Cooperativa sociale che offre servizi di ascolto, orientamento, formazione, accoglienza rivolti a detenuti/e, ex detenuti/e e persone che vivono in condizione di disagio sociale.

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Nuova fase di contrazione della criminalità?

La realtà dei numeri e la narrativa della sicurezza

Alessia

I numeri intorno alla criminalità in Italia sono stati raccolti nell’apposita sezione dell’ultimo rapporto di Antigone: Senza respiro (disponibile qui).

 

Leggere numeri e statistiche, prenderli a baluardo dei discorsi e delle riflessioni che sostengo, di solito non mi piace. La parzialità dei numeri e la pretesa di assolutezza della verità scientifica credo che spesso non riesca a rappresentare le moltitudini della realtà che si vive. Certo, i numeri ci dicono sempre qualcosa, questo non è negato. E mentre leggo il XXI Rapporto di Antigone sulle condizioni di detenzione, mi richiama la voce “criminalità”.

 

Prima di arrivare ai numeri, penso a come mi ci approccio. E penso alle persone che entrano effettivamente in carcere. Non posso non pensarci, soprattutto perché in questi giorni è stato approvato un decreto che criminalizza la povertà, il dissenso, la protesta pacifica, la voce e i pensieri delle persone e che legittima (più di prima) la violenza istituzionale; nonché privilegia uno stato di polizia. Tutto questo conta mentre apro l’approfondimento di Antigone sulla criminalità: i numeri smonteranno gli allarmismi e il clima di urgenza alla sicurezza, penso. Mi ricordo infatti di Chi va in carcere:

Il 29 gennaio 2025, S.R. ha scelto la morte nel carcere di Vigevano. Era un dipendente dell’ATM di Milano. Come riportato da Fanpage.it era stato arrestato per una rapina di 55 euro commessa nel gennaio 2020. Nonostante avesse un lavoro stabile, S.R. aveva problemi di alcolismo e soffriva di ludopatia: le condizioni che lo avevano portato a compiere il reato. Dopo l’arresto nel dicembre 2024, il suo avvocato aveva richiesto misure alternative alla detenzione, evidenziando il grave stato depressivo del cliente e precedenti tentativi di autolesionismo.

La richiesta però non è stata accolta dal magistrato di sorveglianza che ha rigettato l’istanza, ritenendo necessario attendere ulteriori valutazioni mediche. Poco dopo aver ricevuto una comunicazione dall’azienda circa un possibile licenziamento, il gesto estremo.

 

Criminalità pure è un termine critico, banalizzato e romanticizzato da mezzi artistici pregni di fetish sulla “devianza” (qualcuno l’ha chiamata pornografia della violenza) e studiato, spulciato, messo in caselle, dissezionato; un termine utilizzato come spauracchio e rivendicato come un nemico invisibile di un ordine sociale consolidato attraverso la repressione. Insomma,  se guardo alla criminalità mi vengono in mente le recenti suggestioni di Francesca Cerbini sui diversi “eventi (ad esempio guerre e genocidi), luoghi (ad esempio le sale giochi), leggi (ad esempio la Legge Bossi-Fini o DDL sicurezza 1660)” che possono ledere le persone e la comunità: questi fatti e simili non incorrono in nessuna conseguenza di pena. L’arbitrarietà con cui si identifica un crimine mi fa interrogare sulla stessa esistenza del crimine come “atto intrinsecamente criminale”. 

 

Un’analisi più approfondita dei primi semestri del quinquennio 2019-2024 mostra che nel primo semestre del 2019, le denunce avevano raggiunto quota 1.149.414. Confrontando questo dato con quello del primo semestre del 2024, si evidenzia una diminuzione, con 1.121.866 denunce. Questo calo non è solo significativo rispetto all’inizio del periodo analizzato, ma si manifesta anche rispetto al primo semestre dell’anno precedente (2023), quando le denunce si erano attestate a 1.134.766. Questi dati semestrali suggeriscono una possibile nuova fase di contrazione della criminalità, almeno nella prima parte degli anni più recenti. – Criminalità, rapporto Antigone 2025

 

Si confermano come reati più frequenti in Italia, quelli della categoria “contro il patrimonio”, a seguire quelli “contro la persona” e infine quelli “in materia di stupefacenti“. Questi numeri dicono, come esplicita la stessa Antigone, che il nostro sistema penale e “di giustizia” favorisce l’incarcerazione per reati non violenti. Di nuovo, guardiamo alla serie dei neonati reati: riguardo il carcere in particolare ne ha parlato anche Nello Trocchia. Introdurre il reato di resistenza pacifica in carcere significa che – spiega il giornalista  – quando le persone detenute non hanno garantiti i diritti fondamentali (mettiamo del cibo sano, buono, sufficiente) e decidono di mettere in atto una protesta per rivendicarli (ad esempio, la battitura) possono incorrere in reato. Quindi più anni di galera.

Galera che come sappiamo è al collasso. I numeri della detenzione raccolti da Antigone sono drammaticamente importanti anche in questo senso.

 

Cosa mi dicono i numeri su una complessiva criminalità “stabile” e tendente a una decrescita, antecedenti l’aumento dei reati in nome della sicurezza? 

Dicono che c’è un evidente paradosso teorico,certo strategico: aumentare le pene per legittimare la repressione delle marginalità e l’uso della forza fisica da parte dello stato in nome di un’emergenza criminalità che inizia a esistere proprio nel momento in cui il DDL 1660 è stato approvato.

Questi numeri dicono che i prossimi potrebbero salire: non a causa dell’aumento del crimine, piuttosto in conseguenza all’aumento della criminalizzazione. 

Giornata mondiale dell’igiene mestruale

Conclusione della campagna di raccolta assorbenti per le persone detenute

ALESSIA

Giornata mondiale dell’igiene mestruale, oggi 28 maggio 2025.

Il ciclo mestruale è un qualcosa di quanto intimo, tanto condiviso che parlarne può essere generativo di spazi in cui si riducono ruoli, si assottigliano differenze, si abbattono gli stereotipi. 

Assorbire il cambiamento, tra le altre cose, è stato anche rendersi conto che forse capita poche volte nella vita di incontrarsi per parlare del nostro ciclo, eppure una volta che lo fai succede che un’estranea, un’insegnate, la mamma di un’amica, una collega diventa semplicemente persona che come te, sanguina più o meno una volta al mese. 

 

Nella campagna di sensibilizzazione di assorbire il cambiamento abbiamo attraversato diversi focus tematici: il costo degli assorbenti come fossero collane di perle, carceri che salvano donne dall’oppressione e dalla violenza patriarcale, storie di pillole anticoncezionali e accesso all’IVG; abbiamo detto di donne senza utero, della gestione “lunare” del ciclo mestruale, del gender gap nel lavoro in carcere; insomma, sono stati tante le vie intraprese durante questo percorso che dura ormai da due anni. Se può interessare a chi è sfuggito qualche titolo, lascio il link del blog, dove nella sezione apposita si trovano tutti gli articoli e gli approfondimenti: qui.   

Per la Giornata Mondiale dell’Igiene Mestruale vorrei riprendere le fila del progetto assorbire il cambiamento e raccontarvi delle riflessioni che ne sono scaturite. Forse però in maniera inversa, comincerei proprio dalle riflessioni sulla questione dell’igiene mestruale o dei diritti mestruali, o come vi è più comodo definirla. 

Mestruare tra le macerie

Mi sembra fondamentale in questo mondo dalle stesse violente distopie che abbiamo letto nei più famosi libri del passato, sia narrativi che di storia, prestare orecchio a Gaza.  

 

In questi giorni abbiamo letto le parole di Mariam Khateeb:

I titoli raramente parlano di questo, di cosa significhi per una ragazza avere il ciclo sotto i bombardamenti, di madri costrette a sanguinare in silenzio e ad abortire su pavimenti freddi o a partorire sotto i droni. La guerra a Gaza non è solo una storia di macerie e attacchi aerei. È una storia di corpi interrotti, invasi e a cui è stato negato il riposo. Eppure, in qualche modo, questi corpi continuano a esistere.

Come donna palestinese e studentessa sfollata che ora vive in Egitto, porto con me questo ricordo corporeo. Non come una metafora, ma come un dato di fatto. Il mio corpo sussulta ancora ai rumori forti. La mia digestione vacilla. Il mio sonno è frammentato. Conosco molte donne – amiche, parenti, vicine – che hanno sviluppato malattie croniche durante la guerra, che hanno perso il ciclo mestruale per mesi, i cui seni si sono prosciugati mentre cercavano di allattare nei rifugi. La guerra entra nel corpo come una malattia e rimane. 

 

La guerra si gioca sui corpi delle persone, più spesso su quelli femminili. Mi pare evidente la particolarità macabra di questo caso specifico che chiamare “guerra” o “conflitto” non solo suona riduttivo, ma non restituisce la drammaticità dei corpi dei palestinesi prosciugati dalla fame indotta dall’alto di uno stato che con il pretesto del diritto alla difesa, un pretesto che dopo un anno e mezzo diciamocelo, non regge più, sta a logorare, sfinire e massacrare un’intera popolazione. Si dice che un genocidio si riconosce dalla pelle delle vittime, che è a Gaza sempre la stessa

 

Quella pelle e quei corpi  non trovano riparo, scrive ancora Mariam Khateeb:

Non c’è una tenda per il corpo a Gaza. Nessuno spazio sicuro dove il corpo femminile possa dispiegarsi senza paura. La guerra ci spoglia – non solo delle nostre case e dei nostri beni, ma anche dei rituali che ci rendono umane: lavarsi, avere le mestruazioni, elaborare il lutto in privato. Ma anche senza un riparo, i nostri corpi sopportano. Ricordano. Resistono.

 

In questi casi ci si trova a informarsi da lontano, magri partecipare alle manifestazioni, tentare azioni di boicottaggio economico ed ecco infine, scrivere anche qualche parola di protesta; ma quello che personalmente mi resta di fronte al genocidio è un forte senso di impotenza e di rabbia

 

Nella Giornata mondiale dell’igiene mestruale, quando ci raccogliamo a riflettere sulla period poverty, pensiamo anche alle donne di Gaza. E come per ogni giornata onorifica, che possa essere un punto d’inizio e non solo una svogliata condizione circoscritta a 24ore, una storia su Instagram e via. 

Tra ecologie mestruali e la concretezza dei bisogni

Con Livia abbiamo riflettuto fin da subito sulla donazione di assorbenti “ecologici”, ma anche in seguito all’aver ricevuto osservazioni o domande circa la nostra donazione in carcere composta principalmente da assorbenti usa e getta. Si pone la questione: se organizzate una campagna di raccolta assorbenti, perché non incentivare all’utilizzo dei dispositivi igienico-sanitari riutilizzabili? 

 

Gli assorbenti usa e getta “classici” dei grandi marchi più noti e non – perché con questa campagna ci sono arrivate marche di assorbenti che non avevamo mai visto da nessuna parte – hanno un grande impatto a livello ambientale. 

Come ha riportato National Geographic:

Secondo Ann Borowski, che ha studiato l’impatto ecologico dei prodotti sanitari, i numeri complessivi sono impressionanti.

“Non voglio contribuire a 40 anni di immondizia in discarica solo per gestire qualcosa che non dovrebbe nemmeno essere visto come un problema”, dice. “A partire da adesso dovremmo avere un maggior controllo su questa cosa. Non voglio avere un impatto del genere sul pianeta”.

 

Pensiamo di spedire una coppetta a Gaza o in altri territori di occupazioni e conflitti. Dove non c’è acqua. Quanto può essere prioritario in questo contesto la promozione di dispositivi più ecologici? 

 

Lo stesso, per diversi motivi e condizioni di cui ho più volto discusso in questi mesi, vale per il carcere.

MARIA

In carcere tutte le cose, anche le mutande normali si lavano nello stesso posto in cui si lavano le stoviglie. Io posso dire una cosa secondo la mia esperienza. Purtroppo in cella con altre persone ci sono stata poche volte, solo quando mi trasferivano a *** alla massima sicurezza dove c’erano cella da tre letti. Quindi ci sono stata qualche volta, però lì c’era (per fortuna) nel cortile dell’area uno spazio per gli stendini. Quindi là ti potevi stendere tutto quello che volevi, senza dare fastidio a nessuno.

Insomma, introdurre assorbenti lavabili o coppette può risultare problematico in luoghi caratterizzati dall’assenza e la privazione di beni e/o di condizioni igienico-sanitarie basilari. 

 

All’utilizzo e alla consapevolezza di assorbenti lavabili, slip mestruali e coppette, abbiamo invitato le persone in misura penale esterna e in generale chi ha seguito il progetto assorbire il cambiamento, sia da vicino che da lontano. 

Criticità di un progetto per l’igiene mestruale in carcere

Sì, la Giornata mondiale dell’igiene mestruale è stata istituita per far luce sul tabù del ciclo e sullo scarso riconoscimento dei diritti mestruali, per promuovere azioni concrete, eccetera, per tutt3. 

 

Abbiamo visto che una delle caratteristiche della fisiologia femminile è lo stretto rapporto tra secrezioni endocrine e sistema nervoso: c’è un’azione reciproca; un corpo di donna – e specialmente di ragazza – è un corpo “isterico” nel senso che, per così dire, non c’è distanza tra la vita psichica e la sua realizzazione fisiologica. La crisi che la scoperta dei turbamenti della pubertà provoca nella fanciulla li rende più gravi. Dato che non si fida del suo corpo e lo spia con inquietudine, esso le sembra malato: anzi è malato. Abbiamo visto che, in realtà, si tratta di un corpo fragile dove si producono disordini propriamente organici; ma i ginecologi sono concordi nel dire che i nove decimi delle loro clienti sono malate immaginarie, cioè che, o i loro malesseri non hanno nessuna realtà fisiologica, o lo stesso disordine organico ha un’origine psichica. In gran parte è l’angoscia di essere donna che rode il corpo femminile.

 

Scriveva Simone de Beauvoir nel 1949 nel suo “Il secondo sesso”.  Il tabù mestruale si inserisce tra i diversi dispositivi di dominio maschili sui corpi e le vite del femminile, costruiti e modellati su misura del percorrersi della storia dell’umanità. Penso ad alcune storie, miti, narrazioni delle varie culture ed epoche storiche messe insieme nel Manifesto contro il tabù delle mestruazioni di Elise Thiébaut, Questo è il mio sangue

 

Ad esempio, sembra un’usanza russa quella di dare un bel ceffone in viso alla ragazza che ha appena avuto il primo menarca. Lo schiaffo sembrerebbe avere l’obiettivo di spaventare la nuova giunta nel mondo delle donne, così da avere mestruazioni regolari e guance sempre rosse per dissimulare le sue condizioni da mestruata. Ricorre in un atto di violenza il passaggio rituale dell’esser donna anche per le ragazze delle popolazioni Chaco, Lengua e Chiriguano di cui parla Claude Lévi Strauss. Ha riportato l’antropologo che dopo il primo menarca, le giovani venivano legate appese a un’amaca per tempi diversi in base ai gruppi (dai tre giorni a due mesi). 

 

Una violenza iniziatica che ci sussurra un segreto: da quel momento in poi saremo portatrici di una sofferenza, saremo resistenti di un’oppressione, saremo parte di una stessa conoscenza che ci sarà negata, di una condivisibilità che ci sarà ostruita, nel banale potere del silenzio e della vergogna. 

 

Tra il tabù delle mestruazioni e lo stigma legato alle persone detenute, il progetto del PID ha voluto essere apertura al cambiamento. L’istituzione penitenziaria – l’ho detto troppe volte – è un’istituzione pensata al maschile. E oltre a non predisporre degli strumenti necessari alle esigenze specifiche dei corpi femminili, mantiene nella sua costitutiva essenza le tracce di un ambiente saturo di violenza, noncuranza e spesso chiusura verso l’esterno. 

Allora nella campagna dello scorso anno ci siamo trovate a chiederci: cosa può significare il rifiuto di un dono da parte di un’istituzione? E ho provato a riflettere sulle possibili risposte nell’articolo a questo link

Quest’anno abbiamo riscontrato la stessa problematica quando abbiamo cercato di ampliare la donazione e i laboratori fuori regione. Allo stesso tempo però, posso dire che forse Assorbire il cambiamento 2.0 ha registrato risultati maggiormente significativi, anche nella relazione con gli istituti di pena che hanno aderito con più sentita partecipazione. Da qui nasceranno laboratori interni di cui non tarderò a scrivervi nei prossimi mesi. 

I risultati della campagna, se così possiamo definirli

Non amo molto questa parola “risultati”, ma se dobbiamo “misurare” gli esiti del progetto proprio il giorno della chiusura della campagna (Giornata Mondiale dell’Igiene mestruale), va detto che il primo e più immediato risultato è visibile concretamente nelle buste e nei cartoni strabordanti di assorbenti che riempiono a tappo la stanza dell’ufficio

 

La voce è arrivata, siete stat3 in tantissim3 a portare o spedire gli assorbenti; ma anche a scriverci i vostri dubbi, a venire agli incontri per ascoltarci.

Molto di questo è dovuto al lavoro di rete, grazie alle associazioni del progetto POSTER e al coordinamento di AIDOS. Grazie a una comunità che si è infoltita sui social network e alle singole realtà anche esterne al terzo settore che si sono rese disponibili come punto di raccolta. 

 

La campagna di raccolta assorbenti per le persone detenute oggi si conclude, con immensa gioia e gratitudine. Tornerò a parlarvi della consegna e dei laboratori interni al carcere nei prossimi mesi, ora mi preparo a contare tutti quegli assorbenti, sarà forse un po’ rognoso ma anche bellissimo.  

Assorbire il cambiamento alla fine, non è solo retorica.

Madri fuori

Madri fuori è una campagna per i diritti delle donne detenute con figl3 iniziata nel 2023 che in seguito all’approvazione del DDL “Sicurezza” dello scorso mese, si arricchisce di nuove lotte. La promozione della campagna in sostegno alle “madri dentro” proprio il giorno della festa della mamma è un invito a vivere la celebrazione come momento di riflessione e consapevolezza, di lotta.

Il decreto conferma la revoca dell’obbligo – già del codice fascista Rocco – di rinviare l’esecuzione della pena per le donne incinte o con figl3 di età inferiore a un anno, rendendo la misura discrezionale. Il rischio di recidiva continuerà a orientare le decisioni dei giudici, che negheranno questo diritto soprattutto alle donne più vulnerabili, perché la recidiva delle donne è quella dei reati minori, soprattutto contro il patrimonio, i reati delle povertà. Resta intatta la natura sessista, razzista e classista della norma originaria.

C’è scritto nel Comunicato stampa di “Madri fuori: – dallo stigma e dal carcere, con i loro bambini e bambine”. Non è solo inasprendo le pene e aumentando i reati – o scavallando l’iter legislativo fondante una repubblica democratica secondo il principio della tripartizione dei poteri, o minacciando con la forza l’espressione di rivolta, pure pacifica – che si rischia di peggiorare le condizioni delle donne madri detenute, de3 loro bambin3 e non solo. 

 

La campagna dell’11 maggio ricorda che la reclusione all’interno degli ICAM, pur mutando la veste del carcere nella terminologia “Istituti a Custodia Attenuata per detenute Madri” resta un carcere e non una reale misura alternativa.

[…] perché gli ICAM sono sezioni carcerarie, con sbarre e agenti, da cui non si esce, in cui si è recluse. Gli ICAM sono carcere. E non solo: dopo l’anno di età bambini e bambine potranno stare con le loro madri anche nelle normali sezioni.

 

Sono ancora quegli spazi di opacità e di discrezionalità del DDL che andranno ad alimentare un sistema già saturo e in crisi, quello dell’istituzione penitenziaria in Italia e che rendono più evidente (se non lo era già prima) anche un altro fenomeno: quello dell’imprigionamento selettivo. Sembra inoltre che questa vaghezza possa rendere possibile che

in casi di violazione della sicurezza o dell’ordine da parte delle madri, espressioni vaghe e prive di specificità quelle contenute nel decreto, è previsto il loro trasferimento in carcere e la sottrazione del minore. (Link qui)

 

“Madri Fuori” continua la sua lotta, insieme al movimento nazionale contro il DL sicurezza, perché il Parlamento non approvi queste norme liberticide e sessiste.

“Madri Fuori” – come già nei due anni passati – dichiara l’11 maggio, Giornata della mamma, giornata di lotta dedicata alle madri e a tutte le donne detenute. 

E invita tutt3 a promuovere iniziative locali di incontro con le donne detenute, informazione e sensibilizzazione, dibattito pubblico e manifestazione di dissenso e opposizione. QUI 

Lavoro in carcere e gender gap

«Ma una volta ridotto il carcerato a soggetto astratto; una volta “annullata” la sua diversità (fino allo smarrimento che accompagna la solitudine del soggetto irrelato dal sociale); una volta messolo di fronte a quei bisogni materiali che non può più soddisfare autonomamente; resolo così completamente dipendente dalla/alla sovranità amministrativa; a questo prodotto, infine, della macchina disciplinare viene imposta l’unica alternativa possibile alla propria distruzione, alla propria follia: la forma morale della soggezione, la forma morale, cioè, dello status di proletario.» “Carcere e Fabbrica” (2018, D. Melossi, M. Pavarini)

Lavoro in carcere

Quali sono i lavori disponibili per le persone detenute all’interno delle carceri italiane?  La lista che più volte mi è stata presentata nei vari racconti ascoltati in questi anni, è una lista relativamente breve, abbastanza prevedibile e segnata da quella particolarità infantilizzante del nostro sistema penitenziario che tende a rendere le parole più docili, più piccole, attraverso il suffisso quasi onnipresente “ino/a” (si pensi alla “domandina”); un suffisso che accompagna le parole quasi a rimarcare, una volta ancora, la differenza tra il dentro e il fuori. Spesinә, scopinә, portapacchi, scrivanә…   

«Sì ma i lavori a turni, lo sai quali sono? Gli scopini, quelli so’ i lavori a turno. Il lavorante a piano, che poi te fanno fa un’ora diciamo al giorno, un’ora e mezza la sera, devi fa il piano e basta. Io c’ho il CUD del 2021 che stavo là e a fine anno ho guadagnato 190 euro. Ao, in un anno de lavoro ho guadagnato 190 euro. E l’INPS m’ha chiesto il CUD eh! Quando ho fatto richiesta della pensione m’ha chiesto il CUD del 2021. Io gli ho detto “Ao io stavo carcerato nel 2021”, gli ho mandato pure il certificato de carcerazione. Che devo fa? È così. » Domenico

Il lavoro in carcere è quindi principalmente volto alla gestione interna della quotidianità ristretta: dagli spazi ai pasti. È poco perché è solo quello, quindi insufficiente per tutte le persone che abitano le celle, così si fa a turno. Diventano sempre meno ore, quindi meno soldi.

*Foto Antigone Rapporto annuale 2024, “Nodo alla gola” (qui il link)

Gender gap

Cosa ci dice Antigone del lavoro in carcere per la popolazione detenuta femminile? È curioso lo stupore che può sorgere nel leggere che sono le donne in carcere a lavorare di più degli uomini. Tra le ragioni non è possibile ignorare la questione numerica, certo è che rappresentando una percentuale minore della popolazione detenuta totale, quella femminile sembra avere maggiore accesso al lavoro intramurario. Questo però non significa che possiamo per una volta non parlare di gender gap, anzi mi viene da dire che neanche in questa situazione ristretta riusciamo a trovare un modo per garantire un accesso equo e paritario al mondo del lavoro. Che poi, ricordiamolo, lavorare in carcere significa magari pulire un piano della sezione, per quanto? Due/tre ore?

Oltre ai numeri però, l’osservatorio di Antigone ci rende not3 di un fatto che poco ci stupisce invece: le offerte di lavoro e formazione riservate alle detenute sono orientate dallo sguardo stereotipato di una cultura patriarcale.

«È importante orientare la tipologia di offerta formativa proposta verso percorsi non stereotipati al femminile. Nel primo semestre del 2022, ultimo dato disponibile, sono stati 2.248 gli iscritti ai 197 corsi di formazione professionale attivati, di cui 242 (pari al 10,8%) donne. Se guardiamo invece ai corsi conclusi, sempre in quel semestre sono stati 163, cui erano iscritti 1.763 detenuti, di cui 90 (il 5,1%) donne. Per quanto riguarda i percorsi di istruzione, gli ultimi dati disponibili (al 31 dicembre 2021) ci dicono che il titolo di studio era stato rilevato per i due terzi delle donne presenti in carcere, ovvero 1.515 su 2.237.»

*Foto Antigone Primo rapporto sulle donne detenute in Italia (qui il link)

Tempo fa avevamo affrontato il discorso sulla formazione in carcere e sulle differenze di genere che caratterizzano i programmi:

Le persone detenute negli istituti femminili spesso sono sottoposte a stereotipi e aspettative tradizionali legate al “comportamento femminile”. Infatti vengono introdotte ad attività come il ricamo e l’uncinetto, in contrasto con la maggior offerta di attività prevista per la componente maschile. Un’ulteriore tendenza di differenziazione riguarda l’accesso a opportunità lavorative e formative: esiste infatti un’alta disparità nell’accesso agli studi universitari tra popolazione carceraria maschile e femminile.

 Se ti interessa, puoi recuperarlo qui

 

Questo focus fa parte della Campagna PID “Assorbire il cambiamento 2.0” – Un’iniziativa che prevede la donazione degli assorbenti in carcere, la realizzazione di laboratori e incontri all’interno di istituti penitenziari femminili e strutture di accoglienza per promuovere maggiore consapevolezza sul ciclo mestruale e sui “nuovi” prodotti igienico sanitari ecologici quali coppetta, slip mestruali e assorbenti lavabili. Leggi di più qui

La cella in piazza

ALESSIA

La cella detentiva è lo spazio angusto e ristretto in cui vivono a oggi 62.397 persone in Italia. Secondo i dati forniti dal progetto “Sovraffollamento carcerario in Italia” del giornalista Marco Dalla Stella, questo è il numero totale delle persone detenute, aggiornato al 16 aprile e 

«… a fronte di una capienza regolamentare di 51.280 posti. Di questi, però, 4.477 posti non sono disponibili. Questo fa sì che il tasso di affollamento sia del 133,293%».

 

Una cella che – come ricorda l’antropologa Francesca Cerbini nel recente libro “Prison Lives Matter”non è mai solo una cella. Uno spazio da addomesticare e personalizzare, un luogo che a volte rappresenta l’unica possibilità di riappropriazione dell’intimità del corpo, la cella dove – alcuni mi hanno detto – ci si chiude a fine giornata, quando non si ha più voglia di stare con gli altri. Una cella che viene pulita fino allo sfinimento, dove si convive stretti con due, tre, quattro persone; un letto in cui si dorme tutto il giorno, in cui non si trovano speranze; un buco in cui solo quest’anno, venticinque persone hanno trovato la morte. Una cella che oltre a tutto questo è ancora molto altro. 

 

La stessa cella, spogliata dei significati e delle sofferenze dei suoi abitanti, è stata sbattuta in piazza del Popolo a Roma, in occasione della festa della polizia penitenziaria lo scorso 25 marzo. Un’amica mi ha inviato il link qualche settimana fa sbigottita. Assurdo, mi ha scritto.

Il video del sovrintendente che illustra lo spazio ricostruito della “stanza di pernottamento per i detenuti”, vi invito a guardarlo, è anche sulla pagina instagram del Ministero della Giustizia. Il contenuto in sé è disturbante ma lo diventa ancor di più leggendo il copy (imbellettato di emoticon) che utilizza una frase gancio indimenticabile: Curiosità e specialità della polizia penitenziaria! 

 

Curiosità e specialità, una visita turistica in una cella a cielo aperto illuminata dalla luce del sole. Una stanza nuova, con le pareti pulite, un armadio, un letto a castello, una piccola scrivania con una sedia bassa, un bagno. Prima di tutto viene mostrata però la domandina (il modulo 393). Lo strumento attraverso cui passa la vita della persona ristretta, come scritto altrove su questo blog:

«Dopo la prima notte, una notte di incubi in cui hai dovuto fare i conti con i fantasmi del tuo inconscio, ti alzi e ti guardi intorno smarrito, poi ti informi col tuo compagno di cella per questa o quella necessità quotidiana. Ti dirà che devi fare una “domandina”, si avete capito bene, domandina, indicando la “stanza di appartenenza” – attenzione – “stanza” e non “cella”. Ovvero quello spazio dove sei ristretto in 6 con accanto pochi altri metri quadri dove si cucina e si defeca anche». M49, L’orso

 

«In carcere devi fare domandina per tutto, per tutto ci vuole la domandina: per poter parlare con l’assistente sociale, per poter parlare con la psicologa, per poter parlare con il direttore, con il “capo posto” (il capo del reparto).

Per fare entrare dentro un paio di scarpe nuove ad esempio, perché le vecchie sono rotte, devi darle prima indietro (le vecchie) altrimenti non entrano (le nuove). E certe domandine si perdono, diciamo si perdono… Tante le cestinano e invece tante si perdono. La domandina è tutto, senza domandina in carcere non ci fai niente». Domenico

 

Nella visita guidata della cella in piazza c’è poi un’attenzione particolare alle misure di sicurezza. La struttura ferrosa del letto è fissata al pavimento per evitare che possa essere usata da loro come barricata e quel nuovo sgabello con lo schienale (purtroppo, sembra essere stato introdotto da poco) è potenzialmente pericoloso perché si può afferrare più facilmente per essere scaraventato addosso a qualcuno. Il materassino sembra fatto tipo di gommapiuma, viene alzato per farci vedere il materiale: attenzione, non per dirci quanto possa essere scomodo ma che può essere tagliato per nasconderci le cose; così come nello scarico del bagno – assente nella riproduzione in piazza della cella – dove spesso, dice la guida, ci si trovano tutte le armi fabbricate da loro. Anche quest’ultime vengono mostrate nel reel, sono accuratamente esposte in una teca proprio come in un museo.  

 

Quando ho letto e ho visto la ricostruzione della “stanza di pernottamento”, ho subito pensato a un’altra cella che era stata esposta nell’estate del 2024 da Il Dubbio. E Il Dubbio stesso ha commentato l’apparente somiglianza delle iniziative che sono state costruite però, è evidente, sulla spinta di motivazioni opposte. La cella de Il Dubbio, esposta al Salone del Libro di Torino e poi in piazza di Pietra a Roma, aveva come obiettivo quello di

«far comprendere quanto disumana, alienante sia, per l’essere umano, l’esperienza dell’isolamento dal mondo, della privazione di libertà, affetti, senso del futuro. C’era in sottofondo il clangore dei catenacci che serravano i cancelli. Era un modo per dire: sappiate che c’è un’umanità, dietro quelle sbarre, scaraventata in una disperazione profonda. Non riducete il carcere al pozzo nero dell’esistenza in cui rinchiudere ciò che non si vuol vedere. Perché anche se non volete vederlo, esiste comunque. E noi ve lo mostriamo. Volevamo abbattere il muro che separa la vita della detenzione. Perché cittadini e reclusi potessero idealmente condividere una verità».

 

La cella esposta alla festa della polizia penitenziaria sembra più un modo per dire: guardate che belve, dobbiamo addirittura ragionare sul fatto che lasciargli uno sgabello con lo schienale possa essere pericoloso. Nulla di nuovo, certo. La narrativa della sicurezza in carcere è più forse una lente con cui si osserva prima di tutto la persona ristretta e che presuppone un atteggiamento pregiudiziale da parte di tecnici, personale e cittadinanza esterna ma che non tiene presente ed elude completamente sia le strutture asimmetriche di potere che le condizioni strutturali di violenza (“Oltre il potere e la burocrazia” David Graeber) che sono alla base dell’istituzione totale. 

Così, parafrasando il sociologo Luca Sterchele, si potrebbe dire che attraverso il discorso onnipresente sulla sicurezza si acuisce l’asimmetria di potere tra il personale penitenziario e le persone detenute che diventano agli occhi dei primi qualcosa di più simile a dei nemici piuttosto che “esseri umani in custodia” (Drake, 2015 in “Il carcere invisibile. Etnografia dei saperi medici e psichiatrici nell’arcipelago carcerario” di Luca Sterchele)

 

“Più sicurezza per questi mostri” è un motto relativamente semplice che oltre a trapelare dalle immagini e dalle parole del video sulla cella in piazza del Popolo, mi pare evidente sia andato oltre i confini del carcere e abbia invaso proprio quelle piazze in cui il dissenso è diventato una questione di sicurezza. 

 

O forse lo era già da un po’, ma adesso è pure legge.

Il carcere in musica

Parte uno

ANDREA

Il carcere è un tema che ha da sempre esercitato un forte fascino sulla musica contemporanea. Dagli albori del rock’n roll fino ad oggi, infatti, numerosi artisti si sono misurati con questo argomento. 

Con questo articolo vogliamo iniziare un ciclo di articoli a tema musicale, per mostrare a modo nostro l’intreccio tra il carcere e la musica nelle sue varie forme.

 

Iniziamo dalle prime rappresentazioni musicali del mondo-carcere: siamo negli anni ‘50 del secolo scorso, negli Stati Uniti d’America. Personaggi iconici come Elvis Presley e Johnny Cash furono tra i primi ad affrontare il tema del carcere, in maniera molto diversa tra loro, puntando i riflettori sul carcere e sulla vita che si svolge al suo interno. 

Elvis Presley propose un’immagine edulcorata, ridente, del carcere e della detenzione nella celeberrima Jailhouse Rock, dove non c’è spazio per il dolore e la sofferenza, ma dove la musica rock’n roll del cantante di Memphis racconta l’irrefrenabile voglia di ballare che dilaga in tutta la prigione, in un ballo che coinvolge agenti e detenuti in una sorta di festa all’interno del carcere. Nulla di più fantasioso! Elvis rappresenta infatti con uno stile spensierato e disimpegnato la cultura giovanile degli anni ‘50, mostrando il tempo trascorso in carcere come una festa senza fine, dove non c’è spazio per la sofferenza e per questioni sociali, ma solo per il divertimento.

Di tutt’altra impronta invece è la rappresentazione data da Johnny Cash, coevo di Elvis, al tema carcere. Molto più realistica la sua narrazione, quasi una narrazione “da dentro” (anche se l’esperienza carceraria di Johnny Cash avvenne quando era già famoso), che trasuda empatia e vicinanza alle precarie condizioni di vita dei detenuti. Una vicinanza che l’artista ha voluto dimostrare con un evento storico: il celeberrimo concerto nella prigione di Folsom. Il 13 gennaio del 1968 infatti Johnny Cash si esibì, insieme alla sua band, per il primo concerto gratuito svolto all’interno di un carcere, davanti ai 2000 ospiti del penitenziario di massima sicurezza di Folsom in California. A dare ancora maggior spessore culturale all’evento fu il fatto che la canzone di chiusura, Greystone Chapel, fu scritta da una persona detenuta proprio a Folsom, e fu interpretata per la prima volta da Johnny Cash nello storico concerto del 1968. Il tutto è poi confluito in un disco, “At Folsom prison”, un disco storico, del quale consigliamo vivamente l’ascolto.
Arrivare a suonare in una prigione fu naturale per Johnny Cash, che spesso aveva trattato il tema della detenzione nelle sue canzoni. Alla prigione di Folsom un giovane Johnny Cash, nel 1955, dedicò una canzone, dopo aver visto un film-documentario che trattava il tema della vita nell’istituto californiano. La canzone si intitolava “Folsom Prison Blues”, usata 13 anni dopo dall’artista come apertura per il live “At Folsom prison”.

Molte canzoni cantate da Johnny Cash trattarono il tema del carcere, almeno una ventina, ma forse quella che più ci ha colpito è “San Quentin”. La canzone parla del penitenziario di San Quentin, teatro di un altro concerto dell’artista, uscito sulla scia del live a Folsom (At San Quentin, 1969), penitenziario che in tempi più recenti ha prestato la sua location per il video di “St. Anger” dei Metallica, registrato nel carcere di San Quentin nel 2003 dalla band metal americana, in un video che mostra l’interno del carcere e centinaia di detenuti spettatori dell’evento inconsueto. In “San Quentin” Johnny Cash racconta il carcere in maniera critica, attacca in maniera diretta e decisa il sistema-carcere che, a detta dell’artista, non rieduca ma tende solo alla distruzione delle persone che lo vivono. La canzone esprime una forte rabbia e un’idea di ribellione, che ben viene espressa dalla risposta che danno i detenuti che la ascoltano per la prima volta, il 23 febbraio del 1969 a San Quentin

Anche grazie a questa canzone e all’eco della sua esibizione a San Quentin, Johnny Cash consolidò la sua immagine di “cantore degli emarginati”, confermandosi come un cantante carismatico e dalla forte sensibilità sociale. Tra i detenuti americani, ovviamente, la sua figura divenne leggendaria. Per la prima volta un artista di fama internazionale, che ad oggi ha venduto più di 100 milioni di dischi in tutto il mondo, mostrava attenzione verso la reale condizione dei detenuti, senza rifugiarsi in ricostruzioni fantasiose ed edulcorate. L’empatia profonda di Cash si può notare in altre canzoni sul tema, canzoni che parlano di carcere, di condannati a morte, di come si vive sia nei reparti per detenuti comuni che nel braccio della morte. Per esempio “Jacob Green” parla del suicidio di un giovane detenuto, che non sopporta più le condizioni di vita del carcere; “Austin Prison” racconta del tentativo di fuga, finito tragicamente con l’uccisione del fuggitivo, di un detenuto nel carcere di Austin. Un’altra canzone che merita di essere citata è “25 minutes to go”, canzone interpretata da Cash ma scritta dal poeta e musicista Shel Silverstein. La canzone racconta gli ultimi 25 minuti di vita di un condannato a morte per impiccagione, in una sorta di macabro conto alla rovescia in cui in maniera sarcastica ogni strofa cantata esprime lo scadere di un minuto, fino ad arrivare al momento in cui il cappio si stringe intorno al collo e la canzone si interrompe bruscamente. 

Sulla figura di Johhny Cash si potrebbe scrivere tantissimo, avendo avuto una lunghissima carriera, che ha attraversato ben 6 decadi, ed è stato spunto per musicisti, registi e artisti in genere. La sua influenza sulla musica occidentale infatti è indubbia, come la profondità e la sensibilità con cui ha affrontato alcune tematiche sociali.

Speriamo che gli spunti offerti in queste poche righe siano utili per chi ci legge, e soprattutto che vi sia venuta voglia di ascoltare quanto proposto in questa prima digressione sul tema “musica e carcere”, che continuerà presto su queste pagine.

Buon ascolto!

Carceri: dalle rivolte alla riforma

ANDREA

Nel settembre dello scorso anno la notizia di disordini e di una rivolta scoppiata tra i detenuti del carcere di Regina Coeli a Roma ha portato all’attenzione dell’opinione pubblica l’annoso problema delle condizioni di vita delle persone detenute e delle problematiche connesse alla vita detentiva. Una protesta di questa portata non si registrava da anni, addirittura un’intera sezione dell’istituto romano è stata colpita dalla sommossa, che ha provocato incendi e ha reso l’intero reparto inagibile, con il conseguente trasferimento dei detenuti che vi erano ristretti. Il dibattito pubblico sul tema, purtroppo, è condizionato dalle valutazioni populistiche dei politici, da affermazioni date in pasto ai media che tendono ad alimentare il pregiudizio verso il carcere e verso le persone che, loro malgrado, lo abitano o lo hanno abitato. 

 

Per questo motivo è complesso affrontare questa tematica, che necessiterebbe di ben altro spazio e di un’analisi più approfondita. Oggi vogliamo concentrarci sulle rivolte carcerarie avvenute in Italia, soprattutto su quelle degli anni 60/70 del secolo scorso, e sulla pressione esercitata allora sull’opinione pubblica e sulla politica, che ha portato alla stesura dell’ordinamento penitenziario del 1975.

 

Il tema della rivolta carceraria da sempre ha colpito la fantasia dell’opinione pubblica, incentivata da rappresentazioni non sempre realistiche veicolate dai media e dalla produzione artistica in vari campi (cinema, musica, teatro…).

Il contesto degli anni Sessanta che conduce alle rivolte delle carceri

Negli anni ‘60, grazie al diffondersi di ideali politici di rottura e alla centralità data ai diritti umani dai movimenti politici attivi in varie parti del mondo, una nuova coscienza sociale ha portato ad una crescente insoddisfazione nei confronti delle istituzioni penitenziarie. La funzione repressiva e punitiva, fino ad allora imperante, portava il carcere ad essere una sorta di discarica sociale, in cui venivano relegati gli elementi più scomodi, marginali, in un’ottica di repressione di classe. Numerosi studiosi iniziano ad affrontare il tema della repressione e delle istituzioni totali, tra i più popolari a livello mondiale inseriamo sicuramente Erving Goffman, il quale si concentrò maggiormente sull’istituzione del manicomio e sulla gestione della salute mentale, ma i parallelismi tra manicomio e carcere sono palesi ed ovvi, se letti entrambi utilizzando concetti come quello di “istituzione totale”, coniato da Goffman ed entrato ormai nel vocabolario comune.  Tra gli altri studiosi che hanno contribuito, con le loro opere, ad un approccio critico nell’affrontare il tema del carcere e delle istituzioni totali più in generale ricordiamo Michel Foucault (“Sorvegliare e punire. Nascita della prigione” uscito nel 1975) e, in Italia, lo psichiatra Franco Basaglia, molto attivo nella battaglia per l’umanizzazione dell trattamento psichiatrico, che ha portato alla fondamentale e innovativa legge che ancora oggi porta il suo nome. Il dibattito che è seguito alle analisi degli studiosi è riuscito quindi ad influenzare la politica, rendendo il tema della riforma del sistema carcere una priorità in Italia.

 

Riguardo alla situazione carceraria in Italia è da menzionare un’opera pioneristica, consigliandola a chi non l’avesse ancora letta, ovvero il seminale testo uscito nel 1971: “Il carcere in Italia” di Rizzi e Salierno, una fotografia impietosa del carcere pre-riforma dell’ordinamento penitenziario. 

Salierno offrì una panoramica approfondita del carcere pre-riforma, utilizzando la propria esperienza personale di detenuto, e applicando una lente critica che lo portò a mostrare le contraddizioni in cui versava il sistema penitenziario precedente al 1975, specchio di forti disuguaglianze sociali. Il lavoro di Salierno portò quindi a considerare il carcere non soltanto come un luogo di detenzione, ma come un contesto in cui emergevano con chiarezza le complesse dinamiche di potere, esclusione e marginalizzazione dei reietti della società.

 

Le rivolte, adottando quest’approccio, non vengono viste semplicemente come atti di ribellione, ma come manifestazioni di idee importanti, espressioni di una richiesta profonda di dignità e giustizia sociale proveniente da individui di fatto abbandonati dalla società, relegati in una istituzione che fino a quel momento ha avuto la funzione di raccoglitore del disagio, con lo scopo di mettere da parte e togliere dalla visibilità pubblica gli elementi considerati pericolosi, che avrebbero rischiato di minare alla base la sicurezza della società borghese del secondo novecento. Salierno nel suo imponente lavoro affrontò e denunciò la violenza istituzionale e gli abusi di potere, purtroppo all’ordine del giorno, l’isolamento e la spersonalizzazione delle persone recluse e la mancanza di programmi rieducativi. L’importanza del lavoro di Salierno e delle riflessioni che ne sono scaturite ha condizionato il clima politico del tempo. Tra gli addetti ai lavori il suo testo ha avuto molto successo, essendo la prima ricerca sul campo, facilitata dall’esperienza detentiva vissuta dall’autore. Le politiche pubbliche che investivano il mondo carcerario quindi, nell’idea di Giulio Salierno, andavano riformate radicalmente, le pratiche all’interno delle carceri andavano ripensate, bisognava rielaborare il concetto di riabilitazione, sostituendolo a quello, ormai obsoleto ed ingiusto, di mera punizione.

Le rivolte e i detenuti politici

Già dal 1945 in Italia si affacciarono fatti di cronaca che avevano come protagonisti i detenuti e le loro rivolte, ma per una presa di coscienza vera e propria, e per parlare di movimento dei detenuti, dobbiamo aspettare le lotte dei detenuti avvenute nel biennio 1968/1969. In quegli anni la composizione della popolazione detenuta stava cambiando radicalmente: molti giovani provenienti dai movimenti politici antagonisti entravano in carcere, come conseguenza della repressione esercitata su chi partecipava ad attività politiche, anche violente, ormai diffuse su tutto il territorio italiano e non solo. Per la prima volta entravano in massa nuovi detenuti, con un background politico definito e una formazione scolastica più avanzata di chi fino a quel momento aveva riempito le carceri italiane. Si diffuse quindi a macchia d’olio il dissenso tra le persone detenute di tutta la penisola, questa volta in una forma di movimento sociale più strutturato che, a differenza delle ribellioni avvenute dal secondo dopoguerra in poi, che avevano come obiettivo la risoluzione di singole questioni pratiche e rivendicazioni inerenti la vita quotidiana, aveva come obiettivo dichiarato una riforma profonda del sistema penitenziario, una riforma radicale che doveva modificare quel luogo che fino ad allora era destinato alla punizione e a null’altro.

Le rivolte carcerarie esprimevano una manifestazione di malessere profondo e radicato, tendevano a far emergere le contraddizioni insite nel sistema penitenziario, evidenziando le ingiustizie e la natura profondamente classista della giustizia italiana. Il deflagrare delle rivolte carcerarie ha quindi portato l’opinione pubblica a focalizzarsi sul carcere, a cominciare a riflettere sul futuro delle persone che vi sono ristrette. La pressione dell’opinione pubblica ha portato all’azione il sistema politico, con la stesura di un ordinamento ancora oggi considerato all’avanguardia per le soluzioni proposte in ottica rieducativa e di reinserimento sociale

Carceri: dalle rivolte alla riforma

Il culmine di questo processo appare quindi nel 1975 con la riforma dell’ordinamento penitenziario italiano, ancora in vigore, che ha introdotto concetti molto all’avanguardia per il tempo come quello di reinserimento sociale, di trattamento, di osservazione scientifica della personalità, di misure alternative alla detenzione. La multidisciplinarietà è la chiave per comprendere al meglio la personalità della persona detenuta, per elaborare un percorso di reinserimento sociale valido, finalizzato al reale reinserimento. La sfida dell’ordinamento penitenziario e della ventata politica del tempo fu riposta nell’idea di trasformare le carceri da luoghi di punizione a spazi dedicati alla riabilitazione e al reinserimento. I programmi educativi e formativi, nell’idea che ha ispirato il legislatore, possono ridurre il tasso di recidiva, e contribuire quindi a modellare una società più giusta. 

Sicuramente i movimenti politici, sia interni che esterni al mondo carcerario, hanno influenzato le scelte politiche che hanno portato alla riforma del 1975.

La domanda che ci poniamo oggi è la seguente: è possibile che le rivolte carcerarie recenti siano nuovamente un campanello d’allarme che non possa essere trascurato, che meriterebbe come risposta una presa di coscienza del problema-carcere da parte della politica, la quale dovrebbe aprire una riflessione seria che coinvolga gli addetti ai lavori e le persone detenute per portare ad una nuova svolta, ad un ulteriore passo in avanti verso un’istituzione carceraria diversa da quella che conosciamo, più in linea con quello che è il suo mandato costituzionale?

La speranza, vista la criticità del sistema penitenziario che vediamo oggi, è che si colgano gli input provenienti anche dall’Unione Europea, finalizzati a rendere più umano e non degradante il percorso carcerario in Italia, che ciò porti ad una consapevolezza diffusa che le migliaia di corpi ammassati nelle carceri italiane in condizioni spesso difficili, in realtà sono abitati da persone, individualità portatrici di diritti al pari di chi non è nella condizione di detenuto, e ancor di più: le persone detenute possono essere delle risorse per la collettività, possono e devono diventarlo. Il compito della politica a questo punto sarebbe il favorire la costruzione di un sistema diverso, in cui ci siano effettivamente pari opportunità per tutte e tutti, realizzando quanto previsto dalla Costituzione del 1948.

 

Per concludere il tema affrontato ci concediamo una digressione nel mondo della musica italiana, riportando un testo che esprime molto i concetti finora espressi, frutto di una delle menti più sensibili ed acute mai esistite nel panorama musicale italiano: Fabrizio De Andrè.

La sua “Nella mia ora di libertà”, uscita nel 1973, ci catapulta direttamente nel contesto di quegli anni, raccontando la storia di un detenuto e della sua presa di coscienza politica avvenuta in carcere, esperienza che culmina con una rivolta carceraria. Ci sono tutti i temi che abbiamo affrontato in questa parziale disamina, arricchiti dalla potenza evocativa della poetica di Fabrizio De André, in una testimonianza splendida che non può lasciare indifferenti.

 

Fabrizio De André – Nella mia ora di libertà

Di respirare la stessa aria

D’un secondino non mi va

Perciò ho deciso di rinunciare

Alla mia ora di libertà

Se c’è qualcosa da spartire

Tra un prigioniero e il suo piantone

Che non sia l’aria di quel cortile

Voglio soltanto che sia prigione

Che non sia l’aria di quel cortile

Voglio soltanto che sia prigione

È cominciata un’ora prima

E un’ora dopo era già finita

Ho visto gente venire sola

E poi insieme verso l’uscita

Non mi aspettavo un vostro errore

Uomini e donne di tribunale

Se fossi stato al vostro posto

Ma al vostro posto non ci so stare

Se fossi stato al vostro posto

Ma al vostro posto non ci so stare

Fuori dell’aula sulla strada

Ma in mezzo al fuori anche fuori di là

Ho chiesto al meglio della mia faccia

Una polemica di dignità

Tante le grinte, le ghigne, i musi

Vagli a spiegare che è primavera

E poi lo sanno, ma preferiscono

Vederla togliere a chi va in galera

E poi lo sanno, ma preferiscono

Vederla togliere a chi va in galera

Tante le grinte, le ghigne, i musi

Poche le facce, tra loro lei

Si sta chiedendo tutto in un giorno

Si suggerisce, ci giurerei

Quel che dirà di me alla gente

Quel che dirà ve lo dico io

Da un po’ di tempo era un po’ cambiato

Ma non nel dirmi amore mio

Da un po’ di tempo era un po’ cambiato

Ma non nel dirmi amore mio

Certo bisogna farne di strada

Da una ginnastica d’obbedienza

Fino ad un gesto molto più umano

Che ti dia il senso della violenza

Però bisogna farne altrettanta

Per diventare così coglioni

Da non riuscire più a capire

Che non ci sono poteri buoni

Da non riuscire più a capire

Che non ci sono poteri buoni

E adesso imparo un sacco di cose

In mezzo agli altri vestiti uguali

Tranne qual è il crimine giusto

Per non passare da criminali

Ci hanno insegnato la meraviglia

Verso la gente che ruba il pane

Ora sappiamo che è un delitto

Il non rubare quando si ha fame

Ora sappiamo che è un delitto

Il non rubare quando si ha fame

Di respirare la stessa aria

Dei secondini non ci va

E abbiam deciso di imprigionarli

Durante l’ora di libertà

Venite adesso alla prigione

State a sentire sulla porta

La nostra ultima canzone

Che vi ripete un’altra volta

Per quanto voi vi crediate assolti

Siete per sempre coinvolti

Per quanto voi vi crediate assolti

Siete per sempre coinvolti

Il diritto alla salute in carcere

La morte di Carmine Tolomelli

Diritto alla salute in carcere? Non so se avete sentito di un uomo che è morto in carcere a causa di una grave malattia epatica a febbraio dello scorso anno. A ricordarcelo è Ristretti Orizzonti che ci parla del “diritto alla salute negato” dall’istituzione penitenziaria. 

 

Si chiamava Carmine Tolomelli e la sua storia viene raccontata proprio in questi giorni dall’associazione Quei Bravi Ragazzi Family che denuncia l’inconsistenza dei diritti sanitari in carcere.  

Carmine era un detenuto affetto da una grave malattia epatica che ha passato anni in attesa di un trattamento adeguato: 5 anni di istanze per ottenere un ricovero in luoghi più adatti non hanno trovato riscontri positivi, nonostante le sue condizioni fossero disperate. 

Le autorità non hanno preso in considerazione le sue condizioni, continuando a ignorare le richieste di sostituzione della misura cautelare con la detenzione domiciliare. All’aggravarsi delle già complesse condizioni mediche dell’uomo viene predisposto un trasferimento d’urgenza in ospedale. 

Il 24 febbraio 2024 Carmine Tolomelli muore poche ore dopo il ricovero

Questo tragico caso solleva importanti interrogativi sulla gestione della salute nelle carceri italiane. Come per molte cose (e questo vale anche fuori dall’istituzione penitenziaria): da un lato ci sono le leggi che dovrebbero garantire il diritto alla salute; dall’altro c’è la realtà quotidiana che è ben diversa.

La morte di Carmine non è un caso isolato. Il sistema penitenziario italiano, in molti casi, non riesca a rispondere adeguatamente alle necessità sanitarie di chi vi è rinchiuso.

Un’altra vita reclusa che è stata spezzata. E forse allora il problema è il carcere? La morte di Carmine non deve essere dimenticata, ma deve servire da spunto per un cambiamento radicale, per evitare che altre tragedie simili si ripetano.

Il diritto alla salute e il SSN in carcere

Era il 2008 quando è stato avviato il trasferimento delle funzioni in materia di sanità penitenziaria al SSN (Sistema Sanitario Nazionale). Il passaggio dal campo amministrativo del ministero di Giustizia a quello dell’Asl del territorio, spiegano Kalika e Santorso, è stato un processo lungo:

 

«[…] realizzato con modalità e soprattutto tempistiche assai differenziate nel panorama penitenziario nazionale. » – Farsi la galera. Spazi e culture del penitenziario.

 

L’obiettivo era quello di equiparare il trattamento sanitario per tutte le persone del territorio, sia libere che recluse. 

Ma il carcere genera malattie tutte sue, ricordate il carcelazo del carcere di San  Pedro? Il personale medico presente nell’istituzione ancora prima della riforma lo sapeva bene: il carcere presenta patologie peculiari dovute alle condizioni di marginalità sociale dei detenuti.

 

«Nonostante alcune differenze relative agli assetti del servizio, le Asl non hanno riconosciuto esplicitamente queste peculiarità ma tendenzialmente individuato dei responsabili preposti all’organizzazione del lavoro del personale medico e infermieristico nelle prigioni, spingendo con intensità molto variabile verso un progressivo turn over del personale. Uno dei tratti innovativi della riforma va in effetti letto a sottrarre medici e infermieri dal controllo gerarchico dell’amministrazione penitenziaria, con l’evidente finalità di renderli più autonomi e indipendenti. Un obiettivo di cruciale importanza, giacché la componente sanitaria compartecipava con un ruolo fondamentale alla gestione della quotidianità penitenziaria. Al di là delle delicate meccanismi di socializzazione ambientale e professionale accentuati dal nuovo assetto, esso tende a rinforzare, almeno formalmente, l’idea del medico come figura in grado di esercitare un contropotere a fronte delle direzioni degli istituti e dei comandi di polizia penitenziaria (Ronco 2011; Cherchi 2017).» – Farsi la galera. Spazi e culture del penitenziario.

 

Nei fatti la questione del diritto alla salute in carcere si traduce in tempi di attesa lunghissimi per accedere a visite specialistiche (quando ci si riesce) e  nella totale noncuranza delle condizioni mediche delle persone recluse, che come nel caso di Carmine, si rivela poi fatale.

 

Il nostro pensiero va a Carmine Tolomelli e ai suoi cari.

Come il patriarcato influisce sulle vite delle persone detenute negli istituti femminili

La popolazione detenuta femminile in Italia rappresenta circa il 4 per cento del totale, più precisamente, al 31 marzo 2024, come rilevato dall’associazione Antigone, le donne recluse erano 2.619. Un numero basso se messo a confronto con il totale della popolazione detenuta (61.049 persone recluse).

 

Sappiamo che molta attenzione è data alle persone detenute negli istituti femminili in rapporto alla loro condizione di madri. Che se da un lato rappresenta una risposta necessaria – ma non sufficiente – alla paradossale esperienza di molte bambine e bambini che si trovano a muovere i primi passi nell’ambiente carcerario; dall’altra rispecchia una società che ritiene centrale il diritto di una donna di essere madre a discapito del diritto di una persone di essere e autodeterminarsi come vuole. Vero anche che con il nuovo Ddl Sicurezza, questa gentile accortezza nei confronti delle donne incinte, sembra esser messa in dubbio: proprio alcuni giorni fa infatti la società civile si è espressa contro l’incarceramento delle donne incinte presso il Senato della Repubblica (qui il link). 

Oltre alle madri, quando si parla di “donne” nell’Ordinamento Penitenziario?  

Sono principalmente due gli articoli dell’Ordinamento penitenziario specifici per la regolamentazione delle persone detenute negli istituti femminili. 

  • Articolo 14: “Assegnazione, raggruppamento e categorie dei detenuti e degli internati”

“Il numero dei detenuti e degli internati negli istituti e nelle sezioni deve essere limitato e, comunque, tale da favorire l’individualizzazione del trattamento.

L’assegnazione dei condannati e degli internati ai singoli istituti e il raggruppamento nelle sezioni di ciascun istituto sono disposti con particolare riguardo alla possibilità di procedere ad un trattamento rieducativo comune e all’esigenza di evitare influenze nocive reciproche. Per le assegnazioni sono, inoltre, applicati di norma i criteri di cui al primo ed al secondo comma dell’ articolo 42 .

É assicurata la separazione degli imputati dai condannati e internati, dei giovani al disotto dei venticinque anni dagli adulti, dei condannati dagli internati e dei condannati all’arresto dai condannati alla reclusione.

É consentita, in particolari circostanze, l’ammissione di detenuti e di internati ad attività organizzate per categorie diverse da quelle di appartenenza.

Le donne sono ospitate in istituti separati o in apposite sezioni di istituto.”

  • Articolo 42-bis: “Traduzioni”

“Sono traduzioni tutte le attività di accompagnamento coattivo, da un luogo ad un altro, di soggetti detenuti, internati, fermati, arrestati o comunque in condizione di restrizione della libertà personale.

Le traduzioni dei detenuti e degli internati adulti sono eseguite, nel tempo più breve possibile, dal corpo di polizia penitenziaria, con le modalità stabilite dalle leggi e dai regolamenti e, se trattasi di donne, con l’assistenza di personale femminile. […]”

 

Se nell’Ordinamento penitenziario l’attenzione nei confronti delle specifiche esigenze femminili è scarsa, qualcosa migliora con il Regolamento di esecuzione del 2000.

 

  • L’articolo 8  sull’igiene personale
  • L’articolo 9 sul vestiario e il corredo
  • L’articolo 7 sulla presenza del bidet in cella 

 

Il paradosso di cui parlano Franca Garreffa e Daniela Turco nel focus “Le donne nei Poli universitari penitenziari: ostacoli e prospettive di sviluppo” (Primo Rapporto sulle donne detenute di Antigone) riguarda una doppia tendendenza opposta tra il fuori e il dentro: da un lato, c’è la lotta contro l’abbattimento delle differenze tra i generi, dall’altra il mettere in evidenza le stesse diversità nell’ambito dell’esigenze detentive femminili

 

Un paradosso che potremmo complessificare, osservando che l’abbattimento delle differenze non nega le diverse esigenze e ne anzi mette in risalto le problematiche legate al mancato riconoscimento. Non è dunque un problema di per sé la differenza tra i sessi e i generi, ma il diverso trattamento che viene riservato alla componente maschile, la rigidità dei ruoli sociali assegnati, la contrapposizione agonistica tra un noi e un loro e i rapporti di potere che essa genera e che caratterizzano la società contemporanea; sia libera che reclusa, perché, ricordiamolo, apparteniamo tutt3 alla stessa. 

Si tratta di quel concetto di equità che dovrebbe essere alla base di uno stato che si dice democratico: non uguale per tutte le persone ma uguale in base alle specifiche condizioni delle persone prese in considerazione. 

Istruzione, formazione e opportunità per le persone detenute negli istituti femminili

Pubblicato su Ristretti Orizzonti, l’articolo di Manuela D’Argenio di novembre 2024 per tgcom24.mediaset.it, è introdotto così:

«Le sezioni femminili restano inadeguate, le attività professionali sono poco variegate, l’accesso agli studi non è uguale per tutti: la discriminazione di genere, di fatto, è rimasta immutata. Il carcere come istituzione totale è una struttura pensata per uomini in cui si riscontra, anche nei documenti ministeriali, un’incapacità di rielaborarlo al femminile». (Qui il link)

D’Argenio evidenzia i numerosi problemi esistenti all’interno del sistema carcerario legati alla discriminazione di genere. Le persone detenute negli istituti femminili spesso sono sottoposte a stereotipi e aspettative tradizionali legate al “comportamento femminile”. Infatti vengono introdotte ad attività come il ricamo e l’uncinetto, in contrasto con la maggior offerta di attività prevista per la componente maschile. Un’ulteriore tendenza di differenziazione riguarda l’accesso a opportunità lavorative e formative: esiste infatti un’alta disparità nell’accesso agli studi universitari tra popolazione carceraria maschile e femminile. 

 

Sembra chiaro che il dato numerico inferiore delle detenute e la loro distribuzione nelle sezioni femminili di carceri maschili contribuiscono – insieme alle suddette condizioni stereotipate con cui vengono pensate attività e servizi nell’istituzione penitenziaria – a una visibile marginalizzazione e a una scarsità di percorsi di reinserimento sociale adeguati.

Corpi ristretti e sensi di colpa

Sono meno persone sì, ma sono pure meno strutture. E quindi, se il sovraffollamento carcerario ad oggi è pari al 132% (qui il link), sembra che siamo proprio le carceri femminili a risentirne di più. 

Le persone detenute negli istituti femminili si trovano a vivere ammassate l’un l’altra e per di più in strutture pensate per la categoria di genere maschile, il che contribuisce a una mancanza di supporto e di risorse dedicate.

La discriminazione di genere in carcere è radicata nella concezione stessa della pena e nella struttura dell’istituzione che grava nell’emergenza continua data l’assenza di riflessione sulle condizioni di vita interne.

Spesso inoltre è presente quel tipico assorbimento dello “spirito abnegante” caratterizzante il ruolo di accudimento e cura assegnato culturalmente alle persone con utero ancor prima della nascita che si esplicita nel senso di colpa nei confronti di figli, compagni, padri e mariti lasciati fuori. Il senso di colpa può tradursi in atteggiamenti di sottomissione, atti di autolesionismo, suicidi o uso prolungato di psicofarmaci: tutti fattori che sembrano essere più frequenti tra la popolazione detenuta femminile rispetto alla maschile. 

 

Forse la bassa percentuale delle presenze femminili in carcere è uno dei motivi per cui sembra più difficile per le persone di genere femminile in carcere accedere a quei benefici – come corsi di professionalizzazione o universitari – maggiormente preposti per la componente carceraria maschile. Forse, invece, sono gli aspetti di una cultura patriarcale e omotransfobica che sono duri a morire e che condizionano la vita e i rapporti tra i generi sia fuori che dentro il carcere. 

O forse, entrambe le cose. 

Questo focus fa parte della Campagna PID “Assorbire il cambiamento 2.0” – Un’iniziativa che prevede la donazione degli assorbenti in carcere, la realizzazione di laboratori e incontri all’interno di istituti penitenziari femminili e strutture di accoglienza per promuovere maggiore consapevolezza sul ciclo mestruale e sui “nuovi” prodotti igienico sanitari ecologici quali coppetta, slip mestruali e assorbenti lavabili. Leggi di più qui

Di carcere si muore

Da Regina Coeli a Modena, da Modena a Firenze Sollicciano – i suicidi in carcere 

A Regina Coeli un ragazzo di 23 anni si è tolto la vita, è stato trovato nel bagno della sua cella. A Regina Coeli, dove vivono 1060 persone in spazi pensati per 566. A Regina Coeli,  non c’è aria per respirare, non c’è spazio per muoversi, non ci sono opportunità né scelte, né alternative. A Regina Coeli, come altri carceri italiani, si preferisce la morte

«La situazione è da tempo ingovernabile e meriterebbe interventi celeri e concreti da parte dell’esecutivo.» – ha detto De Fazio, segretario generale della Uil-Pa polizia penitenziaria

Fino al 31 dicembre dell’anno appena passato ci siamo augurat3 che le cose cambiassero, con l’amara consapevolezza che non sarebbe successo veramente. Trovo sia dannatamente ironico ricominciare il conto dei suicidi in carcere neanche una settimana dopo l’aver affermato che il 2024 è stato l’anno che ha registrato un numero indicibile di vite spezzate dall’istituzione penitenziaria (89 persone detenute e 7 agent3). 

Ma così siamo abituat3 a fare, a darci dei tempi e dei numeri. Quindi ripetiamolo anche qui, l’anno nuovo è iniziato da appena 9 giorni e sono già morte 5 persone detenute e 1 operatore.

«È palese che in queste condizioni non si possa neanche pensare a concreti processi organizzativi, ma ci si rabatti giorno per giorno mirando alla “sopravvivenza”, senza peraltro riuscire sempre a salvaguardala, come in questi casi. Parlare di art. 27 della Costituzione e di rieducazione è esercizio di mera retorica”, prosegue il segretario. “Servono subito misure deflattive della densità detentiva, vanno compiutamente potenziati gli organici della Polizia penitenziaria e delle altre figure professionali, è necessario assicurare l’assistenza sanitaria e vanno avviate riforme complessive dell’esecuzione penale. Il 2025 è cominciato malissimo.» – ha sentenziato De Fazio

Oltre al ragazzo a Regina Coeli, ricordiamo l’uomo sui 40 anni che si è tolto la vita nel carcere di Paola in Calabria. Meno di 24 ore dopo, nello stesso carcere, a scegliere la morte è stato un impiegato delle funzioni centrali. Il giorno dopo la chiusura definita delle festività natalizie sancita dall’arrivo dell’epifania, a morire è stato un altro uomo detenuto, questa volta nel carcere di Modena. 

«L’uomo avrebbe inalato gas da un fornello da campeggio, un gesto che lascia dubbi sulla sua natura: un incidente durante una pratica per ottenere effetti allucinogeni o un deliberato suicidio? Tuttavia, l’assenza di tossicodipendenza porta a propendere per la seconda ipotesi.» – si legge su “Il Dubbio”.

Sempre a Modena domenica scorsa si è spenta un’altra persona detenuta che era stata condotta in ospedale dopo aver tentato di suicidarsi. Nei primissimi giorni del 2025 invece, un uomo ha scelto la morte al posto del carcere di Firenze Sollicciano. 

Il giorno della vigilia di Natale siamo stat3 contattat3 su Instagram da una volontaria che ci ha espresso l’esigenza di condividere la frustrazione circa le condizioni delle carceri italiane.

«Ciao, operando come volontaria nel settore carcerario, sento il peso di dover lanciare un grido d’allarme. Le recenti violenze nel carcere di Trapani, i numerosi suicidi e le inquietanti dichiarazioni del sottosegretario alla Giustizia Delmastro hanno messo a nudo un sistema carcerario marcio. Non si tratta più di ‘poche mele marce’, ma di un problema strutturale. La violenza all’interno delle mura carcerarie non è un’eccezione, ma la regola. Un equilibrio precario basato su minacce e soprusi, dove le gerarchie sono rigide e implacabili. I più deboli sono vittime di vessazioni costanti. Come sosteneva Norberto Bobbio, le carceri sono uno specchio della società. Ciò che accade dietro le sbarre ci rivela molto sulla collettività e sullo stato-istituzione. I direttori di carcere sembrano gli ultimi feudatari, detenendo un potere quasi assoluto sulle vite dei detenuti. Il personale di polizia penitenziaria, nella maggior parte dei casi, è complice di queste vessazioni. Chi osa opporsi viene isolato e marginalizzato.

Il malaffare, la corruzione e la violenza regnano sovrani, calpestando ogni forma di dignità umana. È giunto il momento di affrontare questo tema con onestà e coraggio. A tal proposito, consiglio la lettura del romanzo “La collina delle lucciole- Cronaca di un carcere a luci rosse” di Rocco Casalegno pubblicato da Amazon. Basato su fatti realmente accaduti, questo libro offre una denuncia cruda e appassionata delle condizioni carcerarie italiane. È un grido di disperazione che arriva direttamente dall’interno del sistema. 

Ti chiedo, nei limiti delle tue possibilità, di promuovere un dibattito approfondito su come migliorare le condizioni di vita dei detenuti e garantire una maggiore umanità all’interno delle nostre carceri.» – Gaia Fardini

Quando si inizierà a pensare alle carceri, ai loro abitant3? Quando cesserà il silenzio istituzionale di fronte a un sistema che non funziona? Quando diverrà formalmente illegittimo il morire di carcere?

Un carcere che “protegge” le donne – Delitto d’onore in Giordania

Nel libro “Donne violate. Forme della violenza nelle tradizioni giuridiche e religiose tra Medio Oriente e Sud Asia” Marta Tarantino affronta il rapporta tra cultura e legge, mostrando come gli intrecci che hanno intessuto i ruoli di genere nell’area mediorientale della Giordania influiscono sulla legislazione del Paese. 

Gerarchia famigliare e ritualità identitarie

L’autrice ricostruisce dapprima il corpus dei valori etico-morali che caratterizza il contesto arabo-islamico del regno Hashemita di Giordania, partendo dall’esplicitazione del duplice ruolo che ha la famiglia. Da un lato, essa assolve alla funzione privata di definizione e costruzione identitaria dell’individuo; dall’altro si fa strumento politico-religioso attraverso il quale la comunità dei credenti continua a esistere nella storia. 

Come uno specchio della società, la famiglia mediorientale è organizzata verticalmente secondo gerarchie e regolata da valori patriarcali. Nella vita famigliare di un bambino o di una bambina inizia la socializzazione ai modelli del femminile e del maschile attraverso lo scandirsi dei rapporti genitoriali dove la madre detiene un potere “temporaneo” sul figlio. Dopo i primi sette-nove anni di vita il bambino compirà quel rito di passaggio della circoncisione che segnerà il suo giungere, dalla maschilità – ossia la condizione biologica – alla mascolinità – il ruolo di genere. Se nei primi anni è stata la madre a curarsi del figlio, sarà poi l’autoritario e distaccato padre a dover guidare il bambino maschio. La bambina invece continuerà ad essere socializzata dalla madre e dalle altre donne di casa: 

«Per le donne invece, la lingua araba utilizza il termine unūah tanto con significato di “essere femmina” o “essere di genere femminile” quanto con quello di “essere molle”, sottolineando con quest’ultimo una sfumatura spregiativa, una semplificazione atta a ribadire il concetto patriarcale di subordinazione e debolezza dell’universo femminile rispetto a quello maschile.» M. Tarantino“La Giordania contemporanea tra cultura tribale e delitto d’onore” 

Una costruzione identitaria che segna una duplice costrizione, una duplice sofferenza: se gli uomini dovranno onorare il proprio ruolo machista e violento, le donne sentiranno il peso di una sessualità di cui hanno l’onere di custodire. Queste costruzioni identitarie, incarnate simbolicamente nella virilità dell’uno e nella verginità dell’altra, s’incontrano nel vincolo del matrimonio, l’unico luogo in cui l’atto sessuale viene legittimato. E a quel punto, la rottura dell’imene della donna durante la prima notte di nozze, rappresenterà non solo l’onore di lei ma quella dell’uomo, della famiglia e di tutta la comunità.  

Delitto d’onore in Giordania

In Giordania la popolazione è caratterizzata da un substrato tribale che include sia arabi musulmani che cristiani ortodossi, i quali di solito appartengono a tribù di natura nomade, semi-nomade o sedentaria. Questa struttura contribuisce a una rete complessa di pratiche e consuetudini che, in molti casi, si sovrappongono o sostituiscono le leggi ufficiali dello Stato, creando una coesistenza di poteri che risale alla nascita dello Stato giordano moderno.

È proprio grazie a questa eredità culturale che la protezione dell’onore e della reputazione si è evoluta nel tempo, assumendo forme di violenza che sono moralmente accettate e normalizzate dalla comunità, in particolare nei confronti di chi mina l’onore e la dignità della famiglia.

Il codice di comportamento non scritto riservato alle donne è necessario al mantenimento dell’onore della famiglia, il quale gli uomini hanno il compito di proteggere e mantenere e che una volta perso, non può essere ripristinato.

Il delitto d’onore può essere letto come un reato culturalmente orientato e nasce proprio da questa responsabilità tutta al femminile dell’onore rappresentativo dell’uomo. La condotta vuole che la donna sia pudica e riservata per tutta la sua vita e in ogni ambiente che abita. Le cause del delitto d’onore possono essere di vario tipo: dalla conversazione di una donna con uno sconosciuto in un posto pubblico, all’assenza prolungata da casa; dal rifiuto di un matrimonio combinato, all’arrivo di una gravidanza illegittima se pure consumata da una violenza. 

«I delitti seguono poi uno schema che si ripete in gran parte dei casi: in una prima fase vi è la presa di coscienza da parte della famiglia del “disonore”, spesso oggetto di discussione di vere e proprie riunioni familiari, seguita dalla designazione di chi dovrà portare a compimento il delitto. Generalmente, l’esecutore materiale dell’omicidio è il fratello della vittima, sebbene all’azione possano concorrere tutti i parenti maschi più prossimi (il padre, lo zio paterno o il cugino), con impiego di armi di vario tipo fra cui coltelli, pistole o veleno nel cibo. Trattandosi di delitti che solitamente avvengono in aree lontane dai grandi centri abitati, spesso i corpi vengono abbandonati in zone remote, rendendone più difficile la scoperta, l’identificazione e complicando la successiva indagine.» M. Tarantino – “La Giordania contemporanea tra cultura tribale e delitto d’onore” 

Legittimare un carcere che “protegge” le donne in Giordania

Nel 1992 la Giordania firma la Convention on the Elimination of all Forms of Discrimination Against Women (CEDAW) che diventa effettiva nel 2007. Nel 2008 il Parlamento pubblica il Protection from Family Violence Law con lo scopo dichiarato di voler coadiuvare la riconciliazione fra i membri delle famiglie in conflitto. Nonostante le intenzioni, il testo resta poco chiaro e polveroso su alcune questioni fondamentali, come la stessa definizione di violenza che viene relegata nell’ambiente domestico. Il delitto d’onore resta di fatto facilitato dal codice penale, da letture misogine della religione musulmana e dalla forza delle consuetudini tradizionali. L’articolo 340 del Codice penale giordano fino al 2001 rendeva possibile la completa assoluzione degli accusati e nonostante le modifiche del testo tese a rendere le disposizioni più neutre, a oggi si recitano i benefici delle attenuanti per un uomo che dopo aver scoperto in ”flagrante delicto” sua moglie o parente la ferisca o uccida.  

«Nessuna donna è detenuta senza motivo, pertanto può avvenire (che essa venga detenuta) per proteggere la sua vita futura, l’eventualità di una disgrazia sociale.» – ibidem, cit. intervista di Amnesty International al Direttore del Dipartimento per i Diritti umani del Ministero degli Interni giordano (2020)

Così accade che per “salvare” la vita a donne che hanno macchiato l’onore della propria famiglia – magari per essere state stuprate e poi aver rifiutato il matrimonio con il carnefice, per essere fuggite via, per avere il grembo il frutto della violenza – queste vengono messe in carcere. In che senso?

Dopo essere stata costretta a sottoporsi a test medici “sulla verginità”, dopo essersi salvata dalla famiglia, dopo aver tentato invano di denunciare alle autorità la sua condizione di pericolo, per effetto del Crime Prevention Act del 1954 può succedere che una donna venga detenuta a “scopo tutelare”. 

  • Nel 2013 la maggioranza della popolazione detenuta femminile si trova nel carcere dei Juweida: vivono in condizioni precarie, vittime di abusi fisici e psicologici. Donne giovani, senza figli né marito, poco abbienti, donne che hanno subito violenze in ambito domestico, che sono state abbandonate dalle famiglie dopo l’incarcerazione. Per entrare e per uscire è necessaria la decisione del governatore locale che però non può acconsentire alla scarcerazione se non è sicuro che la famiglia non abbia intenzioni punitive. Così alcune ricorrono ai matrimoni combinati, altre vanno incontro alla libertà con una sentenza di morte appena fuori le porte del carcere.
  • Nel 2017 inizia ad accendersi il dibattito pubblico intorno alle questioni relative al delitto d’onore, i primi passi verso un’inversione di marcia vengono mossi grazie alle cronache giornalistiche, al lavoro delle associazioni e a una parte moderata del mondo islamico che guardano al problema riconoscendone le radici culturali.
  • Nel 2018 è istituita la casa-rifugio Dar Amneh per permettere alle donne in detenzione amministrativa di avere accesso a servizi, opportunità e assistenza per il reinserimento nella società. Tutti fattori negati all’interno del carcere di Juweida.

Il governo Hashemita sembra aver mostrato così un doppio atteggiamento che da un lato è caratterizzato dalla volontà di rendersi partecipe di un processo di riforma, dall’altro –  impedendo il trasferimento delle donne dal carcere alla casa-rifugio – si fa portatore di un potere arbitrario sulle donne tentando di convincerle a “tornare sotto la protezione maschile”.

«La difficoltà nel debellare il fenomeno è dovuta alla refrattarietà dell’intero sistema valutativo dei reati, il quale esprime, attraverso i vari organismi coinvolti, forme reiterate di male guardianship, partendo dagli uomini della famiglia per giungere ai medici incaricati di sottoporre le donne a test di verginità e gravidanza, al personale carcerario e in ultimo ai giudici chiamati a esprimersi nei processi.» M. Tarantino – “La Giordania contemporanea tra cultura tribale e delitto d’onore” 

Questo focus fa parte della Campagna PID “Assorbire il cambiamento 2.0” – Un’iniziativa che prevede la donazione degli assorbenti in carcere, la realizzazione di laboratori e incontri all’interno di istituti penitenziari femminili e strutture di accoglienza per promuovere maggiore consapevolezza sul ciclo mestruale e sui “nuovi” prodotti igienico sanitari ecologici quali coppetta, slip e mutande assorbenti. Leggi di più qui.

Il carcelazo – la sindrome del carcere in Bolivia

ALESSIA

«Il termine carcelazo non era conosciuto da tutti i reclusi di San Pedro. Lo utilizzavano quei detenuti che avevano contatti con carcerati stranieri i quali, probabilmente, lo avevano sentito in altre prigioni latinoamericane» (“La casa di sapone. Etnografia del carcere boliviano di San Pedro” Francesca Cerbini

Il carcelazo è una malattia che non esiste nei libri di medicina, né probabilmente al di fuori dell’istituto penitenziario che ne è per l’appunto la causa, l’agente patogeno, come suggerisce il nome stesso. Eppure il carcelazo è reale ed è significato  in modi diversi dagli interlocutori dell’antropologa Francesca Cerbini. 

Mal di cuore, mal di testa, furto dell’animo. Può essere il diavolo che ti afferra o la depressione. In tutti i casi, questo tipo di patologia non viene mai o quasi esplicata dalle persone che ne sono colte alle diverse soggettività terapeutiche esistenti nella casa di sapone boliviana. Né con il medico, né con lo psicologo e spesso neppure con lo yatiri, si corre il rischio di esser presi “per matti”. E allora si cerca di trovare le parole giusto per spiegare un malessere indicibile

NB. In Bolivia lo yatiri può rappresentare una guida spirituale e tradizionale, spesso legata alle pratiche andine. Come nelle comunità extramurarie, in carcere lo yatiri è il saggio che, in connessione con l’esoterico, fornisce consulenze e somministra preghiere, rituali o letture – spesso con le foglie di coca. Può essere un punto di riferimento per le persone in carcere anche per dare senso al male dell’essere rinchiusi.

« […] anche se voi non ci credete, sono morto» (2016. F. Cerbini, p.183) 

Descritto come qualcosa che annienta i sensi, il carcelazo è una forma di disperazione che colpisce le persone in seguito alla presa di coscienza dell’essere recluso, o dopo una serie di eventi negativi. Gli interlocutori dell’etnografa che sperimentano il carcelazo,  raccontano che la manifestazione dei sintomi arriva in momenti ben precisi: ad esempio dopo l’emissione del verdetto, o per chi aveva creduto di esser stato incarcerato per sbaglio, quando realizza che non uscirà tanto presto. 

Non è possibile dare a questa sindrome un tempo o associare dei sintomi che siano validi per tutti, in quanto il carcelazo è intrinsecamente legato al vivere il carcere e ogni persona lo vive in modo differente. Questa patologia pare delinearsi in due forme: una leggera e una più grave. Per la prima può parlarsi del disorientamento iniziale di entrare in carcere e il rimedio è spesso l’uso delle sostanze stupefacenti, metodo magari utilizzato già fuori dalle mura. La seconda si abbatte sul corpo del detenuto prigioniero zzato dopo il pronunciamento della condanna, in genere quando sono già passati uno o due anni dall’incarcerazione.

«Prendeva forma una specie di calendario del malessere del carcelazo che mostrava i suoi ancoraggi simbolici negli avvenimenti giudiziari o affettivi più rilevanti: l’entrata o il compimento del primo anno di reclusione, i diciotto mesi attesi per cercare di ottenere la “retardación de justicia”, la condanna o l’allontanamento della famiglia. Per cui ognuno, sulla base delle proprie propensioni e della situazione personale, segnava il ritmo della sindrome». (ivi, p.184)

NB. La “retardación de justicia” è uno degli aspetti che caratterizza le ingiustizie dell’iter giudiziario boliviano di chi è preventivamente detenuto in misura cautelare e aspetta la scarcerazione per decorrenza dei termini.

Gli eventi scatenanti il carcelazo non riguardano solamente il fallimento del percorso giudiziario ma tutto quello che riguarda la vita della persona condannata, quindi anche – e a volte soprattutto – le relazioni con l’esterno, la famiglia, gli affetti. La rottura dei legami, della quotidianità precedente al vivere ristretto, di un’identità personale conduce al carcelazo che si configura a questo punto come “perdita si senso dell’esistenza”. E oltre alla disperazione, al mal di cuore, alla perdita di senso, la sindrome del carcere colpisce il corpo del detenuto indebolendolo, abbassando le difese

«D. Quando le è venuto il primo carcelazo

I problemi arrivano tutti insieme. Avevano pronunciato la mia condanna, mia moglie smette di portarmi mio figlio […] e improvvisamente in una settimana ero pieno di problemi: familiari, economici, la condanna… e ti fanno deprimere. Non mancano i buoni amici che ti fanno provare droga e alcol, quell’alcol rosato, non il bianco. Non sei quasi interessato alla vita.

D. Quanto dura il carcelazo?

Dipende da ognuno. Io avevo voglia di uccidermi ed ero diventato uno straccio. La famiglia ti abbandona, hai sempre più problemi, e vorresti impiccarti […]. Alcuni, quando hanno avuto la loro condanna a trent’anni, si sono uccisi. Una coppia si è uccisa insieme dopo la sentenza.

D. È questo il carcelazo?

Sì, non ce l’hanno fatta a resistere qui dentro. È la depressione, quando ti senti solo, abbattuto, quando nulla ha più senso, quando senti che il mondo non ha più senso nella tua vita. – Jaime, sezione Álamos, 6 marzo 2008» (ibidem)

Il carcere in Bolivia è chiaramente molto diverso da quello che conosciamo qui oggi in Italia e non è questo lo spazio adatto per affrontare tutti gli aspetti che lo caratterizzano. Non è però un caso aver scelto questo in particolare, il carcelazo è una sindrome che agisce sul corpo della persona detenuta in conseguenza stessa della sua pena che seppur vuole definirsi incorporea, è invece indubbiamente il contrario. Come in Bolivia, in Italia e probabilmente nel mondo. 

Se sei interessat* ad approfondire faccelo sapere nei commenti, ti consigliamo comunque di leggere il libro di Cerbini

La banalità del male

ALESSIA

Il male è banale, è semplice, quotidiano. Seppur le sue ragioni, radicate nella realtà stessa della società, siano complesse, esso dilaga nel silenzio e nel tacito accordo che si stringe tra relazioni squilibrate di potere di pronunciare, agire e diffondere la violenza fino a quando questa arrivi a non lasciare più alcun stupore, fino all’indifferenza. Si tratta di sminuire, di ridurre, di semplificare un atto banale di male, come può essere quel ceffone dato a una compagna che “non sapeva comportarsi” di fronte a uomini che non erano il suo. Si tratta di semplici gesti quotidiani, di parole come “uccidere bambini” indirizzate a chi sceglie di interrompere una gravidanza. Si tratta, ancora, di un bombardamento di notizie, immagini e gossip sulle storie violente, sul male che incombe, sulle vite spezzate e quelle da rinchiudere, sulle ipocrite prese di posizione contro persone e popoli oppressi. 

NB. Questo male di cui parliamo non è un male tipo la parte oscura della moneta: retta via/peccato, bene divino/male infernale ecc. Ci siamo appropriat3 delle parole di Hannah Arendt proprio per questo. Magari è giusto citarne un passo per indirizzarci meglio al discorso. 

«Quel che ora penso veramente è che il male non è mai ‘radicale’, ma soltanto estremo, e che non possegga né profondità né una dimensione demoniaca. Esso può invadere e devastare il mondo intero, perché si espande sulla superficie come un fungo. Esso ‘sfida’ come ho detto, il pensiero, perché il pensiero cerca di raggiungere la profondità, di andare alle radici, e nel momento in cui cerca il male, è frustrato perché non trova nulla. Questa è la sua ‘banalità’. Solo il bene è profondo e può essere radicale.» – H. Arendt “La banalità del male, Eichmann a Gerusalemme (1963)

 

Quel tacito accordo, quell’accettare di vedere e ascoltare il male senza riconoscerlo, è stato intessuto fino a oggi per poterci permettere di avere tra le cariche del governo persone che dicono cose aberranti come:

«L’idea di veder sfilare questo potente mezzo che dà il prestigio, con il gruppo operativo mobile sopra. Far sapere ai cittadini chi sta dietro a quel vetro oscurato. Come noi sappiamo trattare chi sta dietro quel vetro oscurato. Come noi non lasciamo respirare chi sta dietro quel vetro oscurato. Credo sia una gioia, è sicuramente per il sottoscritto, un’intima gioia

A pronunciare queste parole, Andrea Delmastro Delle Vedove, Sottosegretario di Stato alla Giustizia. Parole che hanno indignato non poche persone, quelle almeno che tentano di resistere a questo dilagare violento smantellamento dei diritti umani. Nella nostra bolla, ci sembra a volte inverosimile. Tra di noi ci scriviamo preoccupati, amareggiati, disillusi. Condividiamo frustrazioni che non sappiamo come risolvere, lo sconforto è reale quanto l’impossibilità di smettere di credere che qualcosa cambi. Parlo del lavoro che svolgiamo ogni giorno, dell’impegno e la determinazione che gli educatori, le educatrici del PID e non solo investono in quelle attività che coinvolgono la loro vita per intero, senza momenti veramente liberi dalle responsabilità di accogliere, ascoltare e tentare di sfruttare qualsiasi mezzo a disposizione per permettere e rendere possibile alle persone che vivono le ristrette condizioni che il carcere gli ha lasciato addosso, di costruire una nuova vita. E ci vuole coraggio a farlo, non perché, come ai più potrebbe venire alla mente, si lavora con persone “pericolose”, ma perché si lavora per mettere toppe a un sistema che vacilla, che non funziona, che cade a pezzi negli intenti e nei valori che l’hanno messo in piedi. Parliamo di carcere come un’istituzione che non ha mai avuto, forse nella storia dell’umanità, un reale motivo di esistere se non quello della reclusione e della limitazione della libertà personale con il solo fine di punire chi ha rotto il “patto sociale”. Parole come “risocializzazione” abbiamo già sottolineato altrove, sono solo la base dell’ipocrisia insita nello stesso concetto di galera. 

«Parliamo di rieducazione e di risocializzazione come scopi ultimi delle pene, da un lato e di un’istituzione totale che separa – come prima e solenne ragion d’essere – le persone che commettono il reato dal resto della società nella quale è previsto il cosiddetto reinserimento.» – Dall’articolo “Donazione assorbenti per il carcere: cosa può significare il rifiuto di un dono da parte di un’istituzione?”

Perché il carcere è qualcosa che chiude e non apre alle possibilità, è un posto predisposto a eliminare l’umanità ad abbatterla. Non solo per chi la abita per “pagare” i suoi errori, ma anche per chi la vive per lavoro. Un’istituzione totale, come scriveva Erving Goffman, non è altro che «un luogo di residenza e di lavoro» dove agglomerati di persone sono tenute lontane dalla società per un significativo lasso di tempo. E sono, questi gruppi di persone, accomunati dalla medesima condizione di dover trascorrere porzioni di vita in «un regime chiuso e formalmente amministrato.» 

 

E se siamo poco indignati di fronte all’intima gioia di un umano di non far respirare un altro è perché il male è banale e ci ha sopraffatti, oltre che assuefatti. Perché è da tempo che sentiamo le notizie di chi si toglie la vita in carcere, del sovraffollamento, degli abusi di potere contro quei corpi rinchiusi. Siamo avvezzi a queste violenze continue e non ci stupiscono più. 

Pensiamo al potere delle parole, pensiamo alle reali conseguenze che generano: parliamo dei recentissimi casi emersi dal carcere di Trapani? Abbiamo letto le invettive, accompagnate dalle botte a secchiate di piscio di alcuni agenti penitenziari sui corpi indifesi, testimoni di ingiustizia, delle persone detenute. 

Male legittimato dall’essere compiuto verso quegli ultimi che ci hanno insegnato a disprezzare, a temere, a evitare, senza però conoscere. Si dipingono le persone che commettono reati come bestie senza cuore, ed è facile così cadere nell’errore che allora, nei loro confronti, tutto è lecito. La violenza, l’umiliazione, la crudeltà. Ed è in questa banalità che si arresta il pensiero, si riduce la complessità tutta umana di agire e sentire del mondo.

Assorbire il cambiamento 2.0

Una Campagna di raccolta assorbenti e slip mestruali per il carcere in occasione della Giornata Mondiale dell’Igiene Mestruale del 28 maggio

 

Il P.I.D. Pronto Intervento Disagio Onlus, lancia la Campagna Assorbire il cambiamento per raccogliere e donare assorbenti agli istituti penitenziari femminili e alle persone in esecuzione penale esterna ospiti all’interno di case famiglia.

L’iniziativa, iniziata tre anni fa con la collaborazione di diverse realtà del terzo settore romano, quest’anno prevede, oltre alla donazione, la realizzazione di laboratori e incontri all’interno di istituti femminili e strutture di accoglienza per promuovere maggiore consapevolezza sul ciclo mestruale e sui “nuovi” prodotti igienico sanitari ecologici quali coppetta, slip e mutande assorbenti.

 

Le donne sono una netta minoranza della popolazione detenuta, poco più del 4%, ma si confrontano con tutte le problematiche legate al sistema penitenziario, alle quali si aggiungono specifiche questioni accentuate dal fatto che la detenzione è pensata per un mondo al maschile che non prevede le diverse identità di genere. Negli standard internazionali, definiti dalle Nazioni Unite, per il trattamento delle donne detenute e le misure non detentive per le donne autrici di reato (Regole di Bangkok, luglio 2010), la salute mestruale è un requisito fondamentale che prevede la distribuzione gratuita di assorbenti. Nel nostro paese se ne occupa l’Amministrazione penitenziaria che però non garantisce le quantità necessarie di assorbenti in base alle singole esigenze, tantomeno la scelta di un modello o di una marca. Chi ha la possibilità economica li acquista attraverso il cosiddetto “sopravvitto”, una sorta di negozio interno all’Istituto Penitenziario, chi non ha possibilità economica deve adeguarsi alla fornitura prevista. Durante il primo anno della Campagna, il PID ha raccolto diverse testimonianze che confermano la mancanza di azioni volte a garantire e promuovere la dignità mestruale. 

 

Se lo scopo immediato della Campagna è portare un beneficio concreto alle persone recluse, quello a lungo termine è promuovere il cambiamento attraverso il coinvolgimento delle singole persone, della società civile organizzata e delle istituzioni, favorendo la conoscenza della reale condizione delle donne che vivono in carcere. Lo scorso anno, grazie a una notevole partecipazione della cittadinanza, abbiamo portato oltre 2000 assorbenti negli istituti penitenziari laziali e nelle strutture di accoglienza per persone detenute ed ex detenute. 

La raccolta inizia mercoledì 20 novembre 2024 e si conclude mercoledì 28 maggio 2025, per partecipare si possono donare assorbenti classici di qualsiasi marca e modello e gli slip assorbenti, mentre i tamponi in carcere non possono entrare

 

I materiali donati possono essere consegnati presso i seguenti punti di raccolta nei giorni e negli orari indicati:

  • Casa delle donne Lucha Y Siesta – il mercoledì e il giovedì dalle 11 alle 13.30. Via Lucio Sestio 10.
  • L’Archivio14 – il giovedì e il venerdì dalle 17 alle 19, il mercoledì anche la mattina dalle 10 alle 12. Via Lariana 14.

Se non si ha la possibilità di recarsi in uno dei precedenti punti di raccolta, i materiali possono essere spediti alla Sede legale della Cooperativa PID Onlus, all’indirizzo: Via Eugenio Torelli Viollier, 109 – 00157 Roma.

Tutti gli aggiornamenti relativi a nuovi eventuali punti di raccolta saranno condivisi sui canali social Facebook e Instagram dell’associazione.  Se si vuole organizzare un punto per la raccolta assorbenti scrivere a: massaroni.pidonlus@gmail.com.  

Persone straniere detenute in Italia

Nel microcosmo carcerario italiano, le persone straniere detenute sono spesso trattate come un’unica categoria omogenea, senza considerare le specificità delle diverse comunità di provenienza. Come espresso da Antigone nel Ventesimo rapporto sulle condizioni di detenzione in Italia, sarebbe invece opportuno avviare una riflessione che complessifichi la realtà, sia per le politiche penali, sia per le opportunità di accesso alle misure alternative alla detenzione. 

Secondo i dati rilevati da Antigone, al 31 marzo 2024 la popolazione detenuta straniera nelle carceri italiane per adulti è pari al 31,3% di quella totale. Una percentuale in calo che rappresenta un significativo abbassamento rispetto ai picchi registrati nel passato, quando la percentuale superava il 37%. Negli anni 2008-2013, il numero degli stranieri in carcere non è mai sceso sotto le 20.000 unità. 

Il tema della sicurezza, di cui abbiamo discusso ampiamente in altri articoli e che ci riporta inevitabilmente anche al lavoro del Dossier statistico immigrazione 2024, è in gran parte un esercizio di propaganda. In realtà, focalizzarsi solo su questi numeri non aiuta a sviluppare politiche efficaci di prevenzione o di giustizia sociale.

 

Emerge un dato interessante riguardo la questione delle persone straniere ristrette in Italia, cioè quello relativo al tasso di detenzione degli stranieri: la percentuale degli individui detenuti rispetto alla popolazione straniera residente in Italia. Secondo i dati Istat, la popolazione straniera in Italia è cresciuta negli ultimi quindici anni, passando da 3,89 milioni di persone nel 2009 al 5,14 milioni nel 2023, pari all’8,7% della popolazione totale

Nonostante questo aumento, il numero di persone straniere detenute in carcere è diminuito, il che smentisce l’idea di una “emergenza criminalità” legata all’immigrazione.

Nel 2024 il tasso di detenzione per gli straniere è sceso allo 0,37%, con un calo complessivo di 0,24 punti percentuali negli ultimi 15 anni. Questo riflette una tendenza positiva che suggerisce che le politiche di regolarizzazione e integrazione (quando funzionano) hanno un impatto positivo sulla riduzione della criminalità, contribuendo a una minore incidenza di reati tra gli stranieri.

 

Quando si analizza la popolazione carceraria straniera, è fondamentale anche considerare le specificità delle singole nazionalità. Ogni gruppo presenta sfide e caratteristiche diverse, legate tanto al contesto socio-politico di provenienza quanto alle difficoltà incontrate in Italia a causa dei pregiudizi e gli stereotipi xenofobi fomentati e legittimati dalle poetiche nazionalistiche che urlano alla “difesa dei confini”. L’ordinamento penitenziario prevede nella teoria un trattamento personalizzato della persona ristretta che tenga conto delle differenze culturali, sanitarie e sociali.

Riprendendo ancora il Dossier, nello specifico il contributo di Sofia Antonelli (Associazione Antigone) leggiamo:

«Nonostante la loro contrazione, gli stranieri in carcere continuano ad essere sovra- rappresentati rispetto alla loro incidenza sulla popolazione residente in Italia. Indigenza ed emarginazione sociale aumenta, insieme al rischio di commettere reati, quello di finire in carcere anche solo per attendere la condanna o per scontare una pena breve, che invece potrebbe essere espiata con una misura di comunità. […] A prescindere dalla gravità del reato, più si adottano misure contenitive, più cresce la sovra-rappresentanza degli stranieri, visto che per gli italiani resta più facile accedere a percorsi alternativi alle restrizioni del sistema penale. Ciò è ancor più vero per i minori stranieri, la cui sovra-rappresentanza negli istituti minorili è anche più alta di quella degli adulti. Sebbene tra tutti gli infra-25enni residenti in Italia gli stranieri rappresentino l’8%, al 15 giugno 2024 quelli in carico dei servizi di giustizia minorile rappresentavano il 23% del totale e, dei 555 ragazzi detenuti negli istituti penali per minorenni (Ipm), quelli di origine straniera erano 266, il 48%.»

Stefano Cucchi – 27 ottobre 2024

LIVIA

Domenica 27 ci sarà il “memorial Stefano Cucchi“. 

È triste celebrare una morte, e lo è ancora di più quando questa è stata causata da abuso di potere prima e trascuratezza poi da parte delle forze dell’ordine e delle istituzioni.

Sono passati 15 anni da quando Stefano è stato ucciso a suon di botte e abbandono, 15 anni durante i quali si sono susseguiti processi, carte, solidarietà, ingiurie, cattiverie, abbracci, film, speranze, iniziative, parole, sconfitte e vittorie (per modo di dire, perché in questi casi non c’è vittoria che possa consolare).

 

Sarebbe bello potersi unire semplicemente per ricordare una persona che non c’è più, invece in questo caso è necessario farlo anche per sottolineare le cose che ancora non vanno nel sistema giustizia e nel sistema carcere.

Quotidianamente i diritti delle persone detenute vengono calpestati e troppo spesso la detenzione si trasforma in una punizione fine a se stessa, in trattamenti mortificanti, in corpi vessati dentro e fuori.

 

Più che mai quest’ anno è necessario esserci e partecipare perché ci troviamo di fronte ad un governo cieco e ottuso che pensa di risolvere i problemi sociali attraverso decreti fatti di controllo, punizione e repressione.

Zittire per non ascoltare il contraddittorio, punire per non riconoscere il disagio, reprimere per evitare il dissenso.

Tutte e tutti direttamente o indirettamente saremo colpiti da una delle tante regole contenute nel “pacchetto sicurezza” o dagli altri tentativi liberticidi che provano a smantellare diritti conquistati con fatica nel passato.

 

Partecipare è quindi importante, quest’ anno più del solito. Riunirsi nel nome di Stefano Cucchi è un modo per far sentire la propria voce, per guardarsi e riconoscersi, per dimostrare che riunirsi e dissentire non deve essere un pericolo.

 

Sarebbe bello immaginare che presto non serva più questo memorial, che il ricordo di Stefano possa finalmente tornare a una dimensione privata dove a ricordarlo sia chi lo ha conosciuto e vissuto nella sua totalità e non solo come vittima di un sistema barbaro.

Ma fino a quando quel giorno non arriverà bisogna continuare ad esserci e testimoniare, per questo domenica speriamo di vedere tanta gente, tanti volti diversi da quelli che incontriamo ogni anno e di respirare partecipazione e resistenza, sorridendo seppur nel dolore.

“La morte nel mio lavoro arriva sempre per telefono”

Le riflessioni di Laura dopo la notizia del suicidio a Ponte Galeria di una donna con la quale aveva lavorato 

Penso che la morte sia una cosa della vita, una di quelle dolorose. Ogni volta che mi ci sono trovata a contatto ho sempre avuto la sensazione  che la notizia mi arrivasse  da lontano, come un’eco che ti risuona dentro nel vuoto che quelle parole creano, il vuoto che fa spazio alla sensazione di dolore che presto ti avvolgerà e riempirà quel tempo del corpo inizialmente ed apparentemente sconfinato. Di fronte alla scomparsa di persone più o meno importanti della mia vita ho saputo istintivamente come comportarmi, ho capito che dovevo  imparare a dare un senso alla morte, trovarle un perché e ancor più quando questa si è presentata in maniera inaspettata e violenta, ogni volta sono riuscita a  tirarne fuori qualcosa.

 

Ma cosa bisogna provare se una persona per cui hai lavorato, per cui  e con cui hai cercato di costruire una via d’uscita da una vita che non le appartiene più, cosa bisogna provare se ti telefonano e ti dicono che questa persona si è impiccata a Ponte Galeria per la paura e la vergogna di essere  rimpatriata in un paese che era il suo solo anagraficamente? Qualcuno  mi dica cosa devo sentire.

 

Leggere una notizia del genere sul giornale  e darle un volto, una storia, una voce, un modo di parlare, degli occhi, un sorriso, pensieri, paure. Ecco questo cambia tutto. Lentamente diventa un fatto di cronaca, e i giorni, il tempo allontanano l’inquietudine ma lasciano spazio alla rabbia  che ara con calma un largo terreno dove  a coltivare riflessioni, quello che germoglia in breve tempo è frustrazione.

La sensazione viscerale si sviluppa nel distacco emotivo, un distacco necessario a sopravvivere per chi lavora “materiale umano”, e diviene impotenza dirompente, non è né il primo nell’ultimo nome che leggerò sul giornale,  ma solo incrociando la vita di questa donna, mi sono realmente resa conto che non sono solo nomi quelli che leggo, non che prima non lo sapessi, ma realizzarlo è differente.

 

La vita della gente sulle pagine dei giornali. E ognuno pensa  ciò che vuole, ognuno ha una sua opinione, in molti non battono ciglio, la vita di una persona nera fa meno notizia dell’ultima gaffe del presidente del consiglio, altri si arrabbiano, ma quanti poi alla fine si rendono conto di quello che stanno leggendo? Parliamo di persone il cui destino è scritto. Non lo è  nello “scegliere” di essere migranti, perché nella maggior parte dei casi non si tratta di scelte e per capirlo basta cercare di vestire altri i panni ed immaginarci a lasciare casa, affetti, figli, cultura, tutto quello che ci dà stabilità e  sicurezza, le uniche cose che rimangono ferme, immaginiamoci a salire su un aereo con un passaporto, 500 euro e una valigia se va bene e se va male a salire su un’imbarcazione di notte, nascosti, stipati come bestie e domandiamoci è una scelta questa? Domandiamoci qual è l’alternativa ad una scelta del genere? Il destino di queste persone è scritto e per la maggior parte di loro in percorsi di illegalità che sono lì pronti ad accoglierli e non è un segreto.

La cosa peggiore non è però che ci siano strade segnate dal passaggio di migranti e molte simili tra loro fatte spesso di fughe, violenze, arresti, droga, spaccio, prostituzione, furti e spesso necessariamente tossicodipendenza, l’orrore è capire che non è una strada ma una gabbia senza via di uscita studiata nel dettaglio da una società che ha bisogno di queste storie di queste vite per sopravvivere e produrre controllo. E mentre da una parte porta avanti la vecchia vecchissima deportazione di schiavi in catene che servono alla manodopera fondamentale per ogni paese (che oramai è troppo bassa quasi per chiunque  altro), dall’altra alimenta il razzismo e i conflitti mentre si copre di cristiana pietà.

 

La morte nel mio lavoro arriva sempre per telefono. Ahimé, ho una memoria fotografica e non dimentico mai un viso. E mentre quelle parole arrivano come un’eco, quello che visualizzo sono gli occhi delle persone e subito dopo la scena, come se fossi stata io a trovarle. Spesso e volentieri appese a una corda, perché tra i disperati impiccarsi va per la maggiore. Immagino la disperazione e quell’attimo. Perché di un attimo si tratta, di oscurità dove pensi che non ci sia alternativa alcuna se non questa. Vorrei potermela prendere con qualcuno vorrei che i meccanismi subdoli del potere avessero solo un volto, ma anche la dittatura si è modificata e continua a farlo proprio come un virus creato in laboratorio che  muta continuamente forma per non essere neutralizzato. Ma oggi è diverso, il fascismo è diverso e probabilmente dovrebbe avere anche un altro nome. Quella che abbiamo intorno è una dittatura mediatica infida, frutto di un lavoro lungo anni, fatta di pubblicità, televisione, di giornalismo pornografico, fatta di supermercati e di “formule” usa e getta, fatta di sfruttamento e di consumo e competizione che serve a dividere. Non è un nemico che si palesa ed è dunque difficile da individuare e combattere. Dico combattere perché è della nostra vita che si parla, perché tutti i meccanismi perversi sono riusciti ad entrarci dentro, nelle relazioni private, nei contesti lavorativi, nelle famiglie dentro ognuno di noi, ma  ognuno di noi può scegliere di ignorare o di non farlo, può scegliere di ignorare il trafiletto sul giornale che dice “clandestina si impicca” o può cominciare a farsi delle domande…e sarebbe già un buon inizio.

IPM – 365 giorni dopo il decreto Caivano

Le prevedibili, perniciose conseguenze ne Il dossier di Antigone sull’emergenza negli IPM

Sugli IPM italianiIstituti penali per minori – e sulla tempesta che gli si è abbattuta contro con il decreto Caivano, avevamo già detto lo scorso febbraio delle terribili conseguenze che un certo tipo di approccio, punitivo, criminalizzante e oppressivo, avrebbero prodotto. Riportando le ricerche e le riflessioni dell’associazione Antigone nel rapporto “Prospettive minori”, avevamo messo in luce i punti maggiormente critici del decreto.

Nell’ottica di una dialettica causa-effetto osserviamo quali sono i mutamenti introdotti a settembre 2023 che hanno comportato e con tutte le probabilità continueranno a comportare la crescita delle presenze negli Istituti Penali per Minorenni: 

«La possibilità di disporre la custodia cautelare in particolare per i fatti di lieve entità legati alle sostanze stupefacenti». Secondo il rapporto di Antigone infatti, se nel 2023 le ragazze e i ragazzi in misura cautelare erano 243, a gennaio 2024 il numero sale a 340.   

«L’aumentata possibilità introdotta dal Decreto Caivano di trasferire i ragazzi maggiorenni dagli IPM alle carceri per adulti». Il rapporto ci informa che quasi il 60% delle persone detenute nelle carceri minorili sono minorenni, principalmente tra i 16 e i 17 anni. – Istituti penali per minorenni – gli effetti del Decreto Caivano secondo il Rapporto di Antigone 

Se a soli pochi mesi dalla sua promulgazione il decreto in questione aveva già fatto aumentare esponenzialmente il numero della popolazione detenuta minorenne in Italia, quali sono le condizioni degli IPM un anno dopo?

«Non avevamo mai visto nulla di simile. Nonostante la nostra lunga esperienza nel monitoraggio delle carceri italiane, è la prima volta che troviamo un sistema minorile così carico di problemi e denso di nubi. La nostra preoccupazione cresce di giorno in giorno. Non riusciamo a immaginare come potrà finire questa storia.» – Dossier di Antigone

Prima di tutto quindi, l’aumento delle presenze negli IPM (+16,4%): un fondamentale passo indietro rispetto al passato in cui gli istituti penali per minori italiani si facevano portavoce di un sistema educativo che prevedeva per ragazze e ragazzi azioni e misure alternative più efficaci rispetto ad esempio a quelle previste per il sistema penitenziario per adulti. Se nel 2019 la popolazione detenuta minorile contava 382 persone su tutto il territorio nazionale, nel 2024 abbiamo un numero di presenze superiore a 500: una vetta mai raggiunta e per giunta in crescita. In crescita, come non è invece il numero di denunce e segnalazioni nei confronti dei minori. Tra l’altro, è anche da considerare, come scrive Antigone, che:

«sarebbero ben di più i ragazzi oggi in IPM se non fosse che il decreto in questione ha permesso il trasferimento al sistema degli adulti di tanti ragazzi che, avendo commesso il reato da minorenni, avevano compiuto la maggiore età.» – Dossier di Antigone

A sorprenderci poco sono poi le problematiche legate all’aumento delle presenze che riguardano il sovraffollamento, le condizioni di precarietà e la gestione repressiva delle proteste che non vengono ascoltate. 

Metà settembre 2024, 569 presenze negli IPM, tasso di affollamento medio del 110%. A superare la capienza media sono 12 istituti su 17.  Ricordiamo che dietro i numeri ci sono le persone con le loro storie e in questo caso, ci sono ragazze e ragazzi.

La situazione fotografata da Antigone (che vi invitiamo ad approfondire) ci lascia un forte senso di ingiustizia perché ancora una volta, a fronte di un evidente e lampante disagio giovanile e sociale si preferisce «assumere, sui castighi, la prospettiva della tattica politica». (“Sorvegliare e punire. Nascita della prigione.” Michel Foucault.)

Vita in carcere

Fuori dal contesto di criminalità in cui è entrato da giovanissimo, dopo anni di reclusione e vicino come non mai alla libertà, C riflette sulle condizioni che hanno accompagnato la sua vita in carcere.
In un periodo storico in cui le pene aumentano a dismisura, la criminalizzazione delle marginalità si moltiplica e le vite recluse perdono continuamente fette fondamentali della dignità umana, ragionare sui contesti non è mai stato forse così importante, o forse lo è sempre stato ma non si è mai fatto abbastanza.
Ridurre tutto agli atti delinquenziali senza pensare ai vissuti delle persone che li hanno commessi è il rischio che conduce a pensare attraverso categorie escludenti che invece di combattere la violenza e la criminalità l’alimentano con sempre nuove e più subdole forme. Oggi guardiamo la realtà per quella che è attraverso le parole di C ma non solo, guardiamo a quella realtà nascosta del carcere, guardiamo alle sue contraddizioni e alle sue ipocrisie ripercorrendo alcuni ricordi di chi è uscito a fatica dal 41bis.   
LE PAROLE DI C

Scorcio di vita in carcere 

Quando mi hanno dato il permesso e quindi ero uscito dal 41bis, andavo a discutere una cosa che si chiama “Collaborazione impossibile”. Cioè questo giudice doveva prendere tutte le sentenze dei miei processi ed esaminarle. Per dire, io e Tizia andiamo a fare un omicidio, il giudice dice che se questo fatto è stato commesso da voi due ed è stato tutto chiarito tu puoi accedere al beneficio. Diciamo ad esempio che dopo l’omicidio vado a buttare la pistola e questa pistola non si trova, il giudice dice che non è tutto chiarito. A me era tutto chiarito perché avevamo un tot di collaboratori di giustizia di cui uno di questi stava con me notte e giorno. Allora mi hanno dato il permesso, nel senso che mi hanno dato accesso ai benefici. Da quel momento non sono più considerato un mafioso. Allora la prima cosa qual è? Quella di prendere un non mafioso e toglierlo da in mezzo ai mafiosi. O no? Il giorno prima del permesso un agente mi chiama ad alta voce – per far sentire a tutti – chiedendomi l’orario in cui sarei uscito. Sono stato sommerso dai bigliettini, chi voleva una cosa, chi un’altra. Mi arriva un bigliettino con un numero di telefono, chiedo all’agente cosa devo fare: buttarlo, consegnarlo o fare la telefonata? L’agente guarda il bigliettino e me lo ridà, affermando fosse solo un numero di telefono, quindi potevo tenerlo senza problemi. Dopo 10 minuti vengo chiamato dal comandante che voleva farmi rapporto! Ho capito che mi avevano incastrato e in seguito alla mia reazione un po’ violenta, mi sono fatto 11 giorni di isolamento. Dopo 6 mesi da un rapporto disciplinare si può accedere nuovamente ai permessi. Io sono uscito dopo 5 anni! Tra l’altro quando è successo questo fatto io stavo discutendo la semilibertà, quindi sarei potuto uscire molti anni fa.

 

Sono stato trasferito in un altro carcere. Quando sono arrivato l’educatore che ha fatto? Si è seduto con le mie carte davanti, mi ha guardato e mi ha detto: “Ma lei non sarebbe mai dovuto uscire dal carcere, ma chi l’ha autorizzato?”

“Come infatti mi è costato cinquanta mila euro il primo permesso”.

“Lei fa anche dell’ironia!”

“Il magistrato mi ha fatto uscire, mica sono uscito io…”

“Eh ma qua non funziona così”.

Dopo due giorni la direttrice mi chiama e mi dice: “Qua non succederà mai che lei possa uscire dal carcere senza il mio parere favorevole” io l’ho guardata e le ho detto “Va bene”. 

 

Per quel parere favorevole, 5 anni. Dopo che gli abbiamo allestito una bellissima pasticceria, pe’ 5 anni hanno mangiato dolci gratis…

L’incarcerazione come sport olimpico nazionale

Si scherza? Non saprei. Parliamo ancora di sovraffollamento, di un tasso di suicidi ormai ben più che allarmante (siamo oltre i 70), un’emergenza carceri continua, che peggiora, si dilata a macchia d’olio e che svela le ipocrisie del sistema penitenziario italiano. Chiamarla ancora “emergenza” è quella moda che non passa mai, un po’ come quando si parla, nel pieno del fenomeno del cambiamento climatico, di emergenza ambientale e c*z*i vari. Ne parliamo ancora con tutto il rischio di sembrare monotematici: le problematiche delle carceri italiane sono strutturali, fanno parte del sistema che alimentano e no, non sono risolvibili aumentando le possibilità di incarcerazione. 

«A dire il vero, quando si parla di sovraffollamento in carcere, non si può più definirla un’emergenza: il nostro sistema penitenziario è in sovraffollamento strutturale dall’inizio degli anni ‘90 del secolo scorso.» – Stefano Anastasia per La Notizia.

Vorremmo condividere quello che il Garante dei diritti delle persone private della libertà del Lazio ha affermato in questi giorni, non perché a dirlo è stata una figura istituzionale, ma perché siamo totalmente d’accordo con lui! 

A cosa serve costruire più istituti penitenziari e dare più opportunità di accesso alle misure alternative, se aumentano i reati e le magiche soluzioni detentive per le persone che non sono in linea della normatività sociale? Ci sembra veramente assurdo, eppure c’era da aspettarselo, quello che viene normato con il nuovo Decreto Sicurezza: l’introduzione del reato di protesta (quindi la resistenza non violenta) è un grandissimo attacco alla democrazia. Immaginiamo, anzi rendiamoci conto che a essere criminalizzate sono tutte quelle persone che si battono per esprimere un dissenso, un parere, un ideale sfavorevole o contrario nei confronti della classe politica dominante e del suo operato. Si scherza? Purtroppo, ancora no. E queste persone rischiano il carcere. 

Pensiamo alla classica chiacchierata da bar: le persone detenute vengono dipinte come il peggior male della società, le stesse che sono per la maggior parte rinchiuse per reati che non ledono la persona…

«[…] tra le cause del sovraffollamento possiamo escludere l’aumento dei gravi reati contro la persona o contro la sicurezza pubblica, che non ha traccia nelle statistiche ufficiali. Il sovraffollamento, dunque, è in senso proprio un abuso di incarcerazioni che non risponde a reali esigenze di sicurezza e che non riesce a essere fronteggiato dalla pur enorme crescita delle alternative alla detenzione. Se ne dovessi individuare due cause, le indicherei nella fragilità di un sistema politico-istituzionale privo di effettiva rappresentatività e dunque votato a politiche populiste, particolarmente propense a un uso simbolico della giustizia penale, e nella progressiva desertificazione dei servizi di sostegno e integrazione della marginalità sociale, inevitabilmente destinata a finire in carcere in assenza di qualsiasi altra politica degna di nota.» – Stefano Anastasia per La Notizia.

Viviamo in questo mondo qui, dove non basta l’incarcerazione illegittima dei migranti nei CPR, non basta dare la possibilità alle persone minorenni di essere recluse in attesa di giudizio, non basta che le proteste vengono sedate col sangue dai manganelli fomentati dello stato di polizia, non bastano le gesta disperate di chi sceglie di porre fine alla sua vita tutto questo non basta per ragionare sulle condizioni di una società che perisce sotto le promesse inattese di albe raggianti che non sorgono mai. 

«Il governo pensa di dare soddisfazione al personale penitenziario, legittimamente frustrato dalle proprie condizioni di lavoro in carenza di organico e in ambienti fatiscenti e sovraffollati, bastonando i detenuti, come propone con l’introduzione del nuovo reato di ‘rivolta in carcere’, che sarà attribuibile anche a tre detenuti che si rifiutino pacificamente di rientrare in cella perché vogliono rappresentare al direttore, al magistrato di sorveglianza o al garante qualcosa che non funziona in cella o nella loro sezione. In questo modo, però, non si fa altro che esacerbare gli animi e rendere più difficile il lavoro del personale penitenziario e, in particolare, degli agenti che lavorano in sezione, a diretto contatto con i detenuti. Servirebbe, invece, lavorare per rendere possibile l’azione rieducativa delle istituzioni penitenziarie, a partire dall’adeguamento delle risorse umane ai bisogni della popolazione detenuta. Quindi, certamente va riempito l’organico della polizia penitenziaria, come si è fatto con gli educatori e come si sta facendo con i dirigenti, ma poi vanno ridotte le presenze in carcere a quei detenuti la cui gravità della pena consente e necessita l’opera rieducativa di cui la polizia penitenziaria è gran parte, restituendo al territorio quella marginalità sociale che invece ha bisogno di servizi di sostegno per una vita autonoma e indipendente nella legalità». – Stefano Anastasia per La Notizia.

La tortura in carcere – fattore endemico e culturale?

Alessia

Stamattina ascoltavo in treno il podcast “Chiusi dentro” di Massimo Razzi e Gabriele Cruciata prodotto in collaborazione con l’Associazione Antigone nel 2021. Una questione in particolare mi ha stretto le viscere, ancora una volta, quella della tortura nelle carceri italiane.

Era il 2017, appena poco prima che diventassi maggiorenne, di carcere poco conoscevo anche se già molto mi interessava e per la prima volta, con la scuola, sono entrata in un istituto di pena, dalle mura grigie, spesse, infinitamente alte. Ero una “bambinetta” alle prime armi e non avrei mai pensato che effettivamente poi quelle persone che abitavano in quegli spazi fatiscenti, minuscoli, sospesi, sarebbero diventate le persone con le quali oggi mi trovo a confrontarmi spesso (e volentieri!).

 

Era quindi solo il 2017, solo così di recente e dopo appena 30 anni dalla ratifica ONU del ‘97 è stato inserito tra i reati in Italia quello di tortura. Ne avevamo parlato qualche tempo fa anche nell’articolo “È vietata la tortura: il XIX Rapporto di Antigone sulle condizioni di detenzione”, ricordando dapprima come il nostro Codice penale definisse la tortura: quella serie di azioni che producono una profonda sofferenza fisica e/o psichica alle persone già prive della propria libertà. Dunque violenze di ogni genere, intimidazioni continue e durature nel tempo considerate – a buona ragione – fattori di degrado per la dignità della persona che le subisce. 

 

Nella puntata del podcast dedicata proprio alla tortura, all’ergastolo ostativo e al 41bis, “Fine pena quando” – che vi invito ad ascoltare –  tra le varie voci che incontriamo c’è anche quella di  Lorenzo Sottile: “un dottorando in diritto pubblico specializzato in carcere e tortura” che ha svolto attività di volontario in varie carceri europee e sudamericane. La tortura negli istituti di pena italiani, dice, è una questione endemica e culturale, a differenza di altri paesi, la stessa formulazione del reato di tortura nel codice penale “si presta a molte critiche”. La vaghezza e la discrezionalità di cui parla Sottile sono la caratteristica peculiare non certo solo di questo tipo di testo calato dall’alto in Italia. Si conferma la presunta tortura, ad esempio,  dopo aver comprovato i traumi a livello psicologico della persona che l’avrebbe subita. Come? In che modo? Con quale criterio? 

«In altri Stati se si fa riferimento alla normativa nazionale ovviamente la regolamentazione è differente, quindi anche un certo tipo di atto o violenza  fisica intenzionale o anche non intenzionale può essere ritenuto un atto di tortura.» – Lorenzo Sottile

Endemico e culturale quindi, una cosa tutta all’italiana – anche se non credo sia proprio così – quella di concepire il carcere come vendetta, di punire e sorvegliare panotticamente le persone già private della loro libertà, di produrre un’istituzione in cui gli attori sociali principali, agent3 e detenut3, sono in relazione tra loro alla “gatto e topo”. Dove il gatto è legittimato a ridurre in poltiglia il topo, a costruire trappole, a farlo vivere nella paranoia, a ricordargli tutti i giorni, in ogni minuto che la sua vita non è più vita. Molti infatti, magari pure in attesa di quella visibilità dei traumi psichici necessaria per confermare l’avvenuto atto di tortura, la vita scelgono di abbandonarla. Siamo oggi a 69. 

 

A fronte delle evidenti problematiche strutturali degli istituti di pena italiani, le risposte sono violente e legittimate! Ce lo conferma ancora una volta la vaghezza con cui si parla del reato di tortura. Si sceglie la via della repressione delle rivolte senza ascoltarne le ragioni. Reprimere, punire e alimentare di conseguenza un ciclo di violenza che no, non si esaurisce nella “discarica sociale” dove nessuno pare voler guardare. 

Non volendo generalizzare, voglio ricordare una cosa secondo me fondamentale per capire meglio che ad essere fallimentare è proprio questo sistema carcere: a morire di carcere non sono solo le persone detenute, sono anche gli agenti che ci lavorano. Questo dovrebbe far riflettere.

Intimità e affetti in carcere

Nel Ventesimo rapporto sulle condizioni di detenzione “Nodo alla gola” dell’Associazione Antigone, uno dei focus su cui si fa luce ancora una volta è quello che riguarda la negazione degli affetti in carcere

«L’intimità degli affetti non può essere sacrificata dall’esecuzione penale oltre la misura del necessario, venendo altrimenti percepita la sanzione come esageratamente afflittiva, sì da non poter tendere all’obiettivo della risocializzazione.» – parte delle ragioni mosse a sostegno della sentenza n. 10 del 2024 della Corte costituzionale sulla legittimità dell’art. 18 della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà). 

Durante il mio percorso all’interno della Cooperativa PID ho avuto modo di conoscere in prima persona diverse storie di vita reclusa, riascoltando le loro voci o rileggendo le loro parole, tra le diverse esperienze, i differenti modi di affrontare il carcere e gestire gli effetti della prigionizzazione, uno degli elementi che torna sempre è quello del contatto con le persone care.

“Io sono fortunato perché ho avuto la mia famiglia sempre vicino”.

“La mia forza è stata la mia famiglia, mia moglie con i miei figli”. 

A dicembre il nostro L aveva scritto già qualcosa al riguardo, definendo il detenuto come un “adultolescente” anche a causa della negazione da parte dell’ordinamento penitenziario dell’affettività sessuale in carcere. Qualcosa che negando il diritto all’intimità incide sui processi di trasformazione della persona detenuta e del suo corpo nell’involucro depersonalizzato che il sistema carcere plasma. 

«Ti accorgi, con Io sguardo perso nel vuoto/che c’era un “prima” ma che forse non ci sarà un “dopo”. Si finisce con il dissipare un legame o quantomeno si rischia di ridurlo ad un guscio vuoto. C’è una regressione “adolescenziale” del detenuto che si rassegna alla “piattezza” della vita quotidiana dietro le sbarre.» (Leggi qui “Il detenuto adultolescente”)

Degno di nota certamente il fatto che la Corte abbia accolto la sentenza del Magistrato di sorveglianza di Spoleto che abbiamo accennato prima, in quanto si presuppone che dietro questo atto vi sia un cambiamento di prospettiva proprio nella concezione della pena detentiva, per la quale non si dovrebbe appunto essere spogliati di tutte le cose che rendono una persona umana. Come ricorda Antigone non è questa la prima sentenza che si pone la questione spinosa dell’affettività in carcere – oltre quella più strettamente relativa all’intimità sessuale, anche quella delle relazioni sociali delle persone detenute con i propri cari più in generale. Rispetto al passato, l’attuale Collegio ha saputo dare risposte più concrete tentando di suggerire alla legislatura come muoversi per garantire alle persone private della propria libertà l’affettività e l’intimità, pur tenendo conto delle logiche securitarie che governano il sistema carcerario. Nonostante questo, nessuna proposta è stata mossa fino ad oggi.

«Non possiamo infatti non osservare che il legislatore, inteso sia come Parlamento che come Governo, mantiene una sostanziale inerzia, non risultando alcuna iniziativa in atto. Le indicazioni puntualmente formulate nella senza della Corte in tal modo sembrano indirizzarsi solo alle amministrazioni, centrale e periferiche, ed alla magistratura di sorveglianza. Il che reca con sé il rischio che si possano avere risposta assai diverse da un luogo ad un altro, con disparità di trattamento ancor più odiose dopo la pronuncia della Consulta. Senza contare che occorrerebbero stanziamenti ad hoc, oggi neppure ipotizzati.»

– Antigone Onlus (Leggi qui per saperne di più)

Alla ricerca del tempo perduto

Osservazioni sulle riforme dell’Ordinamento Penitenziario in Italia

MULLI – 12 agosto 2024

Sono passati esattamente ad oggi undici anni dalla costituzione con DM 2 luglio 2013 della Commissione Giostra, dal nome del suo Presidente docente di Diritto Processuale Penale alla Sapienza di Roma, meglio denominata “Commissione di studio per elaborare una proposta di interventi in tema di ordinamento penitenziario e in particolare di misure alternative alla detenzione”.

Gli atti della Commissione sono rimasti lettera morta, e le sue numerose pagine, possono essere tuttalpiù utilizzate per “incartar sardelle” rubando il termine a Giannone in relazione alle leggi e alla interpretazioni di Giudici e Avvocati del Regno di Napoli rimaste inascoltate, meglio inapplicate.

L’unica riforma, quella riconducibile a Guardasigilli Orlando del Governo Renzi del 2018, volta a modificare il nostro sistema carcerario restò lettera morta e il progetto di legge fu affossato dagli esecutivi successivi, sia di destra che di sinistra, succedutesi negli anni. Per estrema viltà, o meglio per mancanza di coraggio nell’adottare soluzioni migliorative alla condizione di chi era ed è condannato a pena definitiva o detenuto, di fronte ad un’opinione pubblica che non avrebbe ben compreso le profonde ragioni degli interventi diretti a migliorare l’Ordinamento Penitenziario.

 

Né di riforma sostanziale si può scrivere riguardo alla cd Cartabia, che si è limitata a modificare ed ad attuare a distanza dalla Legge di Depenalizzazione, la 689 del 1981, il sistema delle pene alternative alla detenzione, con un ritardo di oltre quaranta anni, riconoscendo anche ai Giudici del Processo rispetto a quelli di Sorveglianza la facoltà di applicarle in casi ben determinati, con aggravio di attività da parte degli Uffici di Esecuzione Esterna (UEPE).

Una goccia nel mare. Né certamente si può scrivere di modifica del nostro Ordinamento Penitenziario, in riferimento al Progetto di Riforma cd Nordio, appena licenziato dalla Camera.

Anzi nel leggere il contenuto della norma, è evidente a tutti, che la soluzione del Problema Giustizia, non può, da parte mia aggiungerei non deve, risiedere solo ed esclusivamente nella previsione di un piano di intervento per la realizzazione di nuovi istituti carcerari, ma deve necessariamente comportare soluzioni immediate a migliorare l’attuale condizione personale di chi è detenuto o per pena definitiva o in alcuni casi, troppi per la verità, in attesa di giudizio.

Anche la possibilità per chi detenuto, di attivarsi il lavori di pubblica utilità, con nuovo comma introdotto nell’Art. 21 OP, non rappresenta una novità, limitandosi a riproporre quanto già disposto nell’Art. 20 ter, norma rimasta per lo più inattiva, se non in alcuni Istituti Carcerari per illuminata Volontà di chi li dirigeva, e non comportando benefici carcerari in relazione alla pena da scontare di chi usufruisce della misura.

Poco o nulla in breve, e non mi dilungherò ulteriormente, tranne che per rimarcare, se ce ne fosse ulteriore necessità, che nel frattempo chi è detenuto continua a patire condizioni indegne, con esperienze che definire devastanti è riduttivo e che di conseguenza, chi non riesce a venirne fuori, non trova altra soluzione che porre fine alla propria esistenza in questa torrida estate del 2024, nell’assoluto silenzio della politica, che non è in grado, o meglio non vuole, mettere fine a questa situazione che rappresenta, prima che una vergogna, un fallimento non solo per le Istituzioni, ma per tutta la società civile.

Alla “Ricerca del Tempo Perduto” dunque, o meglio “Adelante Pedro con judicio”.

La morte di unə, il dolore di tant3

LIVIA

Due settimane fa abbiamo scritto un articolo sul sovraffollamento, il caldo e i suicidi in carcere.

Il tempo di pubblicarlo ed è uscita la notizia di un nuovo suicidio e poi di un altro, e poi di un altro ancora.

Tenere questo conto comincia a diventare difficile sotto tutti i punti di vista, solamente chi dovrebbe farsene carico, lo stato e chi lo rappresenta, sembra non avere difficoltà in merito.

Perché questo è importante sottolineare, il carcere è un’istituzione statale, come le scuole e gli ospedali per intenderci.

Tutt3 dovremmo interrogarci sul perché, invece, è diventato e viene percepito come un mondo a parte dove tutto può succedere.

 

Se già più volte ci siamo soffermat3 sul lato politico e sociale dei numerosi suicidi che stanno avvenendo, ora il nostro pensiero si sofferma sul lato emotivo.

La morte di una persona provoca dolore e spiazzamento, la morte per suicidio provoca una miriade di altre sensazioni e riflessioni.

E dietro la morte di una persona c’è il dolore di tant3.

In questi casi c’è il trauma di chi ritrova un corpo senza più vita, che siano poliziott3 o altr3 detenuti; c’è il dolore e lo stupore di chi fino a qualche ora prima aveva condiviso tempi e spazi ristretti; c’è soprattutto il dolore e la disperazione di chi è fuori e a quel “detenutə suicida” voleva bene.

Dolore al quale si aggiungono rabbia, perché il carcere dovrebbe custodire e non uccidere; rimorso, per non aver capito quanto poteva succedere; rimpianto, per un’ultima carezza mancata.

Le persone detenute che si stanno togliendo la vita sono esseri umani non numeri, proviamo ad immaginare cosa significa la perdita di una persona cara, proviamo a ricordare cosa abbiamo provato quando ci è successo.

 

Purtroppo sappiamo tutt3 che ci saranno altre morti e altre rivolte, in un effetto domino potenzialmente infinito.

Purtroppo sappiamo tutt3 che continuerà il silenzio istituzionale, figlio di un disegno repressivo ampio e ramificato.

Purtroppo sappiamo che anche le nostre sono solo parole, lette da poch3 e condivise da pochissim3, ma continueremo a scrivere, a lavorare, a lottare e indignarci finché avremo fiato.

Gli anni del Covid in carcere

Il periodo pandemico è ormai storia lontana, la guardiamo quasi con disorientamento, chiedendoci se sia successo davvero. Siamo stat3 chius3, nelle nostre case, con orari da rispettare, documenti da compilare per uscire, controlli, dispositivi di sicurezza … La quotidianità stravolta del nostro fuori si è forse avvicinata a quella di molte persone private della loro libertà, le quali hanno vissuto proprio in quel periodo l’acuirsi del disagio che versavano le loro “case” circondariali
DOMENICO

Quando sono uscito io non m’hanno fatto saluta nessuno perché era il periodo del Covid. 

Durante il Covid, in carcere

Io sono stato il primo a essere isolato  per Covid. Isolato.

Allora che è successo: c’avevo il raffreddore, non me sentivo bene e so andato in infermeria. “Dotto’, c’ho il raffreddore me dai qualcosa?” e lui mi ha dato un antibiotico per 5 giorni.

Il giorno dopo, stavo all’aria, mi sento chiamare e quindi vado di nuovo in infermeria. 

Boh, me comincio a preoccupa’.

Il dottore me dice: “Come sta?”. “Bene – gli ho detto – m’ha dato l’antibiotico ieri”.

M’ha messo il misurino sul dito, m’ha fatto passeggia’ per 5 minuti e poi m’ha detto: “Noi abbiamo disposizione che la dobbiamo isolare”. 

 

Era sotto Pasqua, me ricordo, era il 2021 o il 2019. Gli dico: “Come me devi isola? Io sto bene”. Eh, e m’ha isolato. M’ha mandato in una cella che era stata distrutta da un mattaccino. Era tutta rotta, pure il termosifone era rotto. Io ho fatto casino, ho chiamato il comandante e gli ho detto: “Io non prendo più la medicina…” E al dottore: “Ma lei manda la gente in isolamento senza vedere manco dove li manda…”  

 

Sono stato 15 giorni, gli chiedevo io a spese mia di fare il tampone. 

“Dotto’ famme il tampone. Te lo pago io, che dovemo fa?”

“No, le disposizioni non sono queste.”

“Ho capito ma io sto bene, perché devo stare 15 giorni isolato da solo?”

 

Che poi c’avevo un pezzetto d’aria che potevano esse quattro metri per tre?

‘Na cosa brutta è stata, il tampone non me l’hanno fatto, so’ stato 15 giorni isolato punto. 

 

Riguardo al Covid, l’unica cosa buona che ha portato è stato il fatto che potevi fa più telefonate e le videochiamate. Solo quello.

Potevi fare due telefonate a settimana di 10 minuti. Non c’erano gli incontri. Poi parlamose chiaro, noi dovevamo andare in giro con la mascherina, gli agenti tutti senza mascherina. E infatti c’è stato qualche agente che si è ammalato, è stato male, è andato in terapia intensiva.  Da quando sono cominciati i colloqui,dovevamo sta  tutti con le mascherine: noi, i parenti. Giustamente, quello che non capisco è perché io sono obbligato a mettere la mascherina e tu no. Questo non capisco.

Che poi rischiavi rapporto senza mascherina. Se te prendi rapporto, perdi 45 giorni de libertà anticipata. Qualsiasi cosa che fai te perdi 45 giorni.

Io in tutti sti anni de galera non me so mai pijato un rapporto, me credi? Niente, non ho perso un giorno. Quando sono uscito fuori, perché a 4 mesi dal fine pena mi hanno dato i domiciliari, una mattina non ho sentito i carabinieri che m’hanno sonato. Stavo sotto la doccia alle sette e dieci perché io uscivo alle otto, e non l’ho sentiti. Quando so ritornato alle 10 mi hanno chiesto: “Lei do’ stava alle sette e dieci?” “E do’ stavo? Stavo sotto alla doccia.” “No, perché lei non ha risposto.” “Eh ho capito ma mica era colpa mia non ve sentivo”.

Poi avevano pure il numero di telefono mio, mi potevano pure chiamare… Infatti quando siamo andati a causa, con l’avvocatessa, ho vinto la causa e sono stato assolto.

 

Però ho perso 45 giorni!

Riflessioni sullo “svuota carceri” e non solo

LIVIA 

Fa caldo, non facciamo che ripetere questa frase in questi giorni. Eppure in linea di massima abbiamo case più o meno spaziose ma comunque vivibili, abbiamo finestre da aprire, passeggiate da fare, il respiro del mare o la frescura della montagna.

Dopo oltre  20 anni di lavoro in carcere il mio pensiero non può che andare alle persone ristrette: spazi angusti e sovraffollati, sbarre alle finestre, porte blindate chiuse con solo uno spioncino, cemento come pavimento, umidità dalle pareti, bottiglie d’ acqua sui piedi come strategia di refrigerio e acqua che manca nelle docce e poi indignazione, mortificazione, insofferenza, rabbia, dolore, disperazione e tanto altro. 

 

Bisognerebbe capire una volta per tutte che la punizione prevista è la privazione della libertà, il resto sono diritti negati al limite della tortura.

Bisognerebbe decidere una volta per tutte se vogliamo essere uno stato che garantisce diritti a tutt𑇒, se davvero si crede in un concetto di detenzione riparativa e educativa oltre che punitiva e mortificante.

 

Tanto si parla in questi giorni di riforme per dare sollievo e respiro a questa situazione di sovraffollamento, misure tecniche semplici e già sperimentate che darebbero una parziale ma maggiore vivibilità. Ma gli interessi politici e le alleanze di partito sono più forti e importanti della sopravvivenza di chi, anche se colpevole, arriva a togliersi la vita pur di non stare in un carcere. 

Ci troviamo davanti ad una totale mancanza di lungimiranza da parte di chi ci governa, che invece di correre ai ripari spaventata da ciò che succede in una loro istituzione continua a discutere e rimandare decisioni importanti al fresco delle aule parlamentari.

La riforma proposta nei giorni scorsi, come già detto da esperti del settore, è vuota e non risolutiva ma per interessi interni e giochi di potere non si giunge ad una soluzione e si paventa all’ opinione pubblica l’uscita di orde barbariche di persone detenute per giustificare misure esclusivamente repressive.

Si aspetta forse qualche rivolta per giustificare la decisione di costruire nuovi carceri invece che depenalizzare e di investire in corpi speciali di polizia invece che in strumenti educativi.

E intanto siamo a quasi 60 suicidi da inizio anno di persone detenute, siamo di fronte ad un imbarazzante e rumoroso silenzio istituzionale che neanche il caldo e il suono delle cicale riescono a cancellare.

Suicidi in carcere

Oltre i numeri, le persone

ALESSIA

«Le persone detenute che dall’ inizio dell’anno e fino al 20 giugno 2024 si sono suicidate in carcere sono 44» si legge sul documento pubblicato sul sito del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà “Analisi suicidi in carcere 2024”. 

Seguono poi una serie di dati, di numeri, delle specifiche categorie che fanno pensare di avvicinarci meglio alle loro vite: uomini 42, donne 2, italian𑛂 24,  stranier𑛂 20 e così via. 

Se la guardiamo da una certa prospettiva, può sembrare che la pulsione a incasellare vite burocratizzate svuota di senso e significato le singole esistenze. A guardarle da fuori, attraverso nomi che danno caratteristiche approssimative, ci sembra di conoscerle meglio quelle vite, mentre ci allontaniamo ancora di più dalla realtà. Con questo non si nega l’importanza che – in una società burocratizzata – rappresentano questi dati, queste statistiche. Sui giornali vediamo, con una certa leggerezza, associare le persone che scelgono di porre fine alla propria vita con parole come “rischio record” e se ci sembra normale, se non ci si accappona la pelle allora l’oggettificazione dei corpi è completa, la cosificazione delle vite ha raggiunto i suoi picchi massimi. Ancor di più quando a morire sono le persone detenute.

Quello che ci proponiamo di fare, allora, è prenderci il tempo, percorrere queste perdite, sentirne tutto il peso e le responsabilità collettive di un’istituzione penitenziaria che sì, uccide sistematicamente.

Parlare di suicidio, già di per sè fa crescere un grosso magone. S’impone ai nostri sensi un disorientamento che colpisce quasi più forte di una perdita avvenuta in altri modi, in modi casuali, in quei modi comuni che non riusciamo spesso a spiegarci. Quando la morte è scelta restiamo paralizzati, le domande si moltiplicano, si pensa a tutte le parole che potevano dirsi per evitare quella perdita. Ci si sente responsabili pure quando, dopo tempo, ammettiamo che non si può conoscere fino in fondo il dolore di una persona. Restiamo in queste domande, osserviamo le ricorrenze. Perché una spiegazione forse esiste se i numeri aumentano ferocemente, se le persone recluse nelle carceri scelgono di abbandonare la vita piuttosto che attendere il fine pena.

Quali sono le condizioni di vita negli istituti penitenziari italiani?

Immaginiamo di convivere costretti in 6 mq in 4 persone, con i muri che trasudano il calore, senza poter chiamare o vedere una persona amica nel momento del bisogno e dovendo attendere le risposte per ogni minima richiesta. Avere 3 rotoli di carta igienica al mese, scrivere domandine su domandine per chiedere che so, una visita medica. Aspettare risposte, colloqui, sentenze. Aspettare che qualcuno ti ascolti, ti ricordi che sei un essere umano. Aspettare sempre, senza poter fare nulla per la tua vita, senza poter attivamente scegliere nulla: quando mangiare, quando dormire, quando incontrare chi ami. 

«Ci sono alcune espressioni che gli agenti usano spesso per imporre le loro decisioni. La più usata è “ricordati che qui sei in galera”. Tutto ciò di cui abbiamo bisogno viene concesso dall’istituzione e quindi bisogna chiedere, usando formule di gentilezza. In una situazione di estrema deprivazione si è sempre costretti a chiedere, e spesso si ottengono risposte negative. Piccole negazioni che non sempre hanno una giustificazione. E allora, la motivazione più convincente si rivela l’invito di non dimenticare mai il luogo dove ci troviamo. Ricordare di essere in galera ci serve ad accettare con rassegnazione ogni forma di privazione. Ho l’impressione che molti agenti credono che non siamo stati condannati abbastanza, che le condanne che ci sono state inflitte siano troppo leggere, e che loro devono in qualche modo fare qualche integrazione alla condanna. È chiaro come in un clima di questo tipo vi possono essere nella quotidiana burocrazia del carcere negligenze, rigidità, omissioni, disfunzioni organizzative che creano disagio e inutili sofferenze, che offendono la dignità delle persone soprattutto perché sono improntate al pregiudizio, a volte anche al razzismo, e sono comportamenti tanto più sgradevoli e offensivi quanto più sono sprovvedute e indifese le persone che ci vanno di mezzo.»  “Farsi la galera. Spazi e culture del penitenziario.” – a cura di Elton Kalica e Simone Santorso

Proprio ieri io, Livia e Sara parlavamo di questa problematica. I suicidi in carcere accendono i riflettori su una situazione completamente degenerata che si cerca di denunciare da tempo e da più fronti. E sembra che a far più scalpore, ad accendere maggiormente i riflettori, non siano bastati i suicidi delle persone recluse: è dovuto accadere che a togliersi la vita siano stati gli stessi agenti penitenziari. Triste pensare che solo allora abbiamo iniziato a renderci conto dell’invivibilità dell’ambiente carcerario, ancora più triste è non riuscire più a sostenere il posto in cui si lavora, tanto da scegliere di abbandonare la vita. 

Indicibile, invisibile, lontano. Il carcere chiuso in sé stesso, completamente isolato e abbandonato, un posto affollato di storie di vita. Come ha sottolineato Livia, il penitenziario è pur sempre un’istituzione dello Stato: cosa succederebbe se all’interno della scuola o dell’università si riscontrasse un alto numero di suicidi tra personale e corpo studentesco? Certo non quello che si fa con il carcere, cioè nulla. 

In un incontro organizzato dall’associazione Parliamo di carcere lo scorso 11 maggio, il garante dei detenuti del Lazio  Stefano Anastasia ha parlato del grande problema dei suicidi in carcere, individuando tra le cause primarie quella del sovraffollamento. Ha notato la macabra ironia nel passaggio di letti a castello a tre, una mossa che concretamente, in termini materiali di “altezza”, facilita di fatto l’impiccagione. 

Ci lasciamo così, con questa amara consapevolezza. Spero che chi poco si interessa a questi argomenti “di nicchia” capisca l’importanza di riflettere su modi alternativi di pensare le pene. La responsabilità di calpestare, stracciare, demolire a mano a mano la dignità e i diritti umani è di tutt𑛂 noi. I suicidi in carcere fanno parte di questa stessa responsabilità. 

Il genere come categoria culturale e il transgenderismo ristretto

ALESSIA

In punta di piedi incontriamo il transgenderismo, un altro arido concetto, sì. Dietro il quale sono occultate vite reali di persone reali che abitano proprio come te nella quotidiana incertezza di questo mondo precario. E no, non è certo divenuto così perché in giro c’è troppa frociaggine o per le sfilate dell’orgoglio gay.

È sempre facile cedere alla tentazione di stigmatizzare, escludere, curare, correggere chi devia dalla norma. Si fa “da sempre”, almeno da come leggiamo sui polverosi libri di storia.

Perché il casino delle categorie culturali è che appunto ci sembrano naturali, hanno la capacità di entrare nei nostri modi di fare, di parlare, di pensare e restarci, se non facciamo attenzione, anche per la nostra intera esistenza. E tu mi dirai, cosa me ne frega a me, ci vivo bene nella mia pelle di persona socializzata in conformità della norma. E sono qui per dirti che sbagli, sbagli a non vedere o a non voler vedere che dietro una categoria ci sono persone reali, fatte di carne come la tua e di esperienze di vita che richiedono scelte, affermano gusti, si accoccolano tra gli affetti, si pigliano il raffreddore e le botte di un bastone di giudizi che quando sono diretti alla propria identità, in quanto tale, possono uccidere oltre che fare male. E ancora ti dirò che pure l’identità è un concetto costruito e che come categoria, insieme a quella di corpo è sempre relazionale e mai naturale: l’io cioè ha bisogno dell’incontro con l’altro per definirsi altro da esso. 

 

Pillole antropologiche sul genere come categoria culturale

Questo sproloquio quasi romantico vuole servire per introdurre un’altra importante verità: il genere è una categoria culturale socialmente costruita, il dualismo di genere quindi – vedere il mondo diviso in due tra il maschile e il femminile – non è parte della natura della specie umana. Prendiamo ad esempio il concetto maussiano di tecniche del corpo, rimodellato poi da quello di incorporazione:  il genere è una tecnica del corpo. Un modo di muoversi, camminare, gesticolare, parlare, esserci nel mondo specifico di un gruppo di persone. Come noi ci serviamo del corpo nel mondo uniformandoci alla tradizione.

Mauss ha scritto del diverso modo di camminare degli anni venti delle donne tra i Maori della Nuova Zelanda. Onioi è come le madri insegnano alle figlie a camminare, tecnica di camminare in un “ondulamento staccato” che forse a un occhio occidentale può sembrare sgraziato, mentre “i Maori lo ammirano moltissimo”.

Bourdieu invece ha parlato del “senso dell’onore” e della “virilità” associati all’essere corpo maschio tra i Calibi d’Algeria. Queste espressività si costruiscono per opposizione a quelle forme e tecniche incorporate alla figura femminile che ancora nei modi di camminare manifestano le loro differenze.

«Il passo dell’uomo d’onore è deciso e risoluto in contrapposizione all’andatura esitante […] che denuncia l’irresolutezza, […] la paura di mettersi in gioco e l’incapacità dì mantenere propri impegni […]. AI contrario, dalla donna ci si aspetta che avanzi leggermente curva, con gli occhi bassi, evitando di guardare qualsiasi altro punto che non sia dove metterà il piede» (Bourdieu)

* Fonte: “Antropologia medica. Saperi, pratiche e politiche del corpo.” Giovanni Pizza.

Se il genere e la sua definizione binaria è una costruzione sociale, incorporata e naturalizzata dai nostri corpi che si muovono e sono nel mondo come hanno appreso di dover essere, allora chi ci dice che i generi non possano essere di più? O che le separazioni non siano poi così nette? Se essere umani significa produrre significati, perché arrestarci ora e non produrne di nuovi?

Transgenderismo ristretto

Osservare la società contemporanea e poi il carcere come specchio della stessa ci chiarisce subito l’elemento pregiudiziale ed escludente che ingabbia il concetto-persona in un’identità di cui si tracciano minuziosamente bordi netti.

Senza dar conto della fluidità del vivere, fuori come dentro, le persone transgender e più in generale gli appartenenti alla comunità queer sono invisibilizzati, stigmatizzati e sempre a rischio di insulti, percosse e violenze di alcun tipo. 

Se invisibile è spesso la persona reale dietro il concetto di transgenderismo, immagina la persona transgender ristretta in carcere, un mondo già invisibile di suo. 

Abbiamo più volte affermato riguardo all’istituzione penitenziaria come essa si strutturi secondo dialettiche e normative che tengono conto principalmente delle condizioni di vita della popolazione al maschile che costituisce la maggioranza della popolazione detenuta totale. In una netta scissione abitativa maschio/femmina dove si collocano le persone transgender? 

Di base succede che se si arresta una persona che pur avendo iniziato il percorso di transizione non ha ancora compiuto “la riassegnazione di sesso e genere anagrafico” – quindi se sui documenti risulta il sesso con il quale si è nati e non l’identità di genere dell’individuo – una donna trans (M to F) viene collocata negli istituti maschili e un uomo trans (F to M) è collocato negli istituti femminili. 

* La riassegnazione di sesso e genere anagrafico viene regolamentizzata in Italia con la Legge 14 aprile 1982, n. 164: “Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso”.

 

Aldilà delle iniziative dei singoli istituti penitenziari che prevedono in genere la creazione di una sezione apposita di contenimento delle persone trans, le normative penitenziarie non tengono conto delle soggettività plurali che abitano le condizioni ristrette del carcere.

È lampante la criticità delle persone che oltre ad essere dentro, chiuse e isolate dalla realtà sociale legale, sono ancor più ristrette nella riproduzione di un’esclusione sociale che le segrega in spazi altri, diversi e separati dall’altro lato della popolazione detenuta. A ragione di questo tipo di soluzione che gli istituti si trovano a dover mettere in atto c’è come si può immaginare un’attenzione particolare sull’incolumità della persona trans che può essere soggetta, nel contatto con la popolazione detenuta cis, ad azioni di violenza psicologica, fisica e/o carnale.

Sono possibili soluzioni nuove che tengano conto della dignità e dei diritti della persona reclusa? Spogliamoci dalle categorie che limitano il nostro sguardo, tentiamo di decostruire secoli di saperi e conoscenze prodotte dalla cultura che portiamo addosso come pelle.

Spelliamoci, dunque. Facciamo la muta come i serpenti. Non senti quanto sia necessario?

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