Cooperativa sociale che offre servizi di ascolto, orientamento, formazione, accoglienza rivolti a detenuti/e, ex detenuti/e e persone che vivono in condizione di disagio sociale.

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Un cartone animato Disney che spiega le mestruazioni: The story of menstruation (1946)

Siamo 1946 in America: la Disney viene finanziata e commissionata dalla International Cello-Cotton Company – una nota azienda produttrice di assorbenti – a dar vita a un cortometraggio che spiegava alle bambine e alle ragazze le mestruazioni, “The Story of Menstruation”. Per garantire l’accuratezza scientifica e ottenere il supporto di medici e infermieri scolastici, fu coinvolto un ginecologo come consulente nella produzione.

Il corto “The Story of Menstruation” dura dieci minuti e, con la voce di Gloria Blondell, spiega con precisione il ciclo mestruale, pur mantenendo un tono distaccato e senza essere troppo espliciti. Possiamo pensare che per i tempi, il corto rappresenti una una novità educativa all’avanguardia, ma proprio contestualizzando il periodo storico in cui è stato prodotto, non stupisce che “The Story of Menstruation” presenta degli aspetti critici. Se fino a poco tempo fa il ciclo nelle pubblicità era simpaticamente colorato di blu, il sangue mestruale nel cartone Disney è rappresentato in bianco e nelle animazioni tra le parti dell’apparato genitale femminile risulta assente all’appello la vulva

 

Per essere pensato nel 1946, “The Story of Menstruation” è stato uno strumento pedagogico importante, inoltre non si possono negare almeno due aspetti sinceramente apprezzabili: 

  • Viene smentito il falso mito del “non ci si lava con il ciclo” invitando il pubblico a non smettere di fare il bagno durante il ciclo mestruale ma a fare attenzione alla temperatura dell’acqua, che non sia né bollente, né gelata. 
  • Vengono spiegati la crescita e i cambiamenti del corpo, specificando che questi processi generano le diversità tra i corpi delle persone in modo rassicurante.  

 

La storia è semplice e racconta non pochi stereotipi di genere: una bambina in fasce viene seguita nel corso della sua crescita fino al giorno in cui diventerà moglie e mamma a sua volta di una bambina. Il film presenta le mestruazioni come «una parte del piano eterno della natura per trasmettere il dono della vita».

Una delle prime lampanti problematiche è la divisione di genere nelle classi durante la visione del cortometraggio. Dai commenti su Youtube sotto il video, leggiamo ad esempio:

Noi bambini abbiamo visto questo film nella quinta elementare negli anni ’60. I genitori dovevano firmare un’autorizzazione per permetterci di vederlo. All’epoca mi sorprese davvero quando ci dissero che avremmo visto il film. In classe? Durante l’ora di ginnastica? Non ricordo, ma i ragazzi non furono informati perché le cose erano diverse allora e tutto era molto segreto.

 

Si spiega alle bambine americane degli anni Cinquanta e Sessanta che bisogna cercare di non abbattersi per la stanchezza, di non lasciare che il ciclo interrompa le attività quotidiane: come ad esempio, si vede bene nelle immagini, quella di pulire casa

Il cortometraggio Disney inoltre invita il pubblico a non piangersi addosso, a prendere quei giorni con filosofia, così che sia possibile passarli con un bel sorriso in faccia e senza sbalzi d’umore. Anche perché, nonostante come ci sentiamo, bisogna vivere con le persone e con noi stesse

 

Alcune affermazioni o immagini fanno sorridere, altre ci fanno salire l’amaro in bocca. Non tanto perché non comprendiamo che “The Story of Menstruation” è un cartone animato del 1946 e rispecchia l’immagine dei rapporti di genere dell’epoca; ma perché nel 2025 oltre ad esserci persone che negano l’esistenza di una cultura patriarcale e omotransfobica, ci sono fondi stanziati per la «formazione degli insegnanti su fertilità maschile e femminile, con un focus sulla prevenzione dell’infertilità». Un’educazione “sessuo-affettiva” nulla, che probabilmente sarà più simile al video della Disney del ‘46 che non a quello per cui ci si batte quotidianamente: un’educazione al consenso, alla parità dei generi plurimi, alla libertà di autodeterminazione, al rapportarsi con una sessualità sicura e libera.

In ogni caso, se vi abbiamo incuriosito qui lasciamo il link del cortometraggio: “The Story of Menstruation”.

 

Quando leggiamo “menstruation” può sembrarci strano la presenza della parola “men” a nominare uno degli aspetti caratterizzanti della vita biologica del femminile. Potremmo perfino infastidirci della cosa, ma per quanto possa sembrare ironico, è solo una coincidenza dovuta all’etimologia di queste parole. Sulla piattaforma Quora un utente, Dhaval Rathod ha spiegato:

La parola “man” ha una radice che affonda fino al sanscrito “manu”, che secondo la mitologia induista è considerato il primo uomo. Le parole relative a “menstruation” derivano dalle radici latine “mensis” (mese) e “menstrua” (mensile). La stessa radice è anche responsabile delle parole “semester” [sex (sei) + mensis (mese)] e “trimester” [tri (tre) + mensis (mese)]. La parola latina “mensis” ci porta ancora più in profondità a una parola greca “mēn”, che significa anch’essa “mese”. Queste parole che rappresentano un periodo di un mese sono associate all’apparizione della full “moon” (greco: “mēnē”). La nostra “moon” ha anche dato origine alle parole “monday” e “month”. 

Questo focus fa parte della Campagna PID “Assorbire il cambiamento 2.0” – Un’iniziativa che prevede la donazione degli assorbenti in carcere, la realizzazione di laboratori e incontri all’interno di istituti penitenziari femminili e strutture di accoglienza per promuovere maggiore consapevolezza sul ciclo mestruale e sui “nuovi” prodotti igienico sanitari ecologici quali coppetta, slip e assorbenti lavabili. Leggi di più qui.

Di carcere si muore

Da Regina Coeli a Modena, da Modena a Firenze Sollicciano – i suicidi in carcere 

A Regina Coeli un ragazzo di 23 anni si è tolto la vita, è stato trovato nel bagno della sua cella. A Regina Coeli, dove vivono 1060 persone in spazi pensati per 566. A Regina Coeli,  non c’è aria per respirare, non c’è spazio per muoversi, non ci sono opportunità né scelte, né alternative. A Regina Coeli, come altri carceri italiani, si preferisce la morte

«La situazione è da tempo ingovernabile e meriterebbe interventi celeri e concreti da parte dell’esecutivo.» – ha detto De Fazio, segretario generale della Uil-Pa polizia penitenziaria

Fino al 31 dicembre dell’anno appena passato ci siamo augurat3 che le cose cambiassero, con l’amara consapevolezza che non sarebbe successo veramente. Trovo sia dannatamente ironico ricominciare il conto dei suicidi in carcere neanche una settimana dopo l’aver affermato che il 2024 è stato l’anno che ha registrato un numero indicibile di vite spezzate dall’istituzione penitenziaria (89 persone detenute e 7 agent3). 

Ma così siamo abituat3 a fare, a darci dei tempi e dei numeri. Quindi ripetiamolo anche qui, l’anno nuovo è iniziato da appena 9 giorni e sono già morte 5 persone detenute e 1 operatore.

«È palese che in queste condizioni non si possa neanche pensare a concreti processi organizzativi, ma ci si rabatti giorno per giorno mirando alla “sopravvivenza”, senza peraltro riuscire sempre a salvaguardala, come in questi casi. Parlare di art. 27 della Costituzione e di rieducazione è esercizio di mera retorica”, prosegue il segretario. “Servono subito misure deflattive della densità detentiva, vanno compiutamente potenziati gli organici della Polizia penitenziaria e delle altre figure professionali, è necessario assicurare l’assistenza sanitaria e vanno avviate riforme complessive dell’esecuzione penale. Il 2025 è cominciato malissimo.» – ha sentenziato De Fazio

Oltre al ragazzo a Regina Coeli, ricordiamo l’uomo sui 40 anni che si è tolto la vita nel carcere di Paola in Calabria. Meno di 24 ore dopo, nello stesso carcere, a scegliere la morte è stato un impiegato delle funzioni centrali. Il giorno dopo la chiusura definita delle festività natalizie sancita dall’arrivo dell’epifania, a morire è stato un altro uomo detenuto, questa volta nel carcere di Modena. 

«L’uomo avrebbe inalato gas da un fornello da campeggio, un gesto che lascia dubbi sulla sua natura: un incidente durante una pratica per ottenere effetti allucinogeni o un deliberato suicidio? Tuttavia, l’assenza di tossicodipendenza porta a propendere per la seconda ipotesi.» – si legge su “Il Dubbio”.

Sempre a Modena domenica scorsa si è spenta un’altra persona detenuta che era stata condotta in ospedale dopo aver tentato di suicidarsi. Nei primissimi giorni del 2025 invece, un uomo ha scelto la morte al posto del carcere di Firenze Sollicciano. 

Il giorno della vigilia di Natale siamo stat3 contattat3 su Instagram da una volontaria che ci ha espresso l’esigenza di condividere la frustrazione circa le condizioni delle carceri italiane.

«Ciao, operando come volontaria nel settore carcerario, sento il peso di dover lanciare un grido d’allarme. Le recenti violenze nel carcere di Trapani, i numerosi suicidi e le inquietanti dichiarazioni del sottosegretario alla Giustizia Delmastro hanno messo a nudo un sistema carcerario marcio. Non si tratta più di ‘poche mele marce’, ma di un problema strutturale. La violenza all’interno delle mura carcerarie non è un’eccezione, ma la regola. Un equilibrio precario basato su minacce e soprusi, dove le gerarchie sono rigide e implacabili. I più deboli sono vittime di vessazioni costanti. Come sosteneva Norberto Bobbio, le carceri sono uno specchio della società. Ciò che accade dietro le sbarre ci rivela molto sulla collettività e sullo stato-istituzione. I direttori di carcere sembrano gli ultimi feudatari, detenendo un potere quasi assoluto sulle vite dei detenuti. Il personale di polizia penitenziaria, nella maggior parte dei casi, è complice di queste vessazioni. Chi osa opporsi viene isolato e marginalizzato.

Il malaffare, la corruzione e la violenza regnano sovrani, calpestando ogni forma di dignità umana. È giunto il momento di affrontare questo tema con onestà e coraggio. A tal proposito, consiglio la lettura del romanzo “La collina delle lucciole- Cronaca di un carcere a luci rosse” di Rocco Casalegno pubblicato da Amazon. Basato su fatti realmente accaduti, questo libro offre una denuncia cruda e appassionata delle condizioni carcerarie italiane. È un grido di disperazione che arriva direttamente dall’interno del sistema. 

Ti chiedo, nei limiti delle tue possibilità, di promuovere un dibattito approfondito su come migliorare le condizioni di vita dei detenuti e garantire una maggiore umanità all’interno delle nostre carceri.» – Gaia Fardini

Quando si inizierà a pensare alle carceri, ai loro abitant3? Quando cesserà il silenzio istituzionale di fronte a un sistema che non funziona? Quando diverrà formalmente illegittimo il morire di carcere?

Il costo degli assorbenti e le collane di perle

Il costo degli assorbenti è solo uno degli aspetti che riguarda il ciclo mestruale e la vita delle persone con utero, un aspetto significativo. La normalizzazione dell’idea che il genere femminile sia portatore del fardello della sofferenza ci convince che non c’è poi nulla di male a pagare prezzi spropositati per qualcosa che nessuno ha chiesto, un’esigenza fisiologica che coinvolge forse la metà della popolazione mondiale. 

Avere un utero costa spesso più del dovuto, costa in termini di discriminazioni, di libertà, di vita e anche sì, in termini  economici. Pensiamo che ogni persona che ha le mestruazioni, le continua ad avere per decenni: in media passano circa 40 anni dal menarca alla menopausa.

Costo annuale degli assorbenti

Il prezzo dei prodotti per l’igiene mestruale, che siano assorbenti usa e getta esterni o interni (tamponi) è variabile ma potremmo, con l’aiuto di ChatGPT, stilare una media.

Una persona con utero necessita più o meno di 10/15 assorbenti o tamponi al mese, in base al personale flusso mestruale (questo numero indicativo è fluttuante). Il costo medio di un pacco di assorbenti in Italia varia tra i  5 e i 10 euro. Il prezzo cambia in base alla marca, alla qualità e alle conseguenti scelte personali di chi acquista un prodotto rispetto a  un altro, ma anche alle necessità di acquistare tipologie di assorbenti migliori per prevenire irritazioni e infezioni, a costi maggiori. 

Seguendo questi calcoli, si può dire che il costo annuale di assorbenti o tamponi può variare da 60 a 180 euro.

Maschi cis-etero che parlano dei corpi con utero

Lo scorso due ottobre, sulla pagina Instagram @accountciclo leggiamo i commenti a un post in cui l’amministratrice scrive: «Ognuno è libero di scegliere l’opzione più confortevole, non è normale essere costrette a pagare una cifra così alta per qualcosa che non abbiamo scelto».

Ora, non ci sembra che sia stato detto nulla di assurdo, anzi. Oltre  ad essere ragionevole, l’affermazione postata da @accountciclo è rappresentativa di un’esigenza che coinvolge le vite di tutte le persone che hanno le mestruazioni e che si trovano costrette a scendere a patti con i costi che implicano. Se parlare di cultura patriarcale fa venire i brividi ai molti che la riducono a sistema giuridico ormai estinto e quindi inesistente, dovrebbero stupirci le parole di un maschio cis-etero in risposta al post, purtroppo però non ci stupiscono affatto: «Ok, spendono 150€ per farsi il colore, piega e ricci. Ma andate a lavorare».  

* Sul post originale è stato pubblicato anche il nome dell’account che ha scritto questo commento, noi abbiamo deciso di metterlo qui anonimo, perché può essere rappresentativo di un pensiero comune tra una parte delle persone con cui abitiamo gli spazi virtuali dei social. 

Il nesso tra l’andare a farsi i capelli e l’avere le mestruazioni che questo commento ci palesa è la considerazione implicita del ciclo come una scelta, il problema è che qui non portiamo gli assorbenti al collo come collane di perle, ma li usiamo per una necessità che ci è data dalla nascita, senza alcun tipo di scelta se non quella delle tipologie di dispositivi igienici più consone ad affrontarla, quando siamo fortunat3 e questa scelta l’abbiamo. Ed è quindi una questione di diritti, più specificatamente di diritti mestruali

La tampon tax e le altre parti del mondo

Con la Legge di Bilancio 2024 sono state introdotte diverse novità per quanto riguarda l’IVA, quello che qui ci interessa è ancora come queste novità hanno impattato sul costo degli assorbenti:

  • L’aumento delle aliquote su alcune categorie di prodotti, come quelli per l’infanzia e per l’igiene femminile. 

«Inoltre è stata prevista l’aliquota al 10% (in luogo di quella del 5%) anche per i prodotti assorbenti, per i tamponi destinati all’igiene femminile, per le coppette mestruali, nonché per i pannolini per bambini. Torna ad applicarsi nella misura ordinaria, pari al 22%, l’IVA per seggiolini per bambini.» (Articolo fonte)

In risposta all’aumento dell’IVA, nel mese di ottobre WeWorld in collaborazione con CHEAP ha lanciato la campagna #LegalizeMestruazioni per chiedere «una cosa davvero molto semplice: giustizia per le persone che hanno le mestruazioni».

Cosa che in alcuni paesi del mondo già accade. Vediamo alcuni esempi:

  • In Catalogna è garantita la gratuità su tutti i dispositivi igienico-mestruali riutilizzabili (coppette, assorbenti o slip);
  • In Scozia gli assorbenti sono gratuiti per tutte le donne in età fertile;
  • In Nuova Zelanda sono garantiti per le studentesse;
  • Nel Regno Unito, in Canada e in Irlanda gli assorbenti non sono tassati.

 

Questo focus fa parte della Campagna PID “Assorbire il cambiamento 2.0” – Un’iniziativa che prevede la donazione degli assorbenti in carcere, la realizzazione di laboratori e incontri all’interno di istituti penitenziari femminili e strutture di accoglienza per promuovere maggiore consapevolezza sul ciclo mestruale e sui “nuovi” prodotti igienico sanitari ecologici quali coppetta, slip e mutande assorbenti. Leggi di più qui

La banalità del male

ALESSIA

Il male è banale, è semplice, quotidiano. Seppur le sue ragioni, radicate nella realtà stessa della società, siano complesse, esso dilaga nel silenzio e nel tacito accordo che si stringe tra relazioni squilibrate di potere di pronunciare, agire e diffondere la violenza fino a quando questa arrivi a non lasciare più alcun stupore, fino all’indifferenza. Si tratta di sminuire, di ridurre, di semplificare un atto banale di male, come può essere quel ceffone dato a una compagna che “non sapeva comportarsi” di fronte a uomini che non erano il suo. Si tratta di semplici gesti quotidiani, di parole come “uccidere bambini” indirizzate a chi sceglie di interrompere una gravidanza. Si tratta, ancora, di un bombardamento di notizie, immagini e gossip sulle storie violente, sul male che incombe, sulle vite spezzate e quelle da rinchiudere, sulle ipocrite prese di posizione contro persone e popoli oppressi. 

NB. Questo male di cui parliamo non è un male tipo la parte oscura della moneta: retta via/peccato, bene divino/male infernale ecc. Ci siamo appropriat3 delle parole di Hannah Arendt proprio per questo. Magari è giusto citarne un passo per indirizzarci meglio al discorso. 

«Quel che ora penso veramente è che il male non è mai ‘radicale’, ma soltanto estremo, e che non possegga né profondità né una dimensione demoniaca. Esso può invadere e devastare il mondo intero, perché si espande sulla superficie come un fungo. Esso ‘sfida’ come ho detto, il pensiero, perché il pensiero cerca di raggiungere la profondità, di andare alle radici, e nel momento in cui cerca il male, è frustrato perché non trova nulla. Questa è la sua ‘banalità’. Solo il bene è profondo e può essere radicale.» – H. Arendt “La banalità del male, Eichmann a Gerusalemme (1963)

 

Quel tacito accordo, quell’accettare di vedere e ascoltare il male senza riconoscerlo, è stato intessuto fino a oggi per poterci permettere di avere tra le cariche del governo persone che dicono cose aberranti come:

«L’idea di veder sfilare questo potente mezzo che dà il prestigio, con il gruppo operativo mobile sopra. Far sapere ai cittadini chi sta dietro a quel vetro oscurato. Come noi sappiamo trattare chi sta dietro quel vetro oscurato. Come noi non lasciamo respirare chi sta dietro quel vetro oscurato. Credo sia una gioia, è sicuramente per il sottoscritto, un’intima gioia

A pronunciare queste parole, Andrea Delmastro Delle Vedove, Sottosegretario di Stato alla Giustizia. Parole che hanno indignato non poche persone, quelle almeno che tentano di resistere a questo dilagare violento smantellamento dei diritti umani. Nella nostra bolla, ci sembra a volte inverosimile. Tra di noi ci scriviamo preoccupati, amareggiati, disillusi. Condividiamo frustrazioni che non sappiamo come risolvere, lo sconforto è reale quanto l’impossibilità di smettere di credere che qualcosa cambi. Parlo del lavoro che svolgiamo ogni giorno, dell’impegno e la determinazione che gli educatori, le educatrici del PID e non solo investono in quelle attività che coinvolgono la loro vita per intero, senza momenti veramente liberi dalle responsabilità di accogliere, ascoltare e tentare di sfruttare qualsiasi mezzo a disposizione per permettere e rendere possibile alle persone che vivono le ristrette condizioni che il carcere gli ha lasciato addosso, di costruire una nuova vita. E ci vuole coraggio a farlo, non perché, come ai più potrebbe venire alla mente, si lavora con persone “pericolose”, ma perché si lavora per mettere toppe a un sistema che vacilla, che non funziona, che cade a pezzi negli intenti e nei valori che l’hanno messo in piedi. Parliamo di carcere come un’istituzione che non ha mai avuto, forse nella storia dell’umanità, un reale motivo di esistere se non quello della reclusione e della limitazione della libertà personale con il solo fine di punire chi ha rotto il “patto sociale”. Parole come “risocializzazione” abbiamo già sottolineato altrove, sono solo la base dell’ipocrisia insita nello stesso concetto di galera. 

«Parliamo di rieducazione e di risocializzazione come scopi ultimi delle pene, da un lato e di un’istituzione totale che separa – come prima e solenne ragion d’essere – le persone che commettono il reato dal resto della società nella quale è previsto il cosiddetto reinserimento.» – Dall’articolo “Donazione assorbenti per il carcere: cosa può significare il rifiuto di un dono da parte di un’istituzione?”

Perché il carcere è qualcosa che chiude e non apre alle possibilità, è un posto predisposto a eliminare l’umanità ad abbatterla. Non solo per chi la abita per “pagare” i suoi errori, ma anche per chi la vive per lavoro. Un’istituzione totale, come scriveva Erving Goffman, non è altro che «un luogo di residenza e di lavoro» dove agglomerati di persone sono tenute lontane dalla società per un significativo lasso di tempo. E sono, questi gruppi di persone, accomunati dalla medesima condizione di dover trascorrere porzioni di vita in «un regime chiuso e formalmente amministrato.» 

 

E se siamo poco indignati di fronte all’intima gioia di un umano di non far respirare un altro è perché il male è banale e ci ha sopraffatti, oltre che assuefatti. Perché è da tempo che sentiamo le notizie di chi si toglie la vita in carcere, del sovraffollamento, degli abusi di potere contro quei corpi rinchiusi. Siamo avvezzi a queste violenze continue e non ci stupiscono più. 

Pensiamo al potere delle parole, pensiamo alle reali conseguenze che generano: parliamo dei recentissimi casi emersi dal carcere di Trapani? Abbiamo letto le invettive, accompagnate dalle botte a secchiate di piscio di alcuni agenti penitenziari sui corpi indifesi, testimoni di ingiustizia, delle persone detenute. 

Male legittimato dall’essere compiuto verso quegli ultimi che ci hanno insegnato a disprezzare, a temere, a evitare, senza però conoscere. Si dipingono le persone che commettono reati come bestie senza cuore, ed è facile così cadere nell’errore che allora, nei loro confronti, tutto è lecito. La violenza, l’umiliazione, la crudeltà. Ed è in questa banalità che si arresta il pensiero, si riduce la complessità tutta umana di agire e sentire del mondo.

Persone straniere detenute in Italia

Nel microcosmo carcerario italiano, le persone straniere detenute sono spesso trattate come un’unica categoria omogenea, senza considerare le specificità delle diverse comunità di provenienza. Come espresso da Antigone nel Ventesimo rapporto sulle condizioni di detenzione in Italia, sarebbe invece opportuno avviare una riflessione che complessifichi la realtà, sia per le politiche penali, sia per le opportunità di accesso alle misure alternative alla detenzione. 

Secondo i dati rilevati da Antigone, al 31 marzo 2024 la popolazione detenuta straniera nelle carceri italiane per adulti è pari al 31,3% di quella totale. Una percentuale in calo che rappresenta un significativo abbassamento rispetto ai picchi registrati nel passato, quando la percentuale superava il 37%. Negli anni 2008-2013, il numero degli stranieri in carcere non è mai sceso sotto le 20.000 unità. 

Il tema della sicurezza, di cui abbiamo discusso ampiamente in altri articoli e che ci riporta inevitabilmente anche al lavoro del Dossier statistico immigrazione 2024, è in gran parte un esercizio di propaganda. In realtà, focalizzarsi solo su questi numeri non aiuta a sviluppare politiche efficaci di prevenzione o di giustizia sociale.

 

Emerge un dato interessante riguardo la questione delle persone straniere ristrette in Italia, cioè quello relativo al tasso di detenzione degli stranieri: la percentuale degli individui detenuti rispetto alla popolazione straniera residente in Italia. Secondo i dati Istat, la popolazione straniera in Italia è cresciuta negli ultimi quindici anni, passando da 3,89 milioni di persone nel 2009 al 5,14 milioni nel 2023, pari all’8,7% della popolazione totale

Nonostante questo aumento, il numero di persone straniere detenute in carcere è diminuito, il che smentisce l’idea di una “emergenza criminalità” legata all’immigrazione.

Nel 2024 il tasso di detenzione per gli straniere è sceso allo 0,37%, con un calo complessivo di 0,24 punti percentuali negli ultimi 15 anni. Questo riflette una tendenza positiva che suggerisce che le politiche di regolarizzazione e integrazione (quando funzionano) hanno un impatto positivo sulla riduzione della criminalità, contribuendo a una minore incidenza di reati tra gli stranieri.

 

Quando si analizza la popolazione carceraria straniera, è fondamentale anche considerare le specificità delle singole nazionalità. Ogni gruppo presenta sfide e caratteristiche diverse, legate tanto al contesto socio-politico di provenienza quanto alle difficoltà incontrate in Italia a causa dei pregiudizi e gli stereotipi xenofobi fomentati e legittimati dalle poetiche nazionalistiche che urlano alla “difesa dei confini”. L’ordinamento penitenziario prevede nella teoria un trattamento personalizzato della persona ristretta che tenga conto delle differenze culturali, sanitarie e sociali.

Riprendendo ancora il Dossier, nello specifico il contributo di Sofia Antonelli (Associazione Antigone) leggiamo:

«Nonostante la loro contrazione, gli stranieri in carcere continuano ad essere sovra- rappresentati rispetto alla loro incidenza sulla popolazione residente in Italia. Indigenza ed emarginazione sociale aumenta, insieme al rischio di commettere reati, quello di finire in carcere anche solo per attendere la condanna o per scontare una pena breve, che invece potrebbe essere espiata con una misura di comunità. […] A prescindere dalla gravità del reato, più si adottano misure contenitive, più cresce la sovra-rappresentanza degli stranieri, visto che per gli italiani resta più facile accedere a percorsi alternativi alle restrizioni del sistema penale. Ciò è ancor più vero per i minori stranieri, la cui sovra-rappresentanza negli istituti minorili è anche più alta di quella degli adulti. Sebbene tra tutti gli infra-25enni residenti in Italia gli stranieri rappresentino l’8%, al 15 giugno 2024 quelli in carico dei servizi di giustizia minorile rappresentavano il 23% del totale e, dei 555 ragazzi detenuti negli istituti penali per minorenni (Ipm), quelli di origine straniera erano 266, il 48%.»

Dossier Statistico Immigrazione 2024 – I diritti negati

Anche quest’anno siamo stat3 invitat3 a partecipare alla presentazione del nuovo Dossier Statistico Immigrazione. Martedì scorso, grazie al lavoro del Centro Studi e Ricerche IDOS, insieme al Centro Studi Confronti e all’Istituto di Studi Politici “S. Pio V”, si è tenuto a Roma un incontro di riflessione sul fenomeno migratorio: sulle narrazioni e le rappresentazioni connotate in negativo dello stesso, il quale risulta essere, con evidente chiarezza, continuamente criminalizzato dalle politiche europee e nazionali del nostro contemporaneo. 

Riprendendo le parole dell’antropologo René Girard nell’opera “La violenza e il sacro”, Luca Di Sciullo, Presidente dell’Associazione IDOS, ha introdotto un tema cruciale per comprendere le dinamiche della società contemporanea in relazione al fenomeno migratorio e non solo. Ponendo attenzione alla potente figura biblica di Caino, la riflessione di Girard muove introno a quell’originario atto di violenza, l’omicidio di Abele, che sembra essere il fondamento della creazione delle prime città. Com’è noto infatti, Caino, dopo aver ucciso il fratello, si trasforma in costruttore di una nuova società. Questa figura di uccisore-fondatore, evocata anche da altre figure mitiche della storia umana come quella di Romolo, simboleggia una verità inquietante: la costruzione della civiltà, come la conosciamo, nasce da un fratricidio.

Questo legame tra violenza e potere è ancora vivo nelle istituzioni moderne, dove il “legislatore”, lontano dall’essere un arbitro imparziale, è intrinsecamente connesso alla violenza. Le leggi spesso legittimano il potere, creando un sistema che perpetua la negazione della fratellanza e giustifica la crudeltà come un mezzo per mantenere il controllo. 

Osserviamo, come ci invita il Dossier Statistico Immigrazione, che nella gestione politica del fenomeno migratorio, la violenza diventa non solo tollerata, ma più precisamente incoraggiata: la risposta che si propone di fronte ai “nemici esterni” che valicano i nostri “confini” è quella dell’allontanamento, della deportazione e dell’eliminazione.

 

Negli ultimi trent’anni le persone migranti sono diventate il capro espiatorio di tutte le difficoltà sociali ed economiche che affliggono l’Europa. Come osserva Di Sciullo, l’ostilità verso i migranti non è più solo un fenomeno sociale, ma una politica istituzionalizzata. Le leggi più recenti sono sempre più dure, crudeli e prive di fratellanza. Le persone che arrivano sulle nostre coste sono trattate come numeri, private dei diritti fondamentali e costrette a vivere in una condizione di precarietà giuridica e sociale.

In particolare, l’Italia ha avviato un processo di esclusione che si estende ben oltre le politiche di accoglienza. Le persone migranti sono esposte allo sfruttamento lavorativo, a condizioni di vita disumane nei CPR, e a una burocrazia che rende difficile, se non impossibile, il riconoscimento della cittadinanza. La politica migratoria dell’ultimo ventennio è una politica di “chiusura”, che non solo impedisce l’ingresso, ma crea vere e proprie “zone grigie” di esclusione, con la complicità di governi europei che chiudono gli occhi davanti agli abusi sistematici.

 

Oltre i numeri che spaccano gli schermi dei nostri smartphone e impoveriscono non di poco lo scenario di pericolosi riduzionismi, ci sono ancora una volta le persone e le loro vite. Questi incontri, questi momenti di riflessione che nascono grazie a un lavoro così minuzioso com’è quello del Dossier statistico sull’immigrazione, ci ricordano che fortunatamente, sono molte le voci che continuano a battere il colpo per la difesa dei diritti umani

Tra i contributi del 29 ottobre, quello di Nawal Sofi, in collegamento video, ci ha maggiormente restituito la cifra delle condizioni di vita delle persone che migrano, il frutto marcio delle politiche europee e nazionali. Nawal Sofi coordina le operazioni di salvataggio in mare, denunciando quotidianamente le violenze ai confini dell’Europa e le condizioni in cui vengono detenuti i migranti. “Le storie che non possono essere raccontate” – come ha affermato – sono quelle di chi, a causa di torture, rapimenti e ricatti, è costretto a subire un silenzio forzato. Queste persone si trovano intrappolate in un circolo di violenza e sfruttamento che non lascia via d’uscita.

 

Il quadro che emerge è allarmante: l’Europa si sta lentamente trasformando in una fortezza, dove l’indifferenza si sta sostituendo all’umanità, e il diritto d’asilo è ridotto a un’illusione. Le politiche migratorie diventano sempre più crudeli, e l’assenza di una risposta civile e solidale porta a una crescente “assuefazione” dell’opinione pubblica. Questo fenomeno, come ha sottolineato ancora Di Sciullo, è pericoloso: mentre le atrocità si moltiplicano, la capacità di indignarsi si affievolisce. La violazione dei diritti umani diventa “normale”, come se fosse inevitabile e giustificata dalla difesa delle frontiere e dalla protezione della “sicurezza”.

Diventa a questo punto fondamentale che la società civile, le organizzazioni e le istituzioni tornino a riflettere sul valore della solidarietà. La condizione dei migranti è solo la punta di un iceberg di disuguaglianza e ingiustizia che non può essere ignorata, se vogliamo costruire un futuro migliore per tutt3.

 

Nelle prossime settimane, grazie ai dati e alle analisi proposte all’interno del Dossier Statistico Immigrazione 2024, ragioneremo sulle condizioni dei migranti nelle carceri italiane e non solo.

Lasciamo qui sotto gli articoli sul Dossier Statistico Immigrazione degli anni passati:

Dossier statistico immigrazione 2022 – i migranti nelle carceri italiane

Dossier Statistico Immigrazione 2023

 

Stefano Cucchi – 27 ottobre 2024

LIVIA

Domenica 27 ci sarà il “memorial Stefano Cucchi“. 

È triste celebrare una morte, e lo è ancora di più quando questa è stata causata da abuso di potere prima e trascuratezza poi da parte delle forze dell’ordine e delle istituzioni.

Sono passati 15 anni da quando Stefano è stato ucciso a suon di botte e abbandono, 15 anni durante i quali si sono susseguiti processi, carte, solidarietà, ingiurie, cattiverie, abbracci, film, speranze, iniziative, parole, sconfitte e vittorie (per modo di dire, perché in questi casi non c’è vittoria che possa consolare).

 

Sarebbe bello potersi unire semplicemente per ricordare una persona che non c’è più, invece in questo caso è necessario farlo anche per sottolineare le cose che ancora non vanno nel sistema giustizia e nel sistema carcere.

Quotidianamente i diritti delle persone detenute vengono calpestati e troppo spesso la detenzione si trasforma in una punizione fine a se stessa, in trattamenti mortificanti, in corpi vessati dentro e fuori.

 

Più che mai quest’ anno è necessario esserci e partecipare perché ci troviamo di fronte ad un governo cieco e ottuso che pensa di risolvere i problemi sociali attraverso decreti fatti di controllo, punizione e repressione.

Zittire per non ascoltare il contraddittorio, punire per non riconoscere il disagio, reprimere per evitare il dissenso.

Tutte e tutti direttamente o indirettamente saremo colpiti da una delle tante regole contenute nel “pacchetto sicurezza” o dagli altri tentativi liberticidi che provano a smantellare diritti conquistati con fatica nel passato.

 

Partecipare è quindi importante, quest’ anno più del solito. Riunirsi nel nome di Stefano Cucchi è un modo per far sentire la propria voce, per guardarsi e riconoscersi, per dimostrare che riunirsi e dissentire non deve essere un pericolo.

 

Sarebbe bello immaginare che presto non serva più questo memorial, che il ricordo di Stefano possa finalmente tornare a una dimensione privata dove a ricordarlo sia chi lo ha conosciuto e vissuto nella sua totalità e non solo come vittima di un sistema barbaro.

Ma fino a quando quel giorno non arriverà bisogna continuare ad esserci e testimoniare, per questo domenica speriamo di vedere tanta gente, tanti volti diversi da quelli che incontriamo ogni anno e di respirare partecipazione e resistenza, sorridendo seppur nel dolore.

Reato universale – altri modi di dire alle donne come gestire il proprio corpo

Presupponendo qualche potere trascendentale sui corpi e sulle vite delle persone con utero, ecco che in Italia, la tanto attesa mano di ferro portatrice di ordine e sicurezza – schierata contro “l’ideologia gender” in nome di un caotico ginepraio che sarebbero “i valori de ‘na volta” – arriva a definire i termini per i quali la gestazione per altri sarebbe un reato universale.

Fa un po’ ridere il pensare le cose in termini universalistici quando, perfino in questo paese di conservatori, esiste una buona parte della popolazione che grida l’esigenza di uno sguardo intersezionale sulle cose del mondo.

NB. Guardare all’intersezionalità è una pratica promossa dai movimenti femministi e transfemministi che presuppone la consapevolezza della complessità della realtà, costruita su relazioni di potere e di subordinazione che producono le marginalità le quali hanno TUTTE necessità di essere considerate, ascoltate, viste, ecc. Questo, molto in breve, vi rimando alle parole di Sabrina Marchetti per una riflessione:

«Nel momento in cui ci accingiamo a parlare di “diversità”, siamo immediatamente obbligati a confrontarci col fatto che di “diversità”, ogni persona, rispetto alle altre e rispetto alla società nel suo complesso, non ne ha una sola.»

Fa un po’ meno ridere la pretesa dello stato di diritto di criminalizzare bambine, bambini, genitori e intere famiglie che hanno la loro quotidianità, esistono e continueranno a farlo nonostante il reato sia da mercoledì ufficiale. E per quelli che verranno?

Che poi c’è da ingegnarsi per capire quale problema rappresenterebbe per l’Italia se una persona mette a disposizione la propria capacità gestazionale per un’altra che non può ma vuole avere figli o figlie. Reato di cosa? Sarà forse che siamo spaventati dalla complessità del mondo? Notiziona, complesso lo è sempre stato il mondo.

«La frammentazione dei ruoli genitoriali accettati della paternità e della maternità (Parkin, 1997), che deriva dall’applicazione delle tecniche di riproduzione assistita, ha spinto in avanti la distinzione, ben nota nell’antropologia classica, tra genitore-genitrice e padre-madre sociali con la filiazione materna che può sdoppiarsi nelle sue due componenti costitutive, darsi separatamente come una maternità genetica oppure come una maternità gestante. Fino a cinque persone possono risultare coinvolte, nel caso in cui entrambi gli aspiranti genitori (genitori di intenzione) siano sostituiti nelle loro funzioni genetico-procreative da un donatore di spermatozoi, da una donatrice di ovuli e da una gestante incaricata di portare avanti la gravidanza, nella cosiddetta surrogacy gestazionale (gestational surrogacy).» – Antropologia delle famiglie contemporanee, Simonetta Grilli

Fa ancora più ridere l’ipocrisia insita nelle pratiche di governo dei corpi delle donne che le investe di un duplice fardello: da un lato macchine riproduttrici di lindi e pinti nuovi cittadini, dall’altra criminali che utilizzano le stesse funzioni biologiche richieste dalla società per essere considerate a tutti gli effetti delle “vere donne” per permettere ad altre vite di colorarsi con l’arrivo di nuove vite. Cioè detta molto semplicemente: le persone che vogliono figli ma non possono averli (per le motivazioni più disparate) continuano a non poterli avere MA le persone che non vogliono figli ma restano incinte (per le motivazioni più disparate) non possono interrompere la gravidanza. È caotico? Non ha molto senso? Sì, ma a quanto pare è così. E buona pace alla libertà di autodeterminarsi in un paese libero.

Oltre la solita polemica, cosa s’intende per reato universale?

Mercoledì 16 ottobre la proposta di legge FDI viene approvata. Ebbene la gestazione per altri, chiamata spesso e impropriamente “utero in affitto”, diventa reato universale: ergo, sarà perseguibile in Italia chi farà ricorso alla GPA anche se all’estero.

«Anche se ci sono forti dubbi sulla sua applicabilità, secondo diversi giuristi la legge avrà comunque ricadute concrete sulla vita delle persone che vorranno far ricorso alla GPA: potrebbero andare infatti incontro a un processo, accusati di un reato che comporta il carcere o una multa elevata.» – Il Post

È davvero frustrante dover leggere queste cose, pensarle reali, dover ribadire ancora una volta la libertà personale di scegliere come condurre la propria vita. Perché di questo parliamo, di vita.

Una vita donata diventa reato. 

Gli anni del Covid in carcere

Il periodo pandemico è ormai storia lontana, la guardiamo quasi con disorientamento, chiedendoci se sia successo davvero. Siamo stat3 chius3, nelle nostre case, con orari da rispettare, documenti da compilare per uscire, controlli, dispositivi di sicurezza … La quotidianità stravolta del nostro fuori si è forse avvicinata a quella di molte persone private della loro libertà, le quali hanno vissuto proprio in quel periodo l’acuirsi del disagio che versavano le loro “case” circondariali
DOMENICO

Quando sono uscito io non m’hanno fatto saluta nessuno perché era il periodo del Covid. 

Durante il Covid, in carcere

Io sono stato il primo a essere isolato  per Covid. Isolato.

Allora che è successo: c’avevo il raffreddore, non me sentivo bene e so andato in infermeria. “Dotto’, c’ho il raffreddore me dai qualcosa?” e lui mi ha dato un antibiotico per 5 giorni.

Il giorno dopo, stavo all’aria, mi sento chiamare e quindi vado di nuovo in infermeria. 

Boh, me comincio a preoccupa’.

Il dottore me dice: “Come sta?”. “Bene – gli ho detto – m’ha dato l’antibiotico ieri”.

M’ha messo il misurino sul dito, m’ha fatto passeggia’ per 5 minuti e poi m’ha detto: “Noi abbiamo disposizione che la dobbiamo isolare”. 

 

Era sotto Pasqua, me ricordo, era il 2021 o il 2019. Gli dico: “Come me devi isola? Io sto bene”. Eh, e m’ha isolato. M’ha mandato in una cella che era stata distrutta da un mattaccino. Era tutta rotta, pure il termosifone era rotto. Io ho fatto casino, ho chiamato il comandante e gli ho detto: “Io non prendo più la medicina…” E al dottore: “Ma lei manda la gente in isolamento senza vedere manco dove li manda…”  

 

Sono stato 15 giorni, gli chiedevo io a spese mia di fare il tampone. 

“Dotto’ famme il tampone. Te lo pago io, che dovemo fa?”

“No, le disposizioni non sono queste.”

“Ho capito ma io sto bene, perché devo stare 15 giorni isolato da solo?”

 

Che poi c’avevo un pezzetto d’aria che potevano esse quattro metri per tre?

‘Na cosa brutta è stata, il tampone non me l’hanno fatto, so’ stato 15 giorni isolato punto. 

 

Riguardo al Covid, l’unica cosa buona che ha portato è stato il fatto che potevi fa più telefonate e le videochiamate. Solo quello.

Potevi fare due telefonate a settimana di 10 minuti. Non c’erano gli incontri. Poi parlamose chiaro, noi dovevamo andare in giro con la mascherina, gli agenti tutti senza mascherina. E infatti c’è stato qualche agente che si è ammalato, è stato male, è andato in terapia intensiva.  Da quando sono cominciati i colloqui,dovevamo sta  tutti con le mascherine: noi, i parenti. Giustamente, quello che non capisco è perché io sono obbligato a mettere la mascherina e tu no. Questo non capisco.

Che poi rischiavi rapporto senza mascherina. Se te prendi rapporto, perdi 45 giorni de libertà anticipata. Qualsiasi cosa che fai te perdi 45 giorni.

Io in tutti sti anni de galera non me so mai pijato un rapporto, me credi? Niente, non ho perso un giorno. Quando sono uscito fuori, perché a 4 mesi dal fine pena mi hanno dato i domiciliari, una mattina non ho sentito i carabinieri che m’hanno sonato. Stavo sotto la doccia alle sette e dieci perché io uscivo alle otto, e non l’ho sentiti. Quando so ritornato alle 10 mi hanno chiesto: “Lei do’ stava alle sette e dieci?” “E do’ stavo? Stavo sotto alla doccia.” “No, perché lei non ha risposto.” “Eh ho capito ma mica era colpa mia non ve sentivo”.

Poi avevano pure il numero di telefono mio, mi potevano pure chiamare… Infatti quando siamo andati a causa, con l’avvocatessa, ho vinto la causa e sono stato assolto.

 

Però ho perso 45 giorni!

Riflessioni sullo “svuota carceri” e non solo

LIVIA 

Fa caldo, non facciamo che ripetere questa frase in questi giorni. Eppure in linea di massima abbiamo case più o meno spaziose ma comunque vivibili, abbiamo finestre da aprire, passeggiate da fare, il respiro del mare o la frescura della montagna.

Dopo oltre  20 anni di lavoro in carcere il mio pensiero non può che andare alle persone ristrette: spazi angusti e sovraffollati, sbarre alle finestre, porte blindate chiuse con solo uno spioncino, cemento come pavimento, umidità dalle pareti, bottiglie d’ acqua sui piedi come strategia di refrigerio e acqua che manca nelle docce e poi indignazione, mortificazione, insofferenza, rabbia, dolore, disperazione e tanto altro. 

 

Bisognerebbe capire una volta per tutte che la punizione prevista è la privazione della libertà, il resto sono diritti negati al limite della tortura.

Bisognerebbe decidere una volta per tutte se vogliamo essere uno stato che garantisce diritti a tutt𑇒, se davvero si crede in un concetto di detenzione riparativa e educativa oltre che punitiva e mortificante.

 

Tanto si parla in questi giorni di riforme per dare sollievo e respiro a questa situazione di sovraffollamento, misure tecniche semplici e già sperimentate che darebbero una parziale ma maggiore vivibilità. Ma gli interessi politici e le alleanze di partito sono più forti e importanti della sopravvivenza di chi, anche se colpevole, arriva a togliersi la vita pur di non stare in un carcere. 

Ci troviamo davanti ad una totale mancanza di lungimiranza da parte di chi ci governa, che invece di correre ai ripari spaventata da ciò che succede in una loro istituzione continua a discutere e rimandare decisioni importanti al fresco delle aule parlamentari.

La riforma proposta nei giorni scorsi, come già detto da esperti del settore, è vuota e non risolutiva ma per interessi interni e giochi di potere non si giunge ad una soluzione e si paventa all’ opinione pubblica l’uscita di orde barbariche di persone detenute per giustificare misure esclusivamente repressive.

Si aspetta forse qualche rivolta per giustificare la decisione di costruire nuovi carceri invece che depenalizzare e di investire in corpi speciali di polizia invece che in strumenti educativi.

E intanto siamo a quasi 60 suicidi da inizio anno di persone detenute, siamo di fronte ad un imbarazzante e rumoroso silenzio istituzionale che neanche il caldo e il suono delle cicale riescono a cancellare.

Suicidi in carcere

Oltre i numeri, le persone

ALESSIA

«Le persone detenute che dall’ inizio dell’anno e fino al 20 giugno 2024 si sono suicidate in carcere sono 44» si legge sul documento pubblicato sul sito del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà “Analisi suicidi in carcere 2024”. 

Seguono poi una serie di dati, di numeri, delle specifiche categorie che fanno pensare di avvicinarci meglio alle loro vite: uomini 42, donne 2, italian𑛂 24,  stranier𑛂 20 e così via. 

Se la guardiamo da una certa prospettiva, può sembrare che la pulsione a incasellare vite burocratizzate svuota di senso e significato le singole esistenze. A guardarle da fuori, attraverso nomi che danno caratteristiche approssimative, ci sembra di conoscerle meglio quelle vite, mentre ci allontaniamo ancora di più dalla realtà. Con questo non si nega l’importanza che – in una società burocratizzata – rappresentano questi dati, queste statistiche. Sui giornali vediamo, con una certa leggerezza, associare le persone che scelgono di porre fine alla propria vita con parole come “rischio record” e se ci sembra normale, se non ci si accappona la pelle allora l’oggettificazione dei corpi è completa, la cosificazione delle vite ha raggiunto i suoi picchi massimi. Ancor di più quando a morire sono le persone detenute.

Quello che ci proponiamo di fare, allora, è prenderci il tempo, percorrere queste perdite, sentirne tutto il peso e le responsabilità collettive di un’istituzione penitenziaria che sì, uccide sistematicamente.

Parlare di suicidio, già di per sè fa crescere un grosso magone. S’impone ai nostri sensi un disorientamento che colpisce quasi più forte di una perdita avvenuta in altri modi, in modi casuali, in quei modi comuni che non riusciamo spesso a spiegarci. Quando la morte è scelta restiamo paralizzati, le domande si moltiplicano, si pensa a tutte le parole che potevano dirsi per evitare quella perdita. Ci si sente responsabili pure quando, dopo tempo, ammettiamo che non si può conoscere fino in fondo il dolore di una persona. Restiamo in queste domande, osserviamo le ricorrenze. Perché una spiegazione forse esiste se i numeri aumentano ferocemente, se le persone recluse nelle carceri scelgono di abbandonare la vita piuttosto che attendere il fine pena.

Quali sono le condizioni di vita negli istituti penitenziari italiani?

Immaginiamo di convivere costretti in 6 mq in 4 persone, con i muri che trasudano il calore, senza poter chiamare o vedere una persona amica nel momento del bisogno e dovendo attendere le risposte per ogni minima richiesta. Avere 3 rotoli di carta igienica al mese, scrivere domandine su domandine per chiedere che so, una visita medica. Aspettare risposte, colloqui, sentenze. Aspettare che qualcuno ti ascolti, ti ricordi che sei un essere umano. Aspettare sempre, senza poter fare nulla per la tua vita, senza poter attivamente scegliere nulla: quando mangiare, quando dormire, quando incontrare chi ami. 

«Ci sono alcune espressioni che gli agenti usano spesso per imporre le loro decisioni. La più usata è “ricordati che qui sei in galera”. Tutto ciò di cui abbiamo bisogno viene concesso dall’istituzione e quindi bisogna chiedere, usando formule di gentilezza. In una situazione di estrema deprivazione si è sempre costretti a chiedere, e spesso si ottengono risposte negative. Piccole negazioni che non sempre hanno una giustificazione. E allora, la motivazione più convincente si rivela l’invito di non dimenticare mai il luogo dove ci troviamo. Ricordare di essere in galera ci serve ad accettare con rassegnazione ogni forma di privazione. Ho l’impressione che molti agenti credono che non siamo stati condannati abbastanza, che le condanne che ci sono state inflitte siano troppo leggere, e che loro devono in qualche modo fare qualche integrazione alla condanna. È chiaro come in un clima di questo tipo vi possono essere nella quotidiana burocrazia del carcere negligenze, rigidità, omissioni, disfunzioni organizzative che creano disagio e inutili sofferenze, che offendono la dignità delle persone soprattutto perché sono improntate al pregiudizio, a volte anche al razzismo, e sono comportamenti tanto più sgradevoli e offensivi quanto più sono sprovvedute e indifese le persone che ci vanno di mezzo.»  “Farsi la galera. Spazi e culture del penitenziario.” – a cura di Elton Kalica e Simone Santorso

Proprio ieri io, Livia e Sara parlavamo di questa problematica. I suicidi in carcere accendono i riflettori su una situazione completamente degenerata che si cerca di denunciare da tempo e da più fronti. E sembra che a far più scalpore, ad accendere maggiormente i riflettori, non siano bastati i suicidi delle persone recluse: è dovuto accadere che a togliersi la vita siano stati gli stessi agenti penitenziari. Triste pensare che solo allora abbiamo iniziato a renderci conto dell’invivibilità dell’ambiente carcerario, ancora più triste è non riuscire più a sostenere il posto in cui si lavora, tanto da scegliere di abbandonare la vita. 

Indicibile, invisibile, lontano. Il carcere chiuso in sé stesso, completamente isolato e abbandonato, un posto affollato di storie di vita. Come ha sottolineato Livia, il penitenziario è pur sempre un’istituzione dello Stato: cosa succederebbe se all’interno della scuola o dell’università si riscontrasse un alto numero di suicidi tra personale e corpo studentesco? Certo non quello che si fa con il carcere, cioè nulla. 

In un incontro organizzato dall’associazione Parliamo di carcere lo scorso 11 maggio, il garante dei detenuti del Lazio  Stefano Anastasia ha parlato del grande problema dei suicidi in carcere, individuando tra le cause primarie quella del sovraffollamento. Ha notato la macabra ironia nel passaggio di letti a castello a tre, una mossa che concretamente, in termini materiali di “altezza”, facilita di fatto l’impiccagione. 

Ci lasciamo così, con questa amara consapevolezza. Spero che chi poco si interessa a questi argomenti “di nicchia” capisca l’importanza di riflettere su modi alternativi di pensare le pene. La responsabilità di calpestare, stracciare, demolire a mano a mano la dignità e i diritti umani è di tutt𑛂 noi. I suicidi in carcere fanno parte di questa stessa responsabilità. 

Incontri – Assorbire il cambiamento

ALESSIA

Assorbire il cambiamento è il progetto che abbiamo promosso quest’anno, ormai lo sapete bene. Dall’otto marzo al ventotto maggio abbiamo raccolto gli assorbenti per le persone detenute in carcere e nelle strutture di accoglienza. In questi mesi abbiamo incontrato le esperienze di alcuni vissuti di dentro, ne abbiamo parlato, siamo stat3 dentro le storie di chi ha dovuto gestire in una quotidianità ristretta le mestruazioni.

Ripercorrendo nella mia mente le loro voci, i loro sguardi, i loro sorrisi sarcastici, mi rendo conto della continuità di tutti i racconti: gli assorbenti in carcere servono, quando arrivano non sono sufficienti, non sono per tutt3, non c’è possibilità di scelta

Chi lavora sì, chi ha una famiglia che può sostenerl3 va bene, chi trova la solidarietà del coabitare, in qualche modo le mestruazioni vengono gestite. 

L’obiettivo di “Assorbire il cambiamento” non è mai stato solo quello di donare assorbenti usa e getta o lavabili, come abbiamo detto più volte volevamo incontrare le persone: consegnare il materiale, ascoltare le loro esigenze, costruire insieme dei “laboratori” per parlare di ciclo abbattendo i tabù e presentare – grazie alla collaborazione con Camilla (Laboratorio sostenibile) – quei dispositivi lavabili e riutilizzabili che possono portare vantaggi economici, igienici ed ecologici importanti. 

 

Ora è arrivata la parte che preferisco, quella dell’incontro appunto. 

Incontro a Casa di Leda

Mercoledì io e Camilla siamo state a Casa di Leda, vi racconto un po’ com’è andata.

All’inizio, come succede quando guardi per la prima volta visi nuovi, siamo state sommerse dagli sguardi. Sguardi curiosi, diffidenti, infiltranti. Sono ormai due anni che percepisco quegli sguardi penetranti e non credo di saper spiegare bene cosa si provi nel’accoglierli, restano dentro. Cercano di indagarti. Sanno chi rappresenti, vogliono capire chi sei.

Ci accomodiamo in una stanza ricca di giochi per bambin3, c’è una tenda, dei libri, delle sedioline e un grosso tavolo. Con l’operatrice della struttura sistemiamo le sedie: mettersi in semicerchio è sempre una buona idea per guardarci in faccia e continuare quel gioco di sguardi. Arrivano una alla volta le donne di Casa di Leda e una bambina che ha da poco esperito il suo primo menarca. Questo forse, pensiamo con Camilla, lo renderà ancora più importante per qualcuno. Io da piccola mica ho avuto la possibilità di stare in una stanza a parlare di ciclo con sconosciute! Superato l’imbarazzo, sarà sicuramente interessante. O almeno questa è la speranza. 

Ci presentiamo, iniziamo a parlare e come sempre accade quando si ha un’idea, una “scaletta” di argomenti da trattare, la curiosità del momento ha spostato tutte le attenzioni sulla bustina blu di stoffa contenente gli assorbenti lavabili di Laboratorio sostenibile

Così Camilla ha iniziato a spiegare come sono fatti, quando e come vanno lavati, quanto possono durare, diciamo tutte quelle informazioni di cui abbiamo scritto qualche articolo fa: “Le mutande assorbenti e il carcere”.

Diventa subito facile parlare di qualcosa che va oltre i confini delle nazionalità, delle appartenenze culturali, dei differenti gruppi sociali, quando si condivide nell’immediatezza dei corpi la ciclicità fisiologica del sanguinare. 

 

Assorbire il cambiamento – gli assorbenti lavabili in carcere è una soluzione possibile?

Nonostante l’entusiamo ricevuto per gli assorbenti lavabili – se non da tutte almeno da 4 persone su 5 – alla domanda “In carcere può funzionare secondo voi?”, la risposta è arrivata all’unisono: no! Si è ragionato come anche negli altri incontri, sulla questione economico-logistica, per cui sarebbe certo una soluzione a lungo termine del problema quella di avere a disposizione sempre i propri assorbenti lavabili (che durano in media 5 anni!). Cosa non può funzionare? Il lavaggio e l’asciugatura.  

«Non si asciuga manco ‘na maglia, figurate questo che è doppio» ha detto S

«10 anni fa si potevano mette fuori i panni adesso no» ha continuato G

Mentre spiegavo meglio il progetto di Assorbire il cambiamento sono stata interrotta al “la maggior parte degli assorbenti li portiamo in carcere…”.

«E fate bene, veramente, perché ce n’è bisogno in carcere» ha affermato E, mentre le altre annuivano e confermavano quel che cerchiamo di far emergere da mesi. 

Perché secondo le loro esperienze, in linea con le altre già raccolte di Maria, Rosaria e Sonia, gli assorbenti in carcere non arrivano sempre e quando arrivano sono pochi. Pensiamo di vivere il nostro ciclo con un pacco al mese, con tre rotoli di cartigienica e senza bidet! E ci ha raccontato che quando è entrata aveva le mestruazioni, non aveva assorbenti con sé e ha dovuto arrangiarsi

«Ho preso il lenzuolo e l’ho strappato poi ho fatto così e via» – mimando il posizionamento del lenzuolo tra le gambe. Ti tieni gli assorbenti fino a quando reggono, anche l’estate quando il materiale, con il sudore e il sangue in eccesso irrita la pelle. Devi farlo per usarne il meno possibile. Certo che se ti finiscono puoi sempre chiedere a chi ne ha di più, l’altra sa che la prossima volta avrà un assorbente da te; alcune magari li vendono ma «Devi essere proprio str**za per vendere l’assorbente a un’altra mamma» ha concluso E

Sul bidet la questione è sempre la stessa, diverse le carceri, diverse le sezioni, diverse le disponibilità. Quindi in alcune è presente, in altre no. 

D ha spiegato: «Nel carcere di *** alla sezione con i figli, dove c’è l’asilo tutto, c’è il bagno in camera e hai tutto, nell’altra ci sono le docce tutte insieme».

G ha poi commentato ridendo «Tanto la metà non si lava quindi non è un problema».

Esperienze ristrette: il ciclo in carcere

Un ricordo recente, quello di Rosaria, una signora di 52 anni ospite all’interno di una struttura di accoglienza romana per persone detenute in misura penale esterna o ex detenute. Abbiamo incontrato Rosaria quasi un mese fa e ha partecipato volentieri al progetto Assorbire il cambiamento che – come ormai saprete – prevede oltre alla donazione di assorbenti per il carcere e le persone detenute nelle strutture di accoglienza, questa raccolta di preziose testimonianze che ci rendono possibile andare oltre le alte mura degli istituti penitenziari e ascoltare, o in questo caso leggere, come vivono il ciclo mestruale le persone ristrette.

 

Qualche tempo fa sui nostri canali social già abbiamo letto una piccola parte dell’intervista fatta a Rosaria

«Chi prende terapia gli scende proprio che è ‘na bellezza eh, per gli anticoagulanti. Dicevano “mamma mia c’ho tutto sto ciclo”, queste se spaventavano… Perché non sapevano, erano ignare. Poi se fai uso di dr0g4, ehhh! Se fai quello ti si riduce, e tante lo fanno pure per questo, perché non sopportano … e invece quando vengono monitorate con la terapia, tutto ‘sto sangue … Tante dovevano cambiare spesso le lenzuola perché avevano ‘sto problema. E quindi c’è chi soffre di più e chi di meno.»

E ancora, riguardo ai farmaci:

«Io per esempio sono stata una che quando sono entrata (47 anni nel 2019) avevo il flusso abbondante, ce l’ho sempre avuto abbondante e prendevo una medicina a base di penicillina. Un antinfiammatorio buono per le ossa, per il mal di schiena e pure perché riduce il flusso mestruale. […] Poi me s’è regolarizzato molto con la maternità e non l’ho preso più. Lì me davano… quello che avevano. Brufen, Oki, Buscofen … E io me prendevo quello che potevo insomma, quello che tolleravo insomma perché l’oki non lo tollero, me se mette sullo stomaco. Poi una volta, non riuscendo con questi […] mi diedero l’Ugurol che è un riduttore, so goccette che te danno. ‘Na volta, due, tre e quello me disse, l’infermiere che stava là, “ma che stai andà in menopausa?”. “No io so proprio così” – gli ho fatto – “C’ho la mia medicina che mi dovrei far prescrivere”. Dice “Ok” e quindi me diede sta cosa qua.»

Oggi riporteremo il più fedelmente possibile, il suo racconto riguardo:

  1. Il ruolo da spesina in carcere – la farmacia;
  2. “La gioia nel cuore” delle persone detenute per le donazioni ricevute;
  3. Richiedere le visite specialistiche in condizioni ristrette.
ROSARIA 

Il ruolo da spesina in carcere – la farmacia

Allora, io vi posso assicurare – dato che ho fatto la spesina per tre anni all’interno della sezione *** – davano 1 pacchetto o al massimo 2 pacchetti di assorbenti a detenuta, quando avevano la possibilità, altrimenti si compravano. Venivano da me e li acquistavano.

A. «Quindi al sopravvitto?»

Sì, tante richiedevano gli assorbenti perché stavano più comode, rispetto a quelli che passavano. Poi, da me prendevano quelli interni, i tampax, ci stavano i regular e quelli più abbondanti. 

A. «E a livello di costi?»

Eh, dei costi… dovrei pure avere la lista da parte. Comunque… costicchiavano. Stavano dai 3 euro in su, alcuni pure molto di più. Mo’ non vorrei esagera’, non me ricordo esattamente l’importo, però quello era. E quindi apprezzavano quando glieli donavano, tante volte andavano a chiedere pure alle suore, chiedevano alle associazioni… è normale. Perché poi c’erano quelle che stavano col flusso abbondante, chiaramente.

Quando c’era la farmacia, alla prima e alla terza settimana del mese – ancora me ricordo – si facevano le domandine per i farmaci – su richiesta poi della dottoressa o del dottore che ti doveva mettere in visita a seconda del giorno del piano in cui stavi. Ti facevano la prescrizione, la visita, quello che è. Però insomma si dovevano imporre, ad esempio se volevano una specifica medicina, dicevano:“No, perché io lo so che questo qua lo usavo già da fuori, me va bene e voglio questo qua non voglio cambia’”. Allora arrivava questa medicina. Le pagavano a loro spese.

Se invece dovevano farsi portare le medicine dai parenti, da fuori, dovevano fare ulteriori richieste per farle entra’ e tutto quanto. 

Ne facevo tante. Molte chiedevano le vitamine, chiedevano il multicentrum e soprattutto le ragazze nere se sentivano scoperte, non coperte, poco tutelate.

Tutte, tutte se lamentano, chi pe’ na cosa, chi pe’ n’altra.

“La gioia nel cuore” delle persone detenute per le donazioni ricevute

Vi dirò di più: quando venivano co’ i carrelli perché le associazioni, come Sant’Egidio, mandavano che ne so, du pacchetti di caffè coi biscotti… I biscotti di quelli che dentro non ce stanno, tipo batticuore, pandistelle… C’era una felicità immensa che sembrava chissà che cosa avevano ricevuto. C’era una gioia veramente nel cuore. 

Te portavano tante cose, anche i reggiseni magari di un colore differente a quello che avresti voluto ma il modello quello è. Le pantofole, io ancora ho quelle di S.E., è ‘na gioia immensa… Partiva lo scambio, “A te de che colore te l’hanno dato?”. Addirittura tanti fanno i pacchi, li mandano in uscita per i propri parenti, per i nipoti, per i figli. Hanno portato, mi ricordo, le magliette della Lazio, della Roma, le tute quelle svasate fatte a campana, i pigiami… Tutte contente, tutte entusiaste, quindi sposano bene l’idea. Non se sentono abbandonate, dicono “Ah menomale c’è qualcuno che ce pensa.” E quindi sono contente di questo.

A. «Certo, e le donazioni di assorbenti invece, sono mai arrivate?»

Sì. Vengono, vengono. Fanno delle consegne a parte magari, quando l’assistente lo richiede, perché a volte è successo che mettono dentro anche spazzolini, dentifricio, i prodotti igienici diciamo. Li mettono dentro una saletta e poi quando decidono li consegnano.

Volevo di’, del fatto degli assorbenti, in genere li consegnavano col cambio delle lenzuola, il martedì se faceva il cambio delle lenzuola ‘na volta a settimana. Poi vabbé saltava qualche volta, ad esempio per il fatto del Covid oppure quando c’è stata la scabbia. Però, se c’eraportavano nel carrello la fornitura, la cosiddetta fornitura cioè:

  • Quattro rotoli di cartaigienica per uno;
  • Due pacchetti di assorbenti; 
  • Una saponetta.

E ste cose qua.

Vi dico che prima che uscissi dalla sezione a settembre, gli assorbenti, i vestiti, i prodotti di igiene in generale venivano consegnati solo alle nuove giunte, alle altre no. E se sapevano, a maggior ragione che eri lavorante, ti obiettavano la cosa perché dicevano che non potevi prendere una cosa che toglievi ad altre che non lavorano e che non potevano permettersi di comprarla. Quindi i materiali rimangono là anche per un nuovo arresto, una nuova giunta. La formula era questa e s’è mantenuta diciamo fino a poco fa, poi mo’ non lo so. Da settembre non so se hanno cambiato qualcosa. Perché poi ho notato pure che cambia direzione, cambiano consegne, cambiano regole, cambiano tante cose… ma qui entriamo in un altro discorso.

Richiedere le visite specialistiche in condizioni ristrette

Ho fatto caso che chi fuma, gli si ostruisce diciamo le vene perché l’ossigeno non passa… cioè il sangue non si coagula nella maniera corretta e risente molto di più dei dolori mestruali.  Oltretutto, incide anche la quantità di acqua che bevi acqua, il fatto che te mangi gli insaccati, il fatto che te mangi i latticini… Io lo dico sempre a ste ragazzette di non mangia’ sta roba, per un mese e di fare la prova. Perché ti devi conoscere, devi imparare a capire cosa ti fa bene, cosa ti fa male e poi te incanali… E te dai un equilibrio, na cosa. 

A. Trovi il giusto rapporto col tuo corpo?

Brava! E allora poi dopo non te stai a lamentà che vai dal dottore “Ah, c’ho quello, c’ho questo, non so che ho fatto…” Anche perché, la ginecologa lì veniva di rado, veniva… a volte vengono. All’inizio venivano chiamate dopo tre mesi, tante se lamentavano. Ultimamente venivano più spesso. Chiamavano spesso il dermatologo che non c’era sempre. Si chiedeva del dentista, di un odontotecnico… sono queste le visite specialistiche più richieste. Poi tra l’altro quando io sono entrata nel 2019 ci fu la campagna per la sensibilizzazione del cancro seno, per le varie cose dei denti… Ci hanno portato alla parte del carcere adibita e ci hanno fatto le visite. Però non passano spesso. Anzi, la detenuta chiede e cerca, però sono gli assistenti, tra virgolette i capi insomma, i sovraintendenti, gli ispettori… che il più delle volte te dicono “Eh devi aspettà, mettite in lista.” Un po’ così…

Le mutande assorbenti e il carcere

Le mutande assorbenti sono un’alternativa ecologica ai classici assorbenti usa e getta, tra i vari  vantaggi che comporta l’utilizzo degli slip o degli assorbenti lavabili vi è sicuramente quello economico, ma non solo. Nello spirito dell’iniziativa “Assorbire il cambiamento” inserita nel progetto POSTER coordinato da Aidos, abbiamo chiesto a Camilla, fondatrice e coordinatrice dell’Associazione Laboratorio sostenibile di parlarci più nel dettaglio di questi prodotti igienico-sanitari ecosostenibili

CAMILLA

Come funzionano le mutande assorbenti?

Assorbenti lavabili e mutande mestruali sono il corrispettivo riutilizzabile e quindi più sostenibile dei comuni dispositivi mestruali usa e getta.

Gli assorbenti lavabili sono creati con materiali drenanti, assorbenti e impermeabili che hanno lo scopo di assorbire e trattenere il sangue. Il loro caratteristico bottoncino fa sì che restino ancorati allo slip. Le mutande mestruali hanno questi stessi materiali già cuciti al loro interno e non hanno quindi bisogno di ulteriori accessori per svolgere la loro funzione.

Entrambi i prodotti, se creati con materiali di qualità, possono portare notevoli benefici in termini di salute intima nonché un notevole risparmio economico sul lungo periodo e un impatto positivo a livello ambientale

Quanto durano le mutande assorbenti?

In termini di durata giornaliera entrambi i dispositivi hanno una capacità assorbente maggiore di quella degli usa e getta e possono essere indossati fino a un massimo di 8 ore.

In termini di durata negli anni parliamo di una media di 5 anni.

La loro durata nel tempo può dipendere da fattori prettamente legati al prodotto (la qualità dei materiali, ad esempio) così come da fattori esterni (corretto lavaggio e rotazione, conservazione lontano da ambienti umidi che potrebbero favorire la comparsa di muffe).

Quante mutande assorbenti al giorno?

La quantità di assorbenti e mutande mestruali di cui si necessita varia in relazione al proprio flusso e alle modalità di lavaggio prescelte

Se è vero infatti che ognuno dei due dispositivi può essere indossato fino a un massimo di 8 ore – e quindi si avrà necessità di almeno 3 pezzi per coprire l’intera giornata – è altrettanto vero che se questi verranno lavati immediatamente dopo l’uso saranno pronti per essere utilizzati nuovamente nel giro di 24 ore. Se al contrario si aspetterà la fine delle mestruazioni per lavarli tutti insieme, si avrà bisogno di almeno 10/15 pezzi per coprire con serenità tutti i giorni di mestruazioni.

Come si lavano le mutande assorbenti?

Questa è la preoccupazione principale di chi si approccia per la prima volta al mondo delle mestruazioni sostenibili. Ma il lavaggio è solo una questione di pratica e abitudine.

I punti fondamentali sono pochi e ben precisi: assorbenti e mutande mestruali hanno bisogno di un risciacquo in acqua fredda dopo l’uso per far sì che il sangue non si fissi ai tessuti. Dopo questo passaggio fondamentale, entrambi i dispositivi possono essere lavati sia a mano che in lavatrice a una temperatura massima di 40°.

Esistono poi delle soluzioni efficaci per rimuovere macchie e aloni più ostinati. Parliamo del percarbonato e dell’acqua ossigenata che se utilizzati prima del lavaggio finale e uniti all’asciugatura al sole fanno tornare assorbenti e slip mestruali igienizzati e puliti come nuovi.

ALESSIA

Perplessità sull’utilizzo delle mutande assorbenti in carcere 

Ci siamo chiest3, in carcere può funzionare? 

Durante l’organizzazione della Campagna di raccolta assorbenti per il carcere e le strutture di accoglienza per persone detenute di quest’anno, abbiamo pensato di introdurre questi dispositivi ecosostenibili. I nostri dubbi sull’uso delle mutande assorbenti o gli assorbenti lavabili negli spazi ristretti di una cella, magari pure affollata, sono relativi alle condizioni igieniche per cui si deve lavare lo slip nello stesso lavandino in cui si lavano le stoviglie; per i fastidi che può portare nelle condizioni di una convivenza forzata tra persone diverse che magari non condividono le stesse abitudini e le stesse concezioni riguardo alle mestruazioni in generale; o ancora per i tempi di asciugatura

Abbiamo chiesto per questo a Maria e Sonia, due persone che hanno vissuto l’ambiente del carcere in modi, tempi e situazioni differenti. 

Introdurre negli istituti penitenziari l’uso delle mutande assorbenti 

MARIA

In carcere tutte le cose, anche le mutande normali si lavano nello stesso posto in cui si lavano le stoviglie. Io posso dire una cosa secondo la mia esperienza. Purtroppo in cella con altre persone ci sono stata poche volte, solo quando mi trasferivano a *** alla massima sicurezza dove c’erano cella da tre letti. Quindi ci sono stata qualche volta, però lì c’era (per fortuna) nel cortile dell’area uno spazio per gli stendini. Quindi là ti potevi stendere tutto quello che volevi, senza dare fastidio a nessuno.

Invece, per esempio nella mia esperienza della cella singola che è stata per tutto il tempo della carcerazione cella singola… Ehh! Lì l’abitudine è che ti lavi le mutande quando te le levi la mattina e le stendi in un filo che hai messo dentro la cella con gli appendini quelli di plastica, ci metti un filetto, qualcosa insomma (se te lo fanno tene’) e le tue cose più private le stendi là. Mentre che ne so se lavi i maglioni, le camicie, i pantaloni, li stenti agli stendini fuori. Che poi lì gli stendini stavano dentro al corridoio quindi neanche c’era tutta quest’aria… Non era tanto comodo perché non si asciugava tanto bene la roba. Perché i giorni che era umido poi dopo non era profumata, se marciva mentre se asciugava, capito?

In genere comunque, nella comunità dato che si è fra donne sta cosa che faccia schifo una mutanda… Considera il lavandino è sempre uno solo, a *** nelle celle da tre persone ci stavano tipo acquasantiere dove già lavarci i piatti era molto complicato. Però è la legge del carcere, no? Tu lavi i piatti nello stesso posto dove vai al bagno, quindi la questione è quanto tieni pulito il lavandino. Nel senso, c’hai lavato le mutande, ce passi il VIM e poi ce poi lavà pure il bicchiere tanto a quel punto è disinfettato. Poi le puoi lavare anche dentro al bidet se ce l’hai, può essere un’alternativa…

Intervista a SONIA

Secondo l ‘esperienza di Sonia invece, non c’era molta solidarietà femminile, chiamiamola così. Infatti, chi aveva bisogno di un assorbente in genere si trovava a doverlo barattare con qualcos’altro come ad esempio le sigarette, o addirittura comprarlo da altre compagne. 

Alla domanda “c’era il bidet dov’eri tu?” mi ha risposto ridendo, affermando “che lusso!”.

Per lei le mutande assorbenti in carcere sarebbero super apprezzate.

Conclusioni

Tu cosa ne pensi? Hai mai provato dispositivi igienico-sanitari riutilizzabili come gli slip mestruali o gli assorbenti lavabili? Ti invitiamo a cercare le soluzioni più adatte a te sullo shop di Laboratorio sostenibile, una realtà con la quale ci siamo trovat3 subito in sintonia per l’attenzione, la cura e la partecipazione empatica alle nostre tematiche. 

In occasione della Campagna di raccolta assorbenti del PID Onlus, Laboratorio sostenibile donerà alle persone detenute assorbenti lavabili per tentare di dare supporto a chi nonostante non scelga di avere le mestruazioni, continua a sanguinare anche da dietro le sbarre. 

Vuoi contribuire anche tu? Ti ricordiamo che i materiali donati possono essere consegnati presso i seguenti punti di raccolta nei giorni e negli orari indicati:

  • Casa delle donne Lucha Y Siesta: Via Lucio Sesto, 10 – Mercoledì dalle 11:00 alle 13:00, dalle 16:00 alle 17:00 e Giovedì dalle 12:00 alle 13:30.
  • Associazione Libellula: Viale Giustiniano Imperatore 280/A – Lunedì dalle 15:30 alle 18:30.
  • L’Archivio 14: Via Lariana, 14 – Mercoledì e Venerdì dalle 10:00 alle 13:00 e dalle 17:00 alle 19:00, Giovedì dalle 17:00 alle 19:00.

Se non si ha la possibilità di recarsi in uno dei precedenti punti di raccolta, i materiali possono essere spediti alla Sede legale della Cooperativa PID Onlus, all’indirizzo: Via Eugenio Torelli Viollier, 109 – 00157 Roma

 

Continua a seguire gli aggiornamenti sui nostri canali social per saperne di più sulle questioni relative le mestruazioni in carcere, i tabù del ciclo e la raccolta di assorbenti per le persone detenute.

L’Italia che resiste, la notte dei miracoli.

All’Italia, una riflessione per il 25 aprile. A un’Italia che resiste.

LE PAROLE DI L

Questa non è “la notte dei miracoli” di Lucio Dalla. No, è la “notte dei diritti”.

Si manganellano studenti inermi nelle piazze, si cerca di svuotare nei contenuti il reato di tortura, si tagliano i fondi a scuole e sanità, poco ci manca, ma se sei in visita in un ospedale quasi ti cacciano via se non hai i soldi o una carta di credito “american express”, per pagarti le cure (più  o meno come avviene negli Stati Uniti). E poi, tenetevi forte, sono considerati più pericolosi i rave party che non i reati di corruzione. Si inventano nuove norme per rendere la Magistratura subalterna al potere politico con buona pace della separazione dei poteri.  Si vuole colpire con leggi pretestuose la libertà di stampa per ridurre così i giornalisti a semplici “marchette”. Nel mondo del lavoro se  sei un operaio edile sottopagato “in nero” e  non muori (perché hai cvl0) mentre svolgi la tua attività lavorativa, rimarrai comunque precario quasi per tutta la vita. Questo perché il lavoro è considerato merce. E ancora, si attaccano i diritti delle donne a cominciare da quello  sull’aborto mentre in Francia l’interruzione di gravidanza è previsto in Costituzione.  

Fosse ardeatine, visita 25/04/2024

L’Italia e la condanna del ventennio fascista

Negli ultimi anni ha prevalso la rimozione storica della  tragica esperienza del FASCISMO. Storicizzare il “ventennio” sarebbe un errore perché il fascismo le sue scorie sono come un virus che cambia continuamente sia pure con posture, “faccine”  ammiccamenti ruffiani e modalità diverse rispetto a quel periodo. Ce ne accorgiamo tutti i giorni.Sui diritti sociali, la libertà di pensiero e di opinione delle persone sembra ormai abbattersi un “vento gelido” ovunque nel mondo: con Trump negli Stati Uniti, Milei in Argentina, Orban in Ungheria, Erdogan in Turchia e con Putin in Russia per il  quale le destre estreme di mezzo mondo subiscono una perversa fascinazione.

Fosse ardeatine, visita 25/04/2024

Nel nostro Paese brandendo la fiamma tricolore della repubblica sociale, dei tempi del duce  vogliono  promuovere una riforma costituzionale “per un governo del popolo” che nei fatti rischia di diventare  un’arma impropria nelle mani di una “capa” (meglio un “capo”perché pare non gradisca la declinazione al femminile). Nessuno degli appartenenti a questa classe dirigente ha proferito una sillaba di condanna del fascismo. Abbiamo visto soltanto odiosi “siparietti” istituzionali con discorsi pronunciati con un rivolo di bava alla bocca. Per dirla con Crozza, per loro la “Resistenza” è semplicemente il “filamento della lampadina”… Le  superc4zz0le poi sul pericolo a loro dire della “sostituzione etnica” (temi tanto cari a Mussolini e Hitler) sono peggio di una manganellata.

Fosse ardeatine, visita 25/04/2024

Oggi, 25 APRILE, in moltissime piazze del Paese studenti lavoratori, lavoratrici, precari disoccupati, immigrati privi di qualsiasi diritto, senzatetto, persone detenute, quasi tutti senza prospettive concrete di lavoro… Gli ultimi e le ultime insomma, hanno detto con un gesto iconico a questo governo:“Tiè!”   Le sezioni dei partiti sono quasi tutte chiuse o non esistono più,  ma le piazze, i teatri e i concerti sono stracolmi di gente. Si riparte da qui,  proprio dalle PIAZZE. Con le armi della cultura, dell’arte e della comunicazione, perché tutto è politica.

 

È L’ ITALIA DERUBATA E COLPITA AL CUORE, PRESA A TRADIMENTO. L’ITALIA CHE SI DISPERA, L’ITALIA CHE SI INNAMORA. L’ITALIA CHE RESISTE!

Era il 1979, F. De Gregori, “W L’Italia”. Sembra ieri..                                                                                  

M49 , l’Orso 

Fosse ardeatine, visita 25/04/2024

“Quanto ne sai del ciclo mestruale?” – Le risposte degli uomini cis

“Quanto ne sai del ciclo mestruale?” è il piccolo questionario che  nasce dalla curiosità di sapere quanto conoscono gli uomini cis dell’esprienza delle mestruazioni.

Disclaimer necessario: Per questioni tecniche, abbiamo scelto una quantità minima di soggetti che ci rendiamo conto che non può  rappresentare un campione significativo. La nostra breve analisi dei dati per tanto non vuole produrre generalizzazioni di alcun tipo ma solamente riportare le risposte ottenute.

La scorsa settimana abbiamo riportato sui nostri canali Facebook e Instagram un carosello riassuntivo di alcune delle risposte ricevute. Come promesso, oggi approfondiremo qui i riscontri ottenuti dalle domande aperte:

  1. Secondo te cosa si può fare e non fare durante le mestruazioni?
  2. Quanto pensi influisca il ciclo sulla vita delle persone con utero?
  3. Se dovessi essere padre come spiegheresti a tua figlia il ciclo mestruale?

Secondo te cosa si può fare e non fare durante le mestruazioni?

Alcuni esempi

Tutto o quasi:

  • Non si può fare pipì in mare, si può fare tutto.
  • In teoria si può fare tutto.

Dipende è soggettivo:

  • Credo sia un fenomeno davvero soggettivo, conosco persone che con il ciclo non escono di casa e altre che comunque vanno ad allenarsi in piscina, dunque non saprei, non so se c’è qualche pratica che è proprio non sicura da svolgere durante il periodo delle mestruazioni.
  • Sicuramente non si può donare il sangue durante le mestruazioni in quanto ci sono già ingenti perdite di sangue. Bisogna stare attente alle variazioni drastiche di temperature, quindi fare attenzione se si va al mare per esempio o entrare in sauna. Tendenzialmente credo che le attività normali giornaliere possono essere svolte nella loro totalità.

Risposte che prevedono avere rapporti sessuali e la gravidanza:

  • Non si può (o comunque è consigliabile) non fare sport, o attività estremamente impegnative dal punto di vista fisico. Si può ovviamente fare sesso.
  • (Non si può) Rimanere incinta. Poi, da quanto dicono le pubblicità, con i tamponi ed assorbenti moderni si può fare di tutto senza rischio di perdite.
  • Si può fare tutto con le giuste accortezze e dolori permettendo. L’unica cosa che è quasi impossibile è rimanere incinta anche se c’è una piccola probabilità.
  • Sì al sesso. No, salvare una città.

Fare il bagno:

  • Sicuramente non il bagno.

Facciamo chiarezza

“Non si può donare il sangue durante le mestruazioni”.

Tra i tanti falsi miti sul ciclo mestruale, c’è quello relativo alla donazione del sangue. Dal sito dell’AVIS leggiamo infatti che «Non è formalmente prevista una sospensione dalla donazione di sangue intero durante la fase mestruale».

Tuttavia, non è sempre possibile donare il sangue durante le mestruazioni. Dipende dalle condizioni delle singole persone, non sono tanto le perdite consistenti ad essere un ostacolo, quanto i parametri ematologici e lo stato di salute del soggetto donatore. Per cui è consigliabile valutare la possibilità di donazione caso per caso.

“Non si può rimanere incinta”

Attenzione! Questo è un falso mito sul ciclo mestruale possibilmente pericoloso. Non possiamo dire che è impossibile rimanere incinta durante le mestruazioni, anche se la probabilità è comunque molto bassa. Da ISSalute riportiamo: «Gli spermatozoi possono infatti sopravvivere nelle vie genitali femminili fino ad 1 settimana dopo il rapporto, mantenendo per tutto questo tempo la capacità di fecondare l’ovulo al momento dell’ovulazione».

Quanto pensi influisca il ciclo sulla vita delle persone con utero?

Alcuni esempi

Abbastanza/Mediamente:

  • Penso che, dalle esperienze che mi sono state raccontate, i dolori, il dover stare attenti alle perdite e al cambiare gli assorbenti abbia un’influenza abbastanza importante sulla vita di chi ha un utero.
  • Penso influisca abbastanza. Già il cambiamento ormonale penso che influenzi a livello emotivo e mentale.

Poco:

  • Ma persone con utero intendete le donne? Fa un po’ ridere chiamarle “persone con utero” a meno che non si possa impiantare un utero su individui di sesso maschile. Ad ogni modo a livello fisico non credo influisca.
  • Sicuramente non è piacevole, ma per me influisce poco.

Dipende, è soggettivo:

  • Dipende dalla condizione sociale.
  • Dipende da come la vivono. Per qualcuna può essere solo un doversi prendere cura della propria igiene ecc. Per altre che magari la vivono come un tabù o qualcosa di cui vergognarsi potrebbe essere davvero complesso da gestire.
  • Lo usano per saltare educazione fisica.

Molto:

  • Influisce tanto quanto influisce la rasatura nelle persone con barba: è una rottura!
  • Beh è una bella rottura di scatole, condiziona molto nel quotidiano.

Facciamo chiarezza e riflettiamo

Sicuramente il ciclo ha una valenza importante durante la vita di una persona con utero, il grado d’intensità è però soggettivo. I fattori da considerare sono certo molteplici. Non so quanto sia possibile paragonarlo alla rasatura della barba, che pur essendo un’attività che insorge forse quantitativamente più volte nella vita di un individuo, non comporta i dolori dei crampi mestruali, i disagi degli sbalzi ormonali e le difficoltà personali legati a sedimentati tabù culturali che portano tante persone ancora oggi a non parlare del ciclo, o magari a parlarne poco, o ancora a nascondere gli assorbenti come fossero merci proibite (soprattutto in presenza di soggettività maschili).

Per quanto riguarda la riflessione sulle “condizioni sociali” di una persona con utero che si trova ad affrontare ogni mese all’insorgere delle mestruazioni, non possiamo ignorare il peso economico che una necessità fisiologica comporta. Da gennaio 2024 in Italia abbiamo visto raddoppiare l’IVA su prodotti igienici come assorbenti e pannolini. Il passaggio dal 5% al 10% rappresenta un carico significativo: «ogni anno una donna in età fertile spende in media in Italia tra i 130 e i 150 euro per gli assorbenti. Con il nuovo aumento dell’Iva, l’imposta peserà in media per 15 euro all’anno, ovvero circa 7,5 euro in più rispetto allo scorso anno, quando era al 5%». (Fonte: Quotidiano nazionale, Economia)

Riguardo alla domanda “Ma persone con utero intendete le donne?” Rispondiamo che è importante parlare di persone con utero e non di donne perché anche gli uomini trans e le persone non binarie hanno il ciclo mestruale e non tutte le donne lo hanno. L’accesso alle informazioni e ai mezzi necessari per l’igiene mestruale deve essere un diritto di tutte le persone.

Se dovessi essere padre come spiegheresti a tua figlia il ciclo mestruale?

Alcuni esempi

Non lo so/Risposte non pervenute:

  • Non sarò mai padre.
  • Credo che improvviserei, la verità è che non lo so

Con tranquillità, è una funzione fisiologica naturale:

  • Che è una cosa normale, e fa parte del ciclo naturale della vita. Per poi prenderla in giro poiché in quanto uomo il massimo di scocciatura che avrò e radermi ogni mattina.
  • Ti uscirà il sangue.
  • Penso di essere il più sincero possibile su ciò che è e sulla funzione che ha, ricordando però che essendo un uomo non posso comprendere al 100% che tipo di esperienza sia e cosa comporta.

Chiedi alla mamma/un’altra donna:

  • Lo spiegherei insieme a mia moglie, intervenendo nella discussione solo quando mia figlia me lo richiederebbe.
  • È normale, fa parte della crescita, vuoi saperne di più dici? Aspetta, caraaaaaa!
  • Preferirei che a spiegarglielo fosse un’altra donna.
  • Succederà quello che succede a tua madre.

*usiamo qui donna e non persona con utero in riferimento alle risposte date.

Spiegoni scientifici/Video/Documentazione/Ginecolog3:

  • Mi documenterei e lo farei con dolcezza e senza considerarlo un tabù.
  • La porterei da una ginecologa.
  • In modo tecnico probabilmente dicendole che se i suoi ovuli non vengono fecondati al termine di ogni ovulazione il suo corpo si libererà del materiale in eccesso. E le direi che è perfettamente normale avere piccoli dolori o mal di testa o sentirsi stanchi.
  • Con dei video.

Riflettiamo

Riguardo ai risultati emersi su quest’ultima domanda dobbiamo dire che ci aspettavamo inizialmente un numero maggiore di risposte che prevedono di scaricare un po’ o del tutto la “responsabilità genitoriale” di informare dell’imminente e inevitabile arrivo delle mestruazioni nella sua vita alla figura materna o altre figure femminili. Abbiamo notato invece che le risposte in questo senso sono state relativamente poche (10 su 50), o comunque inferiori al numero prefigurato.

Piacevole sorpresa è stata inoltre leggere le risposte che fanno emergere la volontà di informarsi in modo consapevole e di illustrare “dolcemente” cosa comporta il ciclo mestruale per le persone con utero a eventuali giovan3 figl3, accompagnando magari la propria spiegazione a quella di specialist3 del settore o di video istruttivi.

Siamo complessivamente soddisfatt3 per le risposte ricevute, per la partecipazione riscontrata e le riflessioni mosse intorno all’argomento del ciclo mestruale. Anche questa attività concorre agli obiettivi prefissati dal progetto “Assorbire il cambiamento” che prevede:

  • La campagna di raccolta assorbenti per il carcere, iniziata due anni fa, con la collaborazione di altre realtà del terzo settore romano, quest’anno prende il via sotto nuove vesti grazie al progetto “Assorbire il cambiamento”, a sua volta parte del più ampio progetto “POSTER. Pratiche oltre gli stereotipi”.
  • Laboratori e incontri all’interno di Istituti femminili per promuovere maggiore consapevolezza sulle tematiche riguardanti il ciclo mestruale e la conoscenza dei “nuovi” prodotti igienico sanitari più ecologici quali coppetta, slip e mutande assorbenti.

L’obiettivo è quello di portare un beneficio concreto alle persone recluse grazie alla donazione di materiali sanitari, di accendere l’attenzione della società, delle istituzioni e della cittadinanza sulla condizione delle donne recluse, nonché di raggiungere un cambiamento sistemico della questione affrontata.

Assorbenti per le persone detenute – sensibilizzazione e raccolta

Assorbire il cambiamento – Vivere il ciclo in carcere  

  • CAMPAGNA DI SENSIBILIZZAZIONE E INFORMAZIONE SULLE QUESTIONI RELATIVE LE MESTRUAZIONI IN CONDIZIONI RISTRETTE
  • RACCOLTA E DONAZIONE DI SLIP MESTRUALI E ASSORBENTI PER LE PERSONE DETENUTE

Nella Giornata Internazionale della Donna vogliamo condividere e rendere ufficialmente pubblico il progetto che stiamo tessendo da mesi: “Assorbire il cambiamento”. Sono importanti le ricorrenze, sì ma non ci bastano.

Nel 2024 continua a versarsi un mare di discriminazioni, abusi e violenze sui corpi e le vite delle donne. Le lotte per i diritti, per i mutamenti necessari delle pratiche e politiche egualitarie delle identità di genere tutte si scontrano con una realtà nutrita da una cultura patriarcale, maschilista e paternalistica che ha costruito nei secoli profondi solchi nell’identificare gli individui secondo un netto binarismo e caratterizzarli seguendo principi che inneggiando alla “verità naturale e biologica”  hanno finito per determinare gli squilibri di potere che ancora oggi segnano i rapporti tra gli esseri delle comunità umane internazionali. 

L’otto marzo è tutti i giorni, come il venticinque novembre, come ancora tutte le giornate nazionali e internazionali istituite per ricordare e promuovere i diritti umani. 

 

Cogliamo oggi l’opportunità per tornare a parlare di carcere al femminile. Ci siamo chiest3: come vivono il ciclo le persone recluse negli istituti penitenziari italiani?  Gli assorbenti per le persone detenute sono abbastanza? Come vengono consegnati? 

Il P.I.D. Pronto Intervento Disagio Onlus, in occasione della Giornata dell’Igiene mestruale del 28 maggio, organizza una Campagna di raccolta assorbenti per il carcere femminile  e per le persone in esecuzione penale esterna ospiti all’interno di strutture di accoglienza.

La campagna, iniziata due anni fa, con la collaborazione di altre realtà del terzo settore romano, quest’anno prende il via sotto nuove vesti grazie al progetto “Assorbire il cambiamento”, a sua volta parte del più ampio progetto “POSTER. Pratiche oltre gli stereotipi”. 

Tra le attività promosse, oltre alla donazione di assorbenti per le persone detenute, sono previsti laboratori e incontri all’interno di Istituti femminili per promuovere maggiore consapevolezza sulle tematiche riguardanti il ciclo mestruale e la conoscenza dei “nuovi” prodotti igienico sanitari più ecologici quali coppetta, slip e mutande assorbenti. 

Il progetto ha lo scopo di portare un beneficio concreto alle persone recluse grazie alla donazione di materiali sanitari, di accendere l’attenzione della società, delle istituzioni e della cittadinanza sulla condizione delle donne recluse, nonché di raggiungere un cambiamento sistemico della questione affrontata.

Le donne sono una piccola minoranza della popolazione detenuta, poco più del 4% (2.392 secondo i dati rilevati fino al 31 dicembre 2023) e si confrontano con tutte le problematiche legate al sistema penitenziario, alle quali si aggiungono specifiche questioni, accentuate dal fatto che la detenzione è pensata per un mondo al maschile che non prevede le diverse identità di genere

In carcere gli assorbenti, così come altri prodotti consentiti, possono essere acquistati attraverso il cosiddetto “sopravvitto”, una sorta di negozio interno all’Istituto Penitenziario al quale possono accedere solo coloro che hanno soldi sul conto corrente interno. Chi non ha possibilità economica e di conseguenza non può acquistare, deve adeguarsi alla fornitura dell’Amministrazione Penitenziaria che, se non trascura questo aspetto, non riesce a garantire la scelta di un modello, di una marca o le quantità necessarie di assorbenti in base alle singole esigenze.

 

La raccolta di assorbenti per le persone detenute comincia venerdì 8 marzo 2024 e si conclude giovedì 23 maggio 2024:

  • si possono donare assorbenti classici di qualsiasi marca e modello e gli slip assorbenti, mentre i tamponi in carcere non possono entrare. 

I materiali donati possono essere consegnati presso i seguenti punti di raccolta nei giorni e negli orari indicati:

  • Casa delle donne Lucha Y Siesta: Via Lucio Sesto, 10 – Mercoledì dalle 11:00 alle 13:00, dalle 16:00 alle 17:00 e Giovedì dalle 12:00 alle 13:30.
  • Associazione Libellula: Viale Giustiniano Imperatore 280/A – Lunedì dalle 15:30 alle 18:30.
  • L’Archivio 14: Via Lariana, 14 – Mercoledì e Venerdì dalle 10:00 alle 13:00 e dalle 17:00 alle 19:00, Giovedì dalle 17:00 alle 19:00.

Se non si ha la possibilità di recarsi in uno dei precedenti punti di raccolta, i materiali possono essere spediti alla Sede legale della Cooperativa PID Onlus, all’indirizzo: Via Eugenio Torelli Viollier, 109 – 00157 Roma

 

Continua a seguire gli aggiornamenti sui nostri canali social per saperne di più sulle questioni relative le mestruazioni in carcere, i tabù del ciclo e la raccolta di assorbenti per le persone detenute.

Carcere e omofobia

Carcere e omofobia, maternità surrogata e tutte le ipocrisie (o solo alcune) del mondo contemporaneo. Le tematiche che attraversano ogni giorno le strade e le case del globo incontrano e travolgono la società nascosta, la parte che si dimentica, a cui non si pensa.
L, come un lucido osservatore delle realtà socio-culturali che attraversano la quotidianità, ci racconta un carcere non molto lontano dalle nostre città. Non molto distante dalle idee e dalle narrazioni in cui si impigliano quei tanti modi di essere umani tra umani. E così, anche oggi, L ci dice la sua mettendo nero su bianco le sue riflessioni e consegnandole allo spazio di condivisione del blog.

“E si farà l’amore ognuno come gli va”

Lucio Dalla

LE PAROLE DI L

Non ho altre parole e non voglio trovarne. So che attirerò gli strali di alcuni detenuti (non la maggioranza per fortuna) ma è giusto dover dire che una certa “fascinazione” per l’ uomo forte gerarchicamente posizionato è molto presente in carcere e quindi soltanto sollevare certe questioni, tra queste quella dell’omofobia, è come cercare di abbattere “muri mentali” assolutamente difficili da rimuovere. Parliamo di pregiudizi e stereotipi costruiti nel tempo, a cominciare dai disgustosi commenti sul “cromatismo della pelle”, ma di questo parleremo un’altra volta. Si fatica a capire fuori di qui e “qui dentro” che a dover prevalere è la libera scelta delle persone. È questo il vero discrimine etico. Invece con giudizi talora spregevoli finiamo per rinchiudere in cella non soltanto i nostri corpi, ma la nostra mente e le nostre parole. 

“Le parole sono importanti” direbbe Nanni Moretti, invece sono anch’esse prigioniere entro categorie. Non capiamo che ci sono coppie omogenitoriali che vivono con bambini felicissimi e ignoriamo l’esistenza molto diffusa delle cosiddette “famiglie atipiche” in cui le relazioni contano più dei ruoli tradizionali. A prevalere in questi casi è la genitorialità. Si può essere madri o padri anche con figli concepiti da altri perché i figli sono anche di chi li cresce e non sempre di chi li concepisce. Basta con certi precetti morali! Per screditare le famiglie omogenitoriali si usa anche in modo strumentale la questione della maternità surrogata,  enfatizzata e volgarizzata come “utero in affitto” omettendo di dire che nel novanta per cento dei casi questa pratica riguarda famiglie eterosessuali

 

Il mantra “Dio Patria e Famiglia” è in crisi. Le nuove generazioni lo sanno. A non capirlo sono i moralisti d’accatto che si ergono a difensori della famiglia tradizionale patriarcale e finiscono poi nella loro vita privata a vivere di tradimenti, di bugie e di ipocrisie quando va bene e, quando va male, si voltano dall’altra parte se tradimenti e bugie finiscono in tragedie in cui a pagare con la vita sono le donne.

Orso M49 

I 25 anni del PID Onlus

La Cooperativa PID Onlus – Pronto Intervento Disagio – lavora per l’inclusione sociale di persone svantaggiate – detenuti, ex detenuti, donne, minori, migranti e adulti in difficoltà – e per il recupero alla legalità di soggetti a rischio, attraverso progetti volti all’autonomia dell’individuo, alla tutela dei diritti, all’uguaglianza, alla legalità, all’integrazione e alla cittadinanza attiva.

 

In occasione del venticinquesimo anno della nostra storia – iniziata il 27 novembre del 1998 – abbiamo deciso di condividere insieme a voi la passione e l’amore che caratterizzano il nostro lavoro quotidiano. Vi invitiamo sabato 2 dicembre 2023 a un brunch durante il quale, attraverso una serie di tappe, potrete conoscere meglio i progetti più e meno recenti, sviluppati in carcere o nelle strutture di accoglienza per persone detenute che scontano parte della loro pena in misura alternativa. 

L’evento si terrà sabato 2 dicembre 2023 dalle ore 11:00 alle ore 17:00 a L’Archivio 14 – Via Lariana,14 RM. Riserva il tuo posto inviando una mail di conferma all’indirizzo pidonlus@gmail.com 

All’entrata vi sarà richiesto un contributo minimo di 15 € grazie al quale ci aiuterete a sostenere e promuovere le nostre iniziative, allo stesso tempo ci permetterete di condividere con voi un gustoso pasto a buffet, percorrendo le tappe del percorso che abbiamo pensato per voi.

Mostra e laboratorio di arteterapia

L’arteterapia è una forma di approccio alla persona che utilizza il canale non verbale mediato da diversi strumenti artistici, per raggiungere diversi obiettivi cognitivi, emotivi e sociali e per supportare lo sviluppo positivo degli individui.

ll progetto è stato pensato e costruito per  persone ristrette all’interno della 3° Casa Circondariale Roma Rebibbia da Monica Giaquinto, psicologa e arteterapeuta del team PID. 

Durante l’evento sarà possibile vedere le opere prodotte durante i laboratori e Monica organizzerà con voi un piccolo laboratorio per farvi avvicinare all’arteterapia; la partecipazione è volontaria e prenotabile all’entrata. 

L’angolo dei gadget

I nostri gadget nascono tutti da progetti interni ed esterni alle mura dei penitenziari in cui abbiamo lavorato, nascono dalle riflessioni e dalla creatività delle persone ristrette a cui il nostro costante impegno è rivolto. 

Sarà possibile acquistare i gadget per sostenere le attività della Cooperativa PID.

La creatività di un prigioniero

Mostra delle opere di un artista recluso. Come l’arte e la creatività riescono ad abbattere i muri.

Sarà possibile  ammirare ed acquistare le opere presenti.

Aiutare chi ha sbagliato non è peccato

Sostenere PID Onlus vuol dire contribuire allo sviluppo di attività, servizi e progetti a favore di persone in difficoltà nel cammino verso l’integrazione e l’inclusione.

Grazie al vostro impegno, ci permetterete di pianificare meglio le nostre azioni, garantendo maggior continuità ed efficacia ai nostri progetti. 

Nel caso in cui non riusciate a essere presenti all’evento ma volete donare un contributo alla Cooperativa, sul nostro sito (www.pidonlus.it) troverete tutte le informazioni necessarie per farlo.

QUI PER SCOPRIRE COME SOSTENERCI

Inoltre, sulle nostre pagine social di Facebook e Instagram potrete seguire i percorsi e le iniziative elaborate per le persone ristrette o che scontano la loro pena in misura alternativa, avendo accesso diretto alle loro riflessioni scritte sul blog “Passo dopo Passo” attivo da febbraio 2023. 

 

Dossier Statistico Immigrazione 2023

ALESSIA

Ieri mattina si è tenuta la presentazione della trentatreesima edizione del Dossier Statistico Immigrazione nel Nuovo Teatro Orione di Roma. Il Dossier Statistico Immigrazione 2023 è il frutto del lavoro meticoloso svolto da IDOS in collaborazione con la rivista Confronti e l’Istituto di Studi Politici Pio V volto a fotografare la situazione dei migranti in Italia. A coordinare i lavori sono stati Claudio Paravati, direttore del Centro Studi Confronti e Maria Paola Nanni, Centro Studi e Ricerche IDOS.

 

Come lo scorso anno, l’incontro delle parole di un’umanità che si stringe stretta attorno alla sua causa ha rilasciato nell’ambiente come un alone di fiducia, un senso quasi di speranza

Fiducia e speranza per un futuro diverso, per un mondo che ci sembra oggi quasi utopistico a causa del sempre maggior radicalizzarsi di una violenza generalizzata e strutturale che tende all’emarginazione e la reclusione dei migranti e di tutte le diversità non riconosciute o definite nelle categorizzazioni più volgari e simbolicamente veicolanti di insipidi pregiudizi. In un periodo storico in cui, come ha ben affermato Alessandra Trotta (moderatora della Tavola Valdese) “gli ideali più alti” sembrano essere stati calpestati e ormai irraggiungibili; il lavoro svolto da IDOS, Confronti e l’Istituto di Studi Politici Pio V è fondamentale in quanto oltre ai numeri e ai dati, o meglio, dietro ai numeri e ai dati, ci sono le persone reali. 

 

Un incontro denso sulla contemporaneità raccontata dal Dossier Statistico Immigrazione 2023 che ha visto il teatro riempirsi dell’unione di attivismo, esperienza, accademia e politica per ragionare su l’attenta fotografia dell’attuale tragicità che vivono i migranti in Italia. Un problema, quello che riguarda i migranti che riguarda noi tutti e tutte, come ha sostenuto Gianfranco Schiavone, socio Asgi (Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione) in riferimento alle recenti proposte concernenti la reclusione nei Centri di Permanenza per i Rimpatri (CPR): «Scivoliamo sempre di più verso misure potenti che sono la privazione della libertà per una condizione di una persona, non per la condotta!».

 

Quale società si configura? Si configura la società voluta dalla Costituzione?

 

Schiavone ricorda la Convenzione di Ginevra per cui non si possono applicare sanzioni penali a persone che entrano seppur “illegalmente” in un paese se per ragioni di sicurezza. Questo sembra un’affermazione ovvia ma è in realtà tutto ciò che viene messo in discussione oggi. L’atteggiamento politico e istituzionale nei confronti dei migranti e il conseguente sentimento ostativo della popolazione autoctona in generale può esser considerato il frutto di una distorsione, una narrazione errata sul concetto stesso del “cercare asilo”, molto spesso identificato con la sfera morale: una condotta sbagliata.

Il lento e devastante tessere di una rete di regolamenti e procedure, per il fine di arginare il “problema di fondo” (proteggere la sicurezza interna?) ha generato l’assurda condizione per cui si tentano di trovare tutti i modi possibili per rendere le richieste di asilo inaccessibili. Così, si potrebbe dire con le parole di Maria Paola Nanni (IDOS), assistiamo a un sempre maggiore “assottigliamento della linea tra accoglienza e trattenimento”. 

Cosa pretendiamo di capire da chi scappa dalla propria casa per salvare la propria vita? Quale prova tangibile vogliamo cercare della loro condizione a rischio? Un “certificato di persecuzione”? (Schiavone)

 

Ad introdurre la presentazione, le parole di Luca Di Sciullo (presidente del Centro Studi e Ricerche IDOS) che ha parlato della prospettiva securitaria performante delle legislazioni che normano la migrazione in Italia e in Europa, la quale da almeno cinquant’anni ha condotto alla triste e più che mai contemporanea realtà costituita da razzismo istituzionalizzato e pratiche di esclusione delle persone che migrano. 

 

«Ciò che mette davvero a repentaglio la sicurezza nazionale non sono i profughi che arrivano ai confini, ma è il trattamento disumano che, per legge, riserviamo loro in modo sistematico in tutti gli ambiti più fondamentali della vita, disconoscendone i diritti basilari e rendendo proibitiva la realizzazione dignitosa della loro persona».

 

Di Sciullo ha parlato di una doppia trasformazione antropologica che si è progressivamente messa in atto in questi anni: dal richiamo della violenza per perseguire “l’unità del branco” attraverso le dialettiche nazionalistiche, alla “cosificazione dei migranti” sui quali, per mezzo degli schermi proiettiamo i nostri sentimenti di oppressione ed esasperazione. Si potrebbe definire un razzismo 2.0, ha illustrato ancora il presidente: un razzismo che prevede la deumanizzazione del migrante il quale approda a “cosa”.

 

Condivisione civica, speranza, diritti: sono una necessità contemporanea. Luca Casarini (capo missione della nave Mare Jonio di Mediterranea Saving Humans) ha tenuto a sottolineare, parafrasando Hannah Arendt, che la democrazia non è mai sicura, va conquistata ogni giorno. E raccontando delle esperienze di salvataggio che porta avanti in mare – un mare che è nostro amico, tristemente trasformato dalle politiche nel mausoleo che è oggi – Casarini ha dato voce ad una “grande verità” secondo il mio parere poco considerata nel marasma dei discorsi sui migranti: «Noi li soccorriamo ma sono loro a salvarci dal precipitare del mondo che vedete proiettato nelle televisioni, quello lì è il loro mondo noi ne vogliamo costruire uno diverso».

 

Anche se brevemente e non in modo completo, ho tenuto a dedicare questo spazio alle parole e alle riflessioni aperte ieri dall’incontro della presentazione del Dossier Statistico Immigrazione 2023, in quanto sostengo siano state dense di significato e sia importante riportare alcune delle considerazioni emerse, così da poter tentare davvero di ripensare insieme un mondo diverso

Se ti interessa saperne di più vai al link www.dossierimmigrazione.it e facci sapere cosa ne pensi!

 

Nei prossimi articoli, utilizzeremo questa fonte fondamentale del Dossier per affrontare il discorso della percezione comune della persona migrante come criminale e della condizione reale delle persone straniere nelle carceri italiane

Per concludere, come di fatto ieri ha concluso Paolo De Nardis, presidente dell’Istituto di Studi Politici S. Pio V: «Oggi sono stati citati i numeri della migrazione, ma senza mai perdere di vista il filo rosso dell’urlo di battaglia di queste persone coraggiose, a dimostrazione che non è solo importante l’io ma anche il noi. Le nostre esistenze devono essere rivedute nello specchio del sé, perché l’alterità è una cosa bella, non solo da studiare ma anche da vivere».

La giustizia di classe

La giustizia di classe, secondo il nostro ricercatore spossato: L commenta la perplessità dell’esecutivo riguardo il recente provvedimento della Giudice di Catania. Le sue riflessioni principiano spesso dal profondo desiderio di non restare fuori dal mondo, di condividere il proprio punto di vista e dimostrare, un po’ a se stesso, ma soprattutto alle altre persone,  che la detenzione non deve necessariamente rappresentare una “chiusura” nei confronti di quel che accade all’interno della società per intero e di tutto quello che non riguarda in modo diretto l’universo totalizzante della reclusione e della pena.
LA GIUSTIZIA DI CLASSE SECONDO L

Vorremmo tanto che qualcuno spiegasse alla “nostra” basita (sic) Presidentessa, ma non chiamatela la “Presidentessa” altrimenti s’inca**a… (a tal punto da fare gioire Crozza che la “parodizza” in modo impareggiabile) vorremmo, dicevamo, che fosse a conoscenza che Montesquieu non era l’allenatore di una squadra di calcio francese, il Paris Saint. Germain o il Marseille ma il teorico della separazione dei poteri: quello esecutivo, legislativo e quello, se ne faccia una ragione, giudiziario. Non le hanno detto che anche chi ha il mandato popolare deve conformarsi alla Costituzione (Articolo 10) ed alle norme di diritto Internazionale

Lo straniero al quale sia impedito nel suo Paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica secondo le condizioni stabilita dalla Legge”.  

La vicenda è quella che riguarda la Giudice di Catania Dott.ssa Iolanda Apostolico che con un coraggioso provvedimento ha ritenuto illegittimo sostenere che la provenienza dalla Tunisia (Paese sicuro e democratico in realtà soltanto a parole) di alcuni poveri disperati possa essere una motivazione valida per il “fermo” e la detenzione degli stessi.

 

Verissimo, atteso che i “fermi” dovrebbero considerare la “posizione” degli esseri umani e non il Paese da cui provengono. Sui social già imperversa lo “squadrismo digitale” infarcito di apprezzamenti d’ogni sorta nei confronti della dottoressa Apostolico. 

Quelle della Giudice Iolanda Apostolico sono valutazioni giuridiche e non politiche.

Il fermo di Polizia disposto dal Questore sulla base di un  provvedimento incostituzionale del Governo doveva essere annullato. 

È tutto surreale, sembra di essere tornati ai tempi del Berlusca… ricordate? 

È un déjà-vu.

 

Il Cavaliere sì, proprio quello che aveva nella sua villa assunto come “giardiniere” uno stragista latitante e che con noncuranza urlava attraverso i “servi sciocchi” delle sue tv contro la magistratura milanese indicandola vergognosamente come “un’associazione a delinquere”, “un cancro da estirpare…” usando come corpo contundente, un giorno sì e l’altro pure vergognose leggi classiste ad personam partorite dal suo Esecutivo, ma pensa un po’ proprio lui … parce sepulto. 

La nuova Presidente qualche decennio dopo con toni più “rozzi” ha rispolverato lo stesso copione, lo stesso armamentario con esternazioni che sono una topica colossale.

 

Queste vicende riguardano tutti, anche noi detenuti appartenenti con modalità diverse alla categoria degli ULTIMI. Dobbiamo solidarizzare con gli altri detenuti, peraltro senza titolo, rinchiusi nei centri di detenzione. Bambini, donne, uomini con la sola colpa di aver cercato, disperatamente (con un’improbabile fuga verso la libertà), una vita dignitosa. 

Questo è il Belpaese della “bulimia normativa” delle improbabili “decretazioni d’urgenza” rovesciate poi sui social per carezzare gli istinti più bassi e feroci della gente. Politici che non creano il consenso con argomentazioni degne, semplicemente lo inseguono correndo dietro ai sondaggi.

Questo è “ il Belpaese “ dove si abolisce l’abuso d’ufficio, si vogliono inasprire le pene per il piccolo spaccio praticato da ragazzi che se non “recuperati”, una volta in carcere, finirebbero con il perfezionare ed approfondire le proprie abilità criminali.

Quando poi si deve perseguire la grande evasione fiscale con ridicole flatulenze verbali condite da ridicole giustificazioni, annunci e bla bla bla, si ricorre con sprezzo del ridicolo ai condoni.

 

È la giustizia di classe, bellezza.

 

L’ORSO-M49

 

Aborto libero e sicuro: my body my choice

«Mi dispiace essere la prima donna a intervenire, ma la quarta a intervenire. Qui si sta parlando di un problema che riguarda principalmente le donne e, come al solito, il dibattito prende avvio da due uomini… Io mi auguro che stasera ognuno di noi dimentichi che l’aborto non è un gioco politico. Che a restare incinte siamo noi donne, che a partorire siamo noi donne, che a morire partorendo o abortendo siamo noi. E che la scelta tocca dunque a noi. A noi donne. E dobbiamo essere noi donne a prenderla, di volta in volta, di caso in caso, che a voi piaccia o meno. Tanto se non vi piace, siamo lo stesso noi a decidere. Lo abbiamo fatto per millenni. Abbiamo sfidato per millenni le vostre prediche, il vostro inferno, le vostre galere. Le sfideremo ancora.»

ALESSIA

Era il 1976, Oriana Fallaci rendeva la sua posizione nel dibattito sull’aborto in una puntata di “AZ: un fatto, come e perché”; due anni dopo in Italia viene introdotta la legge 194. Una legge indubbiamente ambigua e ampiamente discussa ma della quale dobbiamo necessariamente riconoscere l’importanza per l’introduzione della libertà di scegliere sull’interruzione di gravidanza. Una libertà che come tutte le altre va rivendicata con forza ogni giorno, dal momento in cui sembra tristemente non essere scontata. L’ambiguità e la poca concretezza della legge 194 si palesa sul piano del quotidiano, nei racconti delle donne che hanno dovuto subire gli atteggiamenti pregiudiziali degli obiettori di coscienza, vittime di un sistema culturale che non “concede” alle persone la libertà di scelta sul proprio corpo e sulla propria vita ogni volta che pronuncia “il mito” dell’istinto materno.

 

«L’attuale legge 194 non garantisce un vero diritto all’aborto ma lo consente in determinati e specifici casi. Ha avuto il merito di arginare la piaga dell’aborto clandestino ma non ha in alcun modo garantito l’autonomo diritto di scelta. Noi chiediamo un autonomo diritto di scelta e autodeterminazione, per far sì che la libertà riproduttiva non incontri più ostacoli morali e amministrativi e possa essere liberamente accessibile per chiunque decida di interrompere una gravidanza.» 

 

La campagna “Libera di abortire” nasce il 20 maggio 2021 al fine di abbattere ogni tipo di ostacolo riguardo l’esperienza personalissima di scegliere di mettere al mondo un essere umano. Una scelta appunto così personale che oltre a dover essere garantita, direi anche che non può e non deve essere giudicata da nessunissima persona. Ad esempio io non vorrei mai sentire parole come “purtroppo l’aborto è una delle libertà delle donne” o cose simili, ma purtroppo le sentiamo tutte e tutti noi.

 

In una classe di quinto liceo, qualche anno fa, una professoressa di religione ha proiettato sul muro un video che sicuramente con la materia religiosa, almeno in termini di storia delle religioni, non aveva niente a che vedere: la vita di un embrione nel ventre della donna, insomma dalla formazione dello zigote in poi. Sarebbe potuta sembrare più una lezione di scienze che di religione. Questo almeno fino a quando la professoressa non ha bloccato il video al “primo trimestre” di gravidanza, più o meno il limite di tempo entro il quale una persona può scegliere di abortire. 

 

«Oggi in Italia la donna può richiedere l’interruzione volontaria di gravidanza entro i primi 90 giorni di gestazione per motivi di salute, economici, sociali o familiari.» 

Alla luce delle informazioni del video circa lo sviluppo del feto durante il primo semestre di gravidanza – si forma il sacco amniotico e la placenta; inizia il processo di generazione degli organi e a comparire gli arti – la professoressa ha chiesto alle sue studentesse se, dal momento che il feto aveva già un cuore, due braccia e due gambe, l’aborto potesse essere considerato un omicidio. 

Non molto appropriato come metodo di apertura di un dibattito su una questione così intima, come l’interruzione volontaria di gravidanza. Non solo possono esserci milioni di motivi differenti rispetto alla decisione di una persona di non dare al mondo un essere umano, ci sono almeno altrettanti atteggiamenti con cui si attraversa un’esperienza di questo tipo. Dietro ogni scelta c’è il volere di una persona, i suoi sentimenti al riguardo e le sue uniche e incontestabili ragioni: nessuno ha il diritto di accusare, sottostimare o stigmatizzare le donne che abortiscono liberamente, avendo pieno controllo sul proprio corpo e la propria vita.

Morire di lavoro

LE PAROLE DI L

Il paradosso di questi anni è che si debba constatare la morte violenta di chi lavora “per campare” e che ci si stia abituando a queste tragedie. Il lavoratore non è più garantito ed è visto semplicemente come una sorta di mezzo di produzione. Per dirla in breve non si vive più per lavorare ma si muore di lavoro. Il “liberismo feroce” di questi anni, quello del “digrignar di denti” di certe oligarchie finanziarie sostenitrici della produttività ad ogni costo, il laissez-faire hanno portato a questo. Cosa dovremmo fare imbavagliarci e stare zitti? Fare finta di nulla di fronte a queste stragi? 

 

È avvilente questo politicamente “corretto” dei nostri leader intriso di demagogia, ogni volta che muore un lavoratore. Dippiù: provoca conati di vomito. 

Sono gli stessi politici che hanno tolto il reddito di cittadinanza a quei lavoratori (in nero) che percepivano 3 euro l’ora. Non si era mai vista, come negli ultimi anni, un’inclinazione così feroce alla produttività ad ogni costo, con buona pace dell’Articolo 36 della Costituzione

 

 «Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa. La durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge. Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi.»

 

Questi fatti vorrebbero che si desse esecuzione a provvedimenti di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori. Li faranno? Lo vorrei tanto.

 

Ci ostiniamo a credere che “un altro mondo sia possibile”. Proprio come quelli che urlavano, che manifestavano al G8 di Genova. (2001) Un altro mondo dev’essere possibile! L’Italia “derubata e colpita al cuore” quella che con grande intuizione aveva denunciato e previsto De Gregori non è il paese che vogliamo per le future generazioni

 

M49

È vietata la tortura: il XIX Rapporto di Antigone sulle condizioni di detenzione

ALESSIA

Ogni anno l’associazione Antigone raccoglie il frutto del suo prezioso lavoro nel Rapporto sulle condizioni di detenzione che delinea la situazione delle persone ristrette nelle Carceri d’Italia e apre a più ampie considerazioni e riflessioni sulle tematiche che maggiormente incidono sulla vita di chi sta dentro. Il diciannovesimo Rapporto di Antigone, come si evince dall’imperativo che fa da titolo “è vietata la tortura” reca tra gli approfondimenti il focus sul reato di tortura, la quale esistenza è stata recentemente messa in discussione. 

 

«Chiunque, con violenze o minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà, cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza, ovvero che si trovi in condizioni di minorata difesa, è punito con la pena della reclusione da quattro a dieci anni se il fatto è commesso mediante più condotte ovvero se comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona». 

 

Con l’articolo 613 bis è stato introdotto nel codice penale italiano il reato di tortura. Così, dal 14 luglio 2017 l’associazione Antigone ha ricevuto numerose denunce da parte di persone detenute che hanno dichiarato di essere state vittime di azioni di violenza.  

Come riportato nel Rapporto di Antigone, prima di questa data, il nostro ordinamento non contemplava neanche la parola “tortura”, per l’utilizzo della quale l’associazione stessa si è battuta a lungo: non possiamo chiamarle botte, percosse o minacce, è tortura. Tortura che per definizione dell’attuale codice penale consiste in tutta quella serie di azioni che producono una profonda sofferenza fisica e/o psichica alle persone già prive della propria libertà. Dunque violenze di ogni genere, intimidazioni continue e durature nel tempo considerate – a buon ragione – fattori di degrado per la dignità della persona che le subisce. 

 

Di fronte alle Nazioni Unite, nel 2010 “al vaglio dello Human Rights Council” l’Italia si opponeva all’istituzione del reato di tortura per quelle stesse motivazioni che alcuni oggi tentano ancora di proporre: «la legislazione italiana ha disposto misure sanzionatorie a fronte di tutte le condotte che possono ricadere nella definizione di tortura (…). Pertanto, la tortura è punita anche se essa non costituisce un particolare tipo di reato ai sensi del codice penale italiano». Solo due anni più tardi, è stata la mano di un giudice a riaprire la ferita. 

 

Nel 2012, durante un processo seguito dall’associazione Antigone due persone ristrette nel carcere di Asti denunciavano di essere stati vittime di gravi atti di tortura. 

«I fatti avrebbero potuto agevolmente qualificarsi come tortura (ma) in Italia non è prevista alcuna fattispecie penale che punisca coloro che pongono in essere comportamenti che (universalmente) costituiscono il concetto di tortura». Quel “ma” ha un peso così importante. Pesa ancora oggi, se si pensa a tutte quelle persone che prima del 2017 non avevano alcun potere di fronte alle azioni di violenza prolungate nel tempo dai propri carnefici i quali gesti, seppure accusati, non sarebbero stati riconosciuti dalla legge come atti di tortura. Quelle azioni di tormento, ad oggi penalmente punibili, potrebbero tornare ad essere “legittimate” perché, qualcuno ha detto, la legge sul reato di tortura impedirebbe agli agenti di fare il loro mestiere… quello di infliggere supplizi?

La sentenza del 2012 e le parole del giudice hanno inevitabilmente fatto luce sulla mancanza di strumenti giuridici per rispondere alla tortura e ha richiamato l’attenzione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, grazie al cui necessario intervento dopo cinque anni è stato introdotto l’articolo di cui sopra.  

 

«Un testo non perfetto, ma che permette oggi di pronunciare quella parola nelle aule di tribunale. Tornare indietro non si può, come fortemente abbiamo voluto sottolineare con il titolo del presente Rapporto» – c’è scritto nel Rapporto di Antigone.

Non si può tornare indietro, sarebbe contro ogni principio e senso di umanità, ingiustamente scorretto nei confronti delle persone che nonostante siano recluse per aver commesso reati, restano persone appunto.

D’altronde, concordiamo con  Zerocalcare: i principi non vanno a simpatia.

 

Un borghese piccolo piccolo

Il seguente articolo, redatto dal nostro ricercatore spossato, famelico e instancabile sognatore di un mondo senza pregiudizi e diseguaglianze, ruota attorno al tema del giovane borghese: dal titolo di un film degli ultimi anni Settanta, diretto da Mario Monicelli e tratto dall’omonimo romanzo di Vincenzo Cerami. Il film sembra rappresentare una resa incondizionata alla trasformazione della società, riflessa nella figura del Vivaldi. 
Monicelli, secondo il critico cinematografico Gian Piero Brunetta intende affermare l’«irrappresentabilità degli italiani, per perdita irreversibile di tutti i caratteri positivi».
LE PAROLE DI L

“Pensa a te Mario, pensa solo a te figlio mio. Per noi gli altri non esistono. L’ha detto uno che c’aveva due palle così”. 

Sono parole di Alberto Sordi in veste di Giovanni Vivaldi che parlava a suo figlio. Un grandissimo ed indimenticabile film del 1977. Quel personaggio, Giovanni Vivaldi è attualissimo, ci riporta al “familismo patologico” di un certo recente populismo. Un “familismo” che nel suo involucro populista non cura le ingiustizie sociali, ma le amplifica rischiando di farle “esplodere”. 

 

È successo 100 anni fa in Italia e negli anni ‘30 in Germania. C’è una preoccupante onda che si sta estendendo in tutta Europa. Non c’è “chiave” di lettura migliore per interpretare quanto si sta verificando. 

 

Negli ultimi decenni c’è stata una globalizzazione distorta dai mercati internazionali che ha finito con l’aumentare dei conflitti sociali creando nella “piccola borghesia”, nei giovani “Vivaldi” ansie e paure su temi sociali, economici e identitari.

 

Il giovane “Vivaldi” del XXI secolo di memoria “sordiana” chiede certezze, leader dalla postura feroce. Accetta e sostiene, ma non lo sa ancora, la retorica e la demagogia che gli viene malignamente inculcata.

“Il borghese piccolo piccolo” vive nel familismo più feroce, vede nella “difesa etnica” dei confini, dei muri e di quelli ideologici qualcosa di “salvifico”.

 

Il giovane “Vivaldi” del XXI secolo disprezza gli ultimi, gli emarginati, i profughi, i diversi, gli omosessuali. Vede in essi la causa del suo malessere. Quando il “borghese piccolo piccolo” non crede più a niente, ecco che finisce di credere a tutto. Anche a queste oscenità, a questi luoghi comuni. 

 

“Ma noi dobbiamo vivere e sopravvivere senza perderci d’animo mai!” –  sono d’accordo con te, Vasco. 

M49 (L’orso)