-sanitarie basilari. 

 

All’utilizzo e alla consapevolezza di assorbenti lavabili, slip mestruali e coppette, abbiamo invitato le persone in misura penale esterna e in generale chi ha seguito il progetto assorbire il cambiamento, sia da vicino che da lontano. 

Criticità di un progetto per l’igiene mestruale in carcere

Sì, la Giornata mondiale dell’igiene mestruale è stata istituita per far luce sul tabù del ciclo e sullo scarso riconoscimento dei diritti mestruali, per promuovere azioni concrete, eccetera, per tutt3. 

 

Abbiamo visto che una delle caratteristiche della fisiologia femminile è lo stretto rapporto tra secrezioni endocrine e sistema nervoso: c’è un’azione reciproca; un corpo di donna – e specialmente di ragazza – è un corpo “isterico” nel senso che, per così dire, non c’è distanza tra la vita psichica e la sua realizzazione fisiologica. La crisi che la scoperta dei turbamenti della pubertà provoca nella fanciulla li rende più gravi. Dato che non si fida del suo corpo e lo spia con inquietudine, esso le sembra malato: anzi è malato. Abbiamo visto che, in realtà, si tratta di un corpo fragile dove si producono disordini propriamente organici; ma i ginecologi sono concordi nel dire che i nove decimi delle loro clienti sono malate immaginarie, cioè che, o i loro malesseri non hanno nessuna realtà fisiologica, o lo stesso disordine organico ha un’origine psichica. In gran parte è l’angoscia di essere donna che rode il corpo femminile.

 

Scriveva Simone de Beauvoir nel 1949 nel suo “Il secondo sesso”.  Il tabù mestruale si inserisce tra i diversi dispositivi di dominio maschili sui corpi e le vite del femminile, costruiti e modellati su misura del percorrersi della storia dell’umanità. Penso ad alcune storie, miti, narrazioni delle varie culture ed epoche storiche messe insieme nel Manifesto contro il tabù delle mestruazioni di Elise Thiébaut, Questo è il mio sangue

 

Ad esempio, sembra un’usanza russa quella di dare un bel ceffone in viso alla ragazza che ha appena avuto il primo menarca. Lo schiaffo sembrerebbe avere l’obiettivo di spaventare la nuova giunta nel mondo delle donne, così da avere mestruazioni regolari e guance sempre rosse per dissimulare le sue condizioni da mestruata. Ricorre in un atto di violenza il passaggio rituale dell’esser donna anche per le ragazze delle popolazioni Chaco, Lengua e Chiriguano di cui parla Claude Lévi Strauss. Ha riportato l’antropologo che dopo il primo menarca, le giovani venivano legate appese a un’amaca per tempi diversi in base ai gruppi (dai tre giorni a due mesi). 

 

Una violenza iniziatica che ci sussurra un segreto: da quel momento in poi saremo portatrici di una sofferenza, saremo resistenti di un’oppressione, saremo parte di una stessa conoscenza che ci sarà negata, di una condivisibilità che ci sarà ostruita, nel banale potere del silenzio e della vergogna. 

 

Tra il tabù delle mestruazioni e lo stigma legato alle persone detenute, il progetto del PID ha voluto essere apertura al cambiamento. L’istituzione penitenziaria – l’ho detto troppe volte – è un’istituzione pensata al maschile. E oltre a non predisporre degli strumenti necessari alle esigenze specifiche dei corpi femminili, mantiene nella sua costitutiva essenza le tracce di un ambiente saturo di violenza, noncuranza e spesso chiusura verso l’esterno. 

Allora nella campagna dello scorso anno ci siamo trovate a chiederci: cosa può significare il rifiuto di un dono da parte di un’istituzione? E ho provato a riflettere sulle possibili risposte nell’articolo a questo link

Quest’anno abbiamo riscontrato la stessa problematica quando abbiamo cercato di ampliare la donazione e i laboratori fuori regione. Allo stesso tempo però, posso dire che forse Assorbire il cambiamento 2.0 ha registrato risultati maggiormente significativi, anche nella relazione con gli istituti di pena che hanno aderito con più sentita partecipazione. Da qui nasceranno laboratori interni di cui non tarderò a scrivervi nei prossimi mesi. 

I risultati della campagna, se così possiamo definirli

Non amo molto questa parola “risultati”, ma se dobbiamo “misurare” gli esiti del progetto proprio il giorno della chiusura della campagna (Giornata Mondiale dell’Igiene mestruale), va detto che il primo e più immediato risultato è visibile concretamente nelle buste e nei cartoni strabordanti di assorbenti che riempiono a tappo la stanza dell’ufficio

 

La voce è arrivata, siete stat3 in tantissim3 a portare o spedire gli assorbenti; ma anche a scriverci i vostri dubbi, a venire agli incontri per ascoltarci.

Molto di questo è dovuto al lavoro di rete, grazie alle associazioni del progetto POSTER e al coordinamento di AIDOS. Grazie a una comunità che si è infoltita sui social network e alle singole realtà anche esterne al terzo settore che si sono rese disponibili come punto di raccolta. 

 

La campagna di raccolta assorbenti per le persone detenute oggi si conclude, con immensa gioia e gratitudine. Tornerò a parlarvi della consegna e dei laboratori interni al carcere nei prossimi mesi, ora mi preparo a contare tutti quegli assorbenti, sarà forse un po’ rognoso ma anche bellissimo.  

Assorbire il cambiamento alla fine, non è solo retorica.