Cooperativa sociale che offre servizi di ascolto, orientamento, formazione, accoglienza rivolti a detenuti/e, ex detenuti/e e persone che vivono in condizione di disagio sociale.

Categoria: Carcere (Pagina 1 di 2)

La banalità del male

ALESSIA

Il male è banale, è semplice, quotidiano. Seppur le sue ragioni, radicate nella realtà stessa della società, siano complesse, esso dilaga nel silenzio e nel tacito accordo che si stringe tra relazioni squilibrate di potere di pronunciare, agire e diffondere la violenza fino a quando questa arrivi a non lasciare più alcun stupore, fino all’indifferenza. Si tratta di sminuire, di ridurre, di semplificare un atto banale di male, come può essere quel ceffone dato a una compagna che “non sapeva comportarsi” di fronte a uomini che non erano il suo. Si tratta di semplici gesti quotidiani, di parole come “uccidere bambini” indirizzate a chi sceglie di interrompere una gravidanza. Si tratta, ancora, di un bombardamento di notizie, immagini e gossip sulle storie violente, sul male che incombe, sulle vite spezzate e quelle da rinchiudere, sulle ipocrite prese di posizione contro persone e popoli oppressi. 

NB. Questo male di cui parliamo non è un male tipo la parte oscura della moneta: retta via/peccato, bene divino/male infernale ecc. Ci siamo appropriat3 delle parole di Hannah Arendt proprio per questo. Magari è giusto citarne un passo per indirizzarci meglio al discorso. 

«Quel che ora penso veramente è che il male non è mai ‘radicale’, ma soltanto estremo, e che non possegga né profondità né una dimensione demoniaca. Esso può invadere e devastare il mondo intero, perché si espande sulla superficie come un fungo. Esso ‘sfida’ come ho detto, il pensiero, perché il pensiero cerca di raggiungere la profondità, di andare alle radici, e nel momento in cui cerca il male, è frustrato perché non trova nulla. Questa è la sua ‘banalità’. Solo il bene è profondo e può essere radicale.» – H. Arendt “La banalità del male, Eichmann a Gerusalemme (1963)

 

Quel tacito accordo, quell’accettare di vedere e ascoltare il male senza riconoscerlo, è stato intessuto fino a oggi per poterci permettere di avere tra le cariche del governo persone che dicono cose aberranti come:

«L’idea di veder sfilare questo potente mezzo che dà il prestigio, con il gruppo operativo mobile sopra. Far sapere ai cittadini chi sta dietro a quel vetro oscurato. Come noi sappiamo trattare chi sta dietro quel vetro oscurato. Come noi non lasciamo respirare chi sta dietro quel vetro oscurato. Credo sia una gioia, è sicuramente per il sottoscritto, un’intima gioia

A pronunciare queste parole, Andrea Delmastro Delle Vedove, Sottosegretario di Stato alla Giustizia. Parole che hanno indignato non poche persone, quelle almeno che tentano di resistere a questo dilagare violento smantellamento dei diritti umani. Nella nostra bolla, ci sembra a volte inverosimile. Tra di noi ci scriviamo preoccupati, amareggiati, disillusi. Condividiamo frustrazioni che non sappiamo come risolvere, lo sconforto è reale quanto l’impossibilità di smettere di credere che qualcosa cambi. Parlo del lavoro che svolgiamo ogni giorno, dell’impegno e la determinazione che gli educatori, le educatrici del PID e non solo investono in quelle attività che coinvolgono la loro vita per intero, senza momenti veramente liberi dalle responsabilità di accogliere, ascoltare e tentare di sfruttare qualsiasi mezzo a disposizione per permettere e rendere possibile alle persone che vivono le ristrette condizioni che il carcere gli ha lasciato addosso, di costruire una nuova vita. E ci vuole coraggio a farlo, non perché, come ai più potrebbe venire alla mente, si lavora con persone “pericolose”, ma perché si lavora per mettere toppe a un sistema che vacilla, che non funziona, che cade a pezzi negli intenti e nei valori che l’hanno messo in piedi. Parliamo di carcere come un’istituzione che non ha mai avuto, forse nella storia dell’umanità, un reale motivo di esistere se non quello della reclusione e della limitazione della libertà personale con il solo fine di punire chi ha rotto il “patto sociale”. Parole come “risocializzazione” abbiamo già sottolineato altrove, sono solo la base dell’ipocrisia insita nello stesso concetto di galera. 

«Parliamo di rieducazione e di risocializzazione come scopi ultimi delle pene, da un lato e di un’istituzione totale che separa – come prima e solenne ragion d’essere – le persone che commettono il reato dal resto della società nella quale è previsto il cosiddetto reinserimento.» – Dall’articolo “Donazione assorbenti per il carcere: cosa può significare il rifiuto di un dono da parte di un’istituzione?”

Perché il carcere è qualcosa che chiude e non apre alle possibilità, è un posto predisposto a eliminare l’umanità ad abbatterla. Non solo per chi la abita per “pagare” i suoi errori, ma anche per chi la vive per lavoro. Un’istituzione totale, come scriveva Erving Goffman, non è altro che «un luogo di residenza e di lavoro» dove agglomerati di persone sono tenute lontane dalla società per un significativo lasso di tempo. E sono, questi gruppi di persone, accomunati dalla medesima condizione di dover trascorrere porzioni di vita in «un regime chiuso e formalmente amministrato.» 

 

E se siamo poco indignati di fronte all’intima gioia di un umano di non far respirare un altro è perché il male è banale e ci ha sopraffatti, oltre che assuefatti. Perché è da tempo che sentiamo le notizie di chi si toglie la vita in carcere, del sovraffollamento, degli abusi di potere contro quei corpi rinchiusi. Siamo avvezzi a queste violenze continue e non ci stupiscono più. 

Pensiamo al potere delle parole, pensiamo alle reali conseguenze che generano: parliamo dei recentissimi casi emersi dal carcere di Trapani? Abbiamo letto le invettive, accompagnate dalle botte a secchiate di piscio di alcuni agenti penitenziari sui corpi indifesi, testimoni di ingiustizia, delle persone detenute. 

Male legittimato dall’essere compiuto verso quegli ultimi che ci hanno insegnato a disprezzare, a temere, a evitare, senza però conoscere. Si dipingono le persone che commettono reati come bestie senza cuore, ed è facile così cadere nell’errore che allora, nei loro confronti, tutto è lecito. La violenza, l’umiliazione, la crudeltà. Ed è in questa banalità che si arresta il pensiero, si riduce la complessità tutta umana di agire e sentire del mondo.

Assorbire il cambiamento 2.0

Una Campagna di raccolta assorbenti e slip mestruali per il carcere in occasione della Giornata Mondiale dell’Igiene Mestruale del 28 maggio

 

Il P.I.D. Pronto Intervento Disagio Onlus, lancia la Campagna Assorbire il cambiamento per raccogliere e donare assorbenti agli istituti penitenziari femminili e alle persone in esecuzione penale esterna ospiti all’interno di case famiglia.

L’iniziativa, iniziata tre anni fa con la collaborazione di diverse realtà del terzo settore romano, quest’anno prevede, oltre alla donazione, la realizzazione di laboratori e incontri all’interno di istituti femminili e strutture di accoglienza per promuovere maggiore consapevolezza sul ciclo mestruale e sui “nuovi” prodotti igienico sanitari ecologici quali coppetta, slip e mutande assorbenti.

 

Le donne sono una netta minoranza della popolazione detenuta, poco più del 4%, ma si confrontano con tutte le problematiche legate al sistema penitenziario, alle quali si aggiungono specifiche questioni accentuate dal fatto che la detenzione è pensata per un mondo al maschile che non prevede le diverse identità di genere. Negli standard internazionali, definiti dalle Nazioni Unite, per il trattamento delle donne detenute e le misure non detentive per le donne autrici di reato (Regole di Bangkok, luglio 2010), la salute mestruale è un requisito fondamentale che prevede la distribuzione gratuita di assorbenti. Nel nostro paese se ne occupa l’Amministrazione penitenziaria che però non garantisce le quantità necessarie di assorbenti in base alle singole esigenze, tantomeno la scelta di un modello o di una marca. Chi ha la possibilità economica li acquista attraverso il cosiddetto “sopravvitto”, una sorta di negozio interno all’Istituto Penitenziario, chi non ha possibilità economica deve adeguarsi alla fornitura prevista. Durante il primo anno della Campagna, il PID ha raccolto diverse testimonianze che confermano la mancanza di azioni volte a garantire e promuovere la dignità mestruale. 

 

Se lo scopo immediato della Campagna è portare un beneficio concreto alle persone recluse, quello a lungo termine è promuovere il cambiamento attraverso il coinvolgimento delle singole persone, della società civile organizzata e delle istituzioni, favorendo la conoscenza della reale condizione delle donne che vivono in carcere. Lo scorso anno, grazie a una notevole partecipazione della cittadinanza, abbiamo portato oltre 2000 assorbenti negli istituti penitenziari laziali e nelle strutture di accoglienza per persone detenute ed ex detenute. 

La raccolta inizia mercoledì 20 novembre 2024 e si conclude mercoledì 28 maggio 2025, per partecipare si possono donare assorbenti classici di qualsiasi marca e modello e gli slip assorbenti, mentre i tamponi in carcere non possono entrare

 

I materiali donati possono essere consegnati presso i seguenti punti di raccolta nei giorni e negli orari indicati:

  • Casa delle donne Lucha Y Siesta – il mercoledì e il giovedì dalle 11 alle 13.30. Via Lucio Sestio 10.
  • L’Archivio14 – il giovedì e il venerdì dalle 17 alle 19, il mercoledì anche la mattina dalle 10 alle 12. Via Lariana 14.

Se non si ha la possibilità di recarsi in uno dei precedenti punti di raccolta, i materiali possono essere spediti alla Sede legale della Cooperativa PID Onlus, all’indirizzo: Via Eugenio Torelli Viollier, 109 – 00157 Roma.

Tutti gli aggiornamenti relativi a nuovi eventuali punti di raccolta saranno condivisi sui canali social Facebook e Instagram dell’associazione.  Se si vuole organizzare un punto per la raccolta assorbenti scrivere a: massaroni.pidonlus@gmail.com.  

Persone straniere detenute in Italia

Nel microcosmo carcerario italiano, le persone straniere detenute sono spesso trattate come un’unica categoria omogenea, senza considerare le specificità delle diverse comunità di provenienza. Come espresso da Antigone nel Ventesimo rapporto sulle condizioni di detenzione in Italia, sarebbe invece opportuno avviare una riflessione che complessifichi la realtà, sia per le politiche penali, sia per le opportunità di accesso alle misure alternative alla detenzione. 

Secondo i dati rilevati da Antigone, al 31 marzo 2024 la popolazione detenuta straniera nelle carceri italiane per adulti è pari al 31,3% di quella totale. Una percentuale in calo che rappresenta un significativo abbassamento rispetto ai picchi registrati nel passato, quando la percentuale superava il 37%. Negli anni 2008-2013, il numero degli stranieri in carcere non è mai sceso sotto le 20.000 unità. 

Il tema della sicurezza, di cui abbiamo discusso ampiamente in altri articoli e che ci riporta inevitabilmente anche al lavoro del Dossier statistico immigrazione 2024, è in gran parte un esercizio di propaganda. In realtà, focalizzarsi solo su questi numeri non aiuta a sviluppare politiche efficaci di prevenzione o di giustizia sociale.

 

Emerge un dato interessante riguardo la questione delle persone straniere ristrette in Italia, cioè quello relativo al tasso di detenzione degli stranieri: la percentuale degli individui detenuti rispetto alla popolazione straniera residente in Italia. Secondo i dati Istat, la popolazione straniera in Italia è cresciuta negli ultimi quindici anni, passando da 3,89 milioni di persone nel 2009 al 5,14 milioni nel 2023, pari all’8,7% della popolazione totale

Nonostante questo aumento, il numero di persone straniere detenute in carcere è diminuito, il che smentisce l’idea di una “emergenza criminalità” legata all’immigrazione.

Nel 2024 il tasso di detenzione per gli straniere è sceso allo 0,37%, con un calo complessivo di 0,24 punti percentuali negli ultimi 15 anni. Questo riflette una tendenza positiva che suggerisce che le politiche di regolarizzazione e integrazione (quando funzionano) hanno un impatto positivo sulla riduzione della criminalità, contribuendo a una minore incidenza di reati tra gli stranieri.

 

Quando si analizza la popolazione carceraria straniera, è fondamentale anche considerare le specificità delle singole nazionalità. Ogni gruppo presenta sfide e caratteristiche diverse, legate tanto al contesto socio-politico di provenienza quanto alle difficoltà incontrate in Italia a causa dei pregiudizi e gli stereotipi xenofobi fomentati e legittimati dalle poetiche nazionalistiche che urlano alla “difesa dei confini”. L’ordinamento penitenziario prevede nella teoria un trattamento personalizzato della persona ristretta che tenga conto delle differenze culturali, sanitarie e sociali.

Riprendendo ancora il Dossier, nello specifico il contributo di Sofia Antonelli (Associazione Antigone) leggiamo:

«Nonostante la loro contrazione, gli stranieri in carcere continuano ad essere sovra- rappresentati rispetto alla loro incidenza sulla popolazione residente in Italia. Indigenza ed emarginazione sociale aumenta, insieme al rischio di commettere reati, quello di finire in carcere anche solo per attendere la condanna o per scontare una pena breve, che invece potrebbe essere espiata con una misura di comunità. […] A prescindere dalla gravità del reato, più si adottano misure contenitive, più cresce la sovra-rappresentanza degli stranieri, visto che per gli italiani resta più facile accedere a percorsi alternativi alle restrizioni del sistema penale. Ciò è ancor più vero per i minori stranieri, la cui sovra-rappresentanza negli istituti minorili è anche più alta di quella degli adulti. Sebbene tra tutti gli infra-25enni residenti in Italia gli stranieri rappresentino l’8%, al 15 giugno 2024 quelli in carico dei servizi di giustizia minorile rappresentavano il 23% del totale e, dei 555 ragazzi detenuti negli istituti penali per minorenni (Ipm), quelli di origine straniera erano 266, il 48%.»

Stefano Cucchi – 27 ottobre 2024

LIVIA

Domenica 27 ci sarà il “memorial Stefano Cucchi“. 

È triste celebrare una morte, e lo è ancora di più quando questa è stata causata da abuso di potere prima e trascuratezza poi da parte delle forze dell’ordine e delle istituzioni.

Sono passati 15 anni da quando Stefano è stato ucciso a suon di botte e abbandono, 15 anni durante i quali si sono susseguiti processi, carte, solidarietà, ingiurie, cattiverie, abbracci, film, speranze, iniziative, parole, sconfitte e vittorie (per modo di dire, perché in questi casi non c’è vittoria che possa consolare).

 

Sarebbe bello potersi unire semplicemente per ricordare una persona che non c’è più, invece in questo caso è necessario farlo anche per sottolineare le cose che ancora non vanno nel sistema giustizia e nel sistema carcere.

Quotidianamente i diritti delle persone detenute vengono calpestati e troppo spesso la detenzione si trasforma in una punizione fine a se stessa, in trattamenti mortificanti, in corpi vessati dentro e fuori.

 

Più che mai quest’ anno è necessario esserci e partecipare perché ci troviamo di fronte ad un governo cieco e ottuso che pensa di risolvere i problemi sociali attraverso decreti fatti di controllo, punizione e repressione.

Zittire per non ascoltare il contraddittorio, punire per non riconoscere il disagio, reprimere per evitare il dissenso.

Tutte e tutti direttamente o indirettamente saremo colpiti da una delle tante regole contenute nel “pacchetto sicurezza” o dagli altri tentativi liberticidi che provano a smantellare diritti conquistati con fatica nel passato.

 

Partecipare è quindi importante, quest’ anno più del solito. Riunirsi nel nome di Stefano Cucchi è un modo per far sentire la propria voce, per guardarsi e riconoscersi, per dimostrare che riunirsi e dissentire non deve essere un pericolo.

 

Sarebbe bello immaginare che presto non serva più questo memorial, che il ricordo di Stefano possa finalmente tornare a una dimensione privata dove a ricordarlo sia chi lo ha conosciuto e vissuto nella sua totalità e non solo come vittima di un sistema barbaro.

Ma fino a quando quel giorno non arriverà bisogna continuare ad esserci e testimoniare, per questo domenica speriamo di vedere tanta gente, tanti volti diversi da quelli che incontriamo ogni anno e di respirare partecipazione e resistenza, sorridendo seppur nel dolore.

“La morte nel mio lavoro arriva sempre per telefono”

Le riflessioni di Laura dopo la notizia del suicidio a Ponte Galeria di una donna con la quale aveva lavorato 

Penso che la morte sia una cosa della vita, una di quelle dolorose. Ogni volta che mi ci sono trovata a contatto ho sempre avuto la sensazione  che la notizia mi arrivasse  da lontano, come un’eco che ti risuona dentro nel vuoto che quelle parole creano, il vuoto che fa spazio alla sensazione di dolore che presto ti avvolgerà e riempirà quel tempo del corpo inizialmente ed apparentemente sconfinato. Di fronte alla scomparsa di persone più o meno importanti della mia vita ho saputo istintivamente come comportarmi, ho capito che dovevo  imparare a dare un senso alla morte, trovarle un perché e ancor più quando questa si è presentata in maniera inaspettata e violenta, ogni volta sono riuscita a  tirarne fuori qualcosa.

 

Ma cosa bisogna provare se una persona per cui hai lavorato, per cui  e con cui hai cercato di costruire una via d’uscita da una vita che non le appartiene più, cosa bisogna provare se ti telefonano e ti dicono che questa persona si è impiccata a Ponte Galeria per la paura e la vergogna di essere  rimpatriata in un paese che era il suo solo anagraficamente? Qualcuno  mi dica cosa devo sentire.

 

Leggere una notizia del genere sul giornale  e darle un volto, una storia, una voce, un modo di parlare, degli occhi, un sorriso, pensieri, paure. Ecco questo cambia tutto. Lentamente diventa un fatto di cronaca, e i giorni, il tempo allontanano l’inquietudine ma lasciano spazio alla rabbia  che ara con calma un largo terreno dove  a coltivare riflessioni, quello che germoglia in breve tempo è frustrazione.

La sensazione viscerale si sviluppa nel distacco emotivo, un distacco necessario a sopravvivere per chi lavora “materiale umano”, e diviene impotenza dirompente, non è né il primo nell’ultimo nome che leggerò sul giornale,  ma solo incrociando la vita di questa donna, mi sono realmente resa conto che non sono solo nomi quelli che leggo, non che prima non lo sapessi, ma realizzarlo è differente.

 

La vita della gente sulle pagine dei giornali. E ognuno pensa  ciò che vuole, ognuno ha una sua opinione, in molti non battono ciglio, la vita di una persona nera fa meno notizia dell’ultima gaffe del presidente del consiglio, altri si arrabbiano, ma quanti poi alla fine si rendono conto di quello che stanno leggendo? Parliamo di persone il cui destino è scritto. Non lo è  nello “scegliere” di essere migranti, perché nella maggior parte dei casi non si tratta di scelte e per capirlo basta cercare di vestire altri i panni ed immaginarci a lasciare casa, affetti, figli, cultura, tutto quello che ci dà stabilità e  sicurezza, le uniche cose che rimangono ferme, immaginiamoci a salire su un aereo con un passaporto, 500 euro e una valigia se va bene e se va male a salire su un’imbarcazione di notte, nascosti, stipati come bestie e domandiamoci è una scelta questa? Domandiamoci qual è l’alternativa ad una scelta del genere? Il destino di queste persone è scritto e per la maggior parte di loro in percorsi di illegalità che sono lì pronti ad accoglierli e non è un segreto.

La cosa peggiore non è però che ci siano strade segnate dal passaggio di migranti e molte simili tra loro fatte spesso di fughe, violenze, arresti, droga, spaccio, prostituzione, furti e spesso necessariamente tossicodipendenza, l’orrore è capire che non è una strada ma una gabbia senza via di uscita studiata nel dettaglio da una società che ha bisogno di queste storie di queste vite per sopravvivere e produrre controllo. E mentre da una parte porta avanti la vecchia vecchissima deportazione di schiavi in catene che servono alla manodopera fondamentale per ogni paese (che oramai è troppo bassa quasi per chiunque  altro), dall’altra alimenta il razzismo e i conflitti mentre si copre di cristiana pietà.

 

La morte nel mio lavoro arriva sempre per telefono. Ahimé, ho una memoria fotografica e non dimentico mai un viso. E mentre quelle parole arrivano come un’eco, quello che visualizzo sono gli occhi delle persone e subito dopo la scena, come se fossi stata io a trovarle. Spesso e volentieri appese a una corda, perché tra i disperati impiccarsi va per la maggiore. Immagino la disperazione e quell’attimo. Perché di un attimo si tratta, di oscurità dove pensi che non ci sia alternativa alcuna se non questa. Vorrei potermela prendere con qualcuno vorrei che i meccanismi subdoli del potere avessero solo un volto, ma anche la dittatura si è modificata e continua a farlo proprio come un virus creato in laboratorio che  muta continuamente forma per non essere neutralizzato. Ma oggi è diverso, il fascismo è diverso e probabilmente dovrebbe avere anche un altro nome. Quella che abbiamo intorno è una dittatura mediatica infida, frutto di un lavoro lungo anni, fatta di pubblicità, televisione, di giornalismo pornografico, fatta di supermercati e di “formule” usa e getta, fatta di sfruttamento e di consumo e competizione che serve a dividere. Non è un nemico che si palesa ed è dunque difficile da individuare e combattere. Dico combattere perché è della nostra vita che si parla, perché tutti i meccanismi perversi sono riusciti ad entrarci dentro, nelle relazioni private, nei contesti lavorativi, nelle famiglie dentro ognuno di noi, ma  ognuno di noi può scegliere di ignorare o di non farlo, può scegliere di ignorare il trafiletto sul giornale che dice “clandestina si impicca” o può cominciare a farsi delle domande…e sarebbe già un buon inizio.

IPM – 365 giorni dopo il decreto Caivano

Le prevedibili, perniciose conseguenze ne Il dossier di Antigone sull’emergenza negli IPM

Sugli IPM italianiIstituti penali per minori – e sulla tempesta che gli si è abbattuta contro con il decreto Caivano, avevamo già detto lo scorso febbraio delle terribili conseguenze che un certo tipo di approccio, punitivo, criminalizzante e oppressivo, avrebbero prodotto. Riportando le ricerche e le riflessioni dell’associazione Antigone nel rapporto “Prospettive minori”, avevamo messo in luce i punti maggiormente critici del decreto.

Nell’ottica di una dialettica causa-effetto osserviamo quali sono i mutamenti introdotti a settembre 2023 che hanno comportato e con tutte le probabilità continueranno a comportare la crescita delle presenze negli Istituti Penali per Minorenni: 

«La possibilità di disporre la custodia cautelare in particolare per i fatti di lieve entità legati alle sostanze stupefacenti». Secondo il rapporto di Antigone infatti, se nel 2023 le ragazze e i ragazzi in misura cautelare erano 243, a gennaio 2024 il numero sale a 340.   

«L’aumentata possibilità introdotta dal Decreto Caivano di trasferire i ragazzi maggiorenni dagli IPM alle carceri per adulti». Il rapporto ci informa che quasi il 60% delle persone detenute nelle carceri minorili sono minorenni, principalmente tra i 16 e i 17 anni. – Istituti penali per minorenni – gli effetti del Decreto Caivano secondo il Rapporto di Antigone 

Se a soli pochi mesi dalla sua promulgazione il decreto in questione aveva già fatto aumentare esponenzialmente il numero della popolazione detenuta minorenne in Italia, quali sono le condizioni degli IPM un anno dopo?

«Non avevamo mai visto nulla di simile. Nonostante la nostra lunga esperienza nel monitoraggio delle carceri italiane, è la prima volta che troviamo un sistema minorile così carico di problemi e denso di nubi. La nostra preoccupazione cresce di giorno in giorno. Non riusciamo a immaginare come potrà finire questa storia.» – Dossier di Antigone

Prima di tutto quindi, l’aumento delle presenze negli IPM (+16,4%): un fondamentale passo indietro rispetto al passato in cui gli istituti penali per minori italiani si facevano portavoce di un sistema educativo che prevedeva per ragazze e ragazzi azioni e misure alternative più efficaci rispetto ad esempio a quelle previste per il sistema penitenziario per adulti. Se nel 2019 la popolazione detenuta minorile contava 382 persone su tutto il territorio nazionale, nel 2024 abbiamo un numero di presenze superiore a 500: una vetta mai raggiunta e per giunta in crescita. In crescita, come non è invece il numero di denunce e segnalazioni nei confronti dei minori. Tra l’altro, è anche da considerare, come scrive Antigone, che:

«sarebbero ben di più i ragazzi oggi in IPM se non fosse che il decreto in questione ha permesso il trasferimento al sistema degli adulti di tanti ragazzi che, avendo commesso il reato da minorenni, avevano compiuto la maggiore età.» – Dossier di Antigone

A sorprenderci poco sono poi le problematiche legate all’aumento delle presenze che riguardano il sovraffollamento, le condizioni di precarietà e la gestione repressiva delle proteste che non vengono ascoltate. 

Metà settembre 2024, 569 presenze negli IPM, tasso di affollamento medio del 110%. A superare la capienza media sono 12 istituti su 17.  Ricordiamo che dietro i numeri ci sono le persone con le loro storie e in questo caso, ci sono ragazze e ragazzi.

La situazione fotografata da Antigone (che vi invitiamo ad approfondire) ci lascia un forte senso di ingiustizia perché ancora una volta, a fronte di un evidente e lampante disagio giovanile e sociale si preferisce «assumere, sui castighi, la prospettiva della tattica politica». (“Sorvegliare e punire. Nascita della prigione.” Michel Foucault.)

Vita in carcere

Fuori dal contesto di criminalità in cui è entrato da giovanissimo, dopo anni di reclusione e vicino come non mai alla libertà, C riflette sulle condizioni che hanno accompagnato la sua vita in carcere.
In un periodo storico in cui le pene aumentano a dismisura, la criminalizzazione delle marginalità si moltiplica e le vite recluse perdono continuamente fette fondamentali della dignità umana, ragionare sui contesti non è mai stato forse così importante, o forse lo è sempre stato ma non si è mai fatto abbastanza.
Ridurre tutto agli atti delinquenziali senza pensare ai vissuti delle persone che li hanno commessi è il rischio che conduce a pensare attraverso categorie escludenti che invece di combattere la violenza e la criminalità l’alimentano con sempre nuove e più subdole forme. Oggi guardiamo la realtà per quella che è attraverso le parole di C ma non solo, guardiamo a quella realtà nascosta del carcere, guardiamo alle sue contraddizioni e alle sue ipocrisie ripercorrendo alcuni ricordi di chi è uscito a fatica dal 41bis.   
LE PAROLE DI C

Scorcio di vita in carcere 

Quando mi hanno dato il permesso e quindi ero uscito dal 41bis, andavo a discutere una cosa che si chiama “Collaborazione impossibile”. Cioè questo giudice doveva prendere tutte le sentenze dei miei processi ed esaminarle. Per dire, io e Tizia andiamo a fare un omicidio, il giudice dice che se questo fatto è stato commesso da voi due ed è stato tutto chiarito tu puoi accedere al beneficio. Diciamo ad esempio che dopo l’omicidio vado a buttare la pistola e questa pistola non si trova, il giudice dice che non è tutto chiarito. A me era tutto chiarito perché avevamo un tot di collaboratori di giustizia di cui uno di questi stava con me notte e giorno. Allora mi hanno dato il permesso, nel senso che mi hanno dato accesso ai benefici. Da quel momento non sono più considerato un mafioso. Allora la prima cosa qual è? Quella di prendere un non mafioso e toglierlo da in mezzo ai mafiosi. O no? Il giorno prima del permesso un agente mi chiama ad alta voce – per far sentire a tutti – chiedendomi l’orario in cui sarei uscito. Sono stato sommerso dai bigliettini, chi voleva una cosa, chi un’altra. Mi arriva un bigliettino con un numero di telefono, chiedo all’agente cosa devo fare: buttarlo, consegnarlo o fare la telefonata? L’agente guarda il bigliettino e me lo ridà, affermando fosse solo un numero di telefono, quindi potevo tenerlo senza problemi. Dopo 10 minuti vengo chiamato dal comandante che voleva farmi rapporto! Ho capito che mi avevano incastrato e in seguito alla mia reazione un po’ violenta, mi sono fatto 11 giorni di isolamento. Dopo 6 mesi da un rapporto disciplinare si può accedere nuovamente ai permessi. Io sono uscito dopo 5 anni! Tra l’altro quando è successo questo fatto io stavo discutendo la semilibertà, quindi sarei potuto uscire molti anni fa.

 

Sono stato trasferito in un altro carcere. Quando sono arrivato l’educatore che ha fatto? Si è seduto con le mie carte davanti, mi ha guardato e mi ha detto: “Ma lei non sarebbe mai dovuto uscire dal carcere, ma chi l’ha autorizzato?”

“Come infatti mi è costato cinquanta mila euro il primo permesso”.

“Lei fa anche dell’ironia!”

“Il magistrato mi ha fatto uscire, mica sono uscito io…”

“Eh ma qua non funziona così”.

Dopo due giorni la direttrice mi chiama e mi dice: “Qua non succederà mai che lei possa uscire dal carcere senza il mio parere favorevole” io l’ho guardata e le ho detto “Va bene”. 

 

Per quel parere favorevole, 5 anni. Dopo che gli abbiamo allestito una bellissima pasticceria, pe’ 5 anni hanno mangiato dolci gratis…

L’incarcerazione come sport olimpico nazionale

Si scherza? Non saprei. Parliamo ancora di sovraffollamento, di un tasso di suicidi ormai ben più che allarmante (siamo oltre i 70), un’emergenza carceri continua, che peggiora, si dilata a macchia d’olio e che svela le ipocrisie del sistema penitenziario italiano. Chiamarla ancora “emergenza” è quella moda che non passa mai, un po’ come quando si parla, nel pieno del fenomeno del cambiamento climatico, di emergenza ambientale e c*z*i vari. Ne parliamo ancora con tutto il rischio di sembrare monotematici: le problematiche delle carceri italiane sono strutturali, fanno parte del sistema che alimentano e no, non sono risolvibili aumentando le possibilità di incarcerazione. 

«A dire il vero, quando si parla di sovraffollamento in carcere, non si può più definirla un’emergenza: il nostro sistema penitenziario è in sovraffollamento strutturale dall’inizio degli anni ‘90 del secolo scorso.» – Stefano Anastasia per La Notizia.

Vorremmo condividere quello che il Garante dei diritti delle persone private della libertà del Lazio ha affermato in questi giorni, non perché a dirlo è stata una figura istituzionale, ma perché siamo totalmente d’accordo con lui! 

A cosa serve costruire più istituti penitenziari e dare più opportunità di accesso alle misure alternative, se aumentano i reati e le magiche soluzioni detentive per le persone che non sono in linea della normatività sociale? Ci sembra veramente assurdo, eppure c’era da aspettarselo, quello che viene normato con il nuovo Decreto Sicurezza: l’introduzione del reato di protesta (quindi la resistenza non violenta) è un grandissimo attacco alla democrazia. Immaginiamo, anzi rendiamoci conto che a essere criminalizzate sono tutte quelle persone che si battono per esprimere un dissenso, un parere, un ideale sfavorevole o contrario nei confronti della classe politica dominante e del suo operato. Si scherza? Purtroppo, ancora no. E queste persone rischiano il carcere. 

Pensiamo alla classica chiacchierata da bar: le persone detenute vengono dipinte come il peggior male della società, le stesse che sono per la maggior parte rinchiuse per reati che non ledono la persona…

«[…] tra le cause del sovraffollamento possiamo escludere l’aumento dei gravi reati contro la persona o contro la sicurezza pubblica, che non ha traccia nelle statistiche ufficiali. Il sovraffollamento, dunque, è in senso proprio un abuso di incarcerazioni che non risponde a reali esigenze di sicurezza e che non riesce a essere fronteggiato dalla pur enorme crescita delle alternative alla detenzione. Se ne dovessi individuare due cause, le indicherei nella fragilità di un sistema politico-istituzionale privo di effettiva rappresentatività e dunque votato a politiche populiste, particolarmente propense a un uso simbolico della giustizia penale, e nella progressiva desertificazione dei servizi di sostegno e integrazione della marginalità sociale, inevitabilmente destinata a finire in carcere in assenza di qualsiasi altra politica degna di nota.» – Stefano Anastasia per La Notizia.

Viviamo in questo mondo qui, dove non basta l’incarcerazione illegittima dei migranti nei CPR, non basta dare la possibilità alle persone minorenni di essere recluse in attesa di giudizio, non basta che le proteste vengono sedate col sangue dai manganelli fomentati dello stato di polizia, non bastano le gesta disperate di chi sceglie di porre fine alla sua vita tutto questo non basta per ragionare sulle condizioni di una società che perisce sotto le promesse inattese di albe raggianti che non sorgono mai. 

«Il governo pensa di dare soddisfazione al personale penitenziario, legittimamente frustrato dalle proprie condizioni di lavoro in carenza di organico e in ambienti fatiscenti e sovraffollati, bastonando i detenuti, come propone con l’introduzione del nuovo reato di ‘rivolta in carcere’, che sarà attribuibile anche a tre detenuti che si rifiutino pacificamente di rientrare in cella perché vogliono rappresentare al direttore, al magistrato di sorveglianza o al garante qualcosa che non funziona in cella o nella loro sezione. In questo modo, però, non si fa altro che esacerbare gli animi e rendere più difficile il lavoro del personale penitenziario e, in particolare, degli agenti che lavorano in sezione, a diretto contatto con i detenuti. Servirebbe, invece, lavorare per rendere possibile l’azione rieducativa delle istituzioni penitenziarie, a partire dall’adeguamento delle risorse umane ai bisogni della popolazione detenuta. Quindi, certamente va riempito l’organico della polizia penitenziaria, come si è fatto con gli educatori e come si sta facendo con i dirigenti, ma poi vanno ridotte le presenze in carcere a quei detenuti la cui gravità della pena consente e necessita l’opera rieducativa di cui la polizia penitenziaria è gran parte, restituendo al territorio quella marginalità sociale che invece ha bisogno di servizi di sostegno per una vita autonoma e indipendente nella legalità». – Stefano Anastasia per La Notizia.

La tortura in carcere – fattore endemico e culturale?

Alessia

Stamattina ascoltavo in treno il podcast “Chiusi dentro” di Massimo Razzi e Gabriele Cruciata prodotto in collaborazione con l’Associazione Antigone nel 2021. Una questione in particolare mi ha stretto le viscere, ancora una volta, quella della tortura nelle carceri italiane.

Era il 2017, appena poco prima che diventassi maggiorenne, di carcere poco conoscevo anche se già molto mi interessava e per la prima volta, con la scuola, sono entrata in un istituto di pena, dalle mura grigie, spesse, infinitamente alte. Ero una “bambinetta” alle prime armi e non avrei mai pensato che effettivamente poi quelle persone che abitavano in quegli spazi fatiscenti, minuscoli, sospesi, sarebbero diventate le persone con le quali oggi mi trovo a confrontarmi spesso (e volentieri!).

 

Era quindi solo il 2017, solo così di recente e dopo appena 30 anni dalla ratifica ONU del ‘97 è stato inserito tra i reati in Italia quello di tortura. Ne avevamo parlato qualche tempo fa anche nell’articolo “È vietata la tortura: il XIX Rapporto di Antigone sulle condizioni di detenzione”, ricordando dapprima come il nostro Codice penale definisse la tortura: quella serie di azioni che producono una profonda sofferenza fisica e/o psichica alle persone già prive della propria libertà. Dunque violenze di ogni genere, intimidazioni continue e durature nel tempo considerate – a buona ragione – fattori di degrado per la dignità della persona che le subisce. 

 

Nella puntata del podcast dedicata proprio alla tortura, all’ergastolo ostativo e al 41bis, “Fine pena quando” – che vi invito ad ascoltare –  tra le varie voci che incontriamo c’è anche quella di  Lorenzo Sottile: “un dottorando in diritto pubblico specializzato in carcere e tortura” che ha svolto attività di volontario in varie carceri europee e sudamericane. La tortura negli istituti di pena italiani, dice, è una questione endemica e culturale, a differenza di altri paesi, la stessa formulazione del reato di tortura nel codice penale “si presta a molte critiche”. La vaghezza e la discrezionalità di cui parla Sottile sono la caratteristica peculiare non certo solo di questo tipo di testo calato dall’alto in Italia. Si conferma la presunta tortura, ad esempio,  dopo aver comprovato i traumi a livello psicologico della persona che l’avrebbe subita. Come? In che modo? Con quale criterio? 

«In altri Stati se si fa riferimento alla normativa nazionale ovviamente la regolamentazione è differente, quindi anche un certo tipo di atto o violenza  fisica intenzionale o anche non intenzionale può essere ritenuto un atto di tortura.» – Lorenzo Sottile

Endemico e culturale quindi, una cosa tutta all’italiana – anche se non credo sia proprio così – quella di concepire il carcere come vendetta, di punire e sorvegliare panotticamente le persone già private della loro libertà, di produrre un’istituzione in cui gli attori sociali principali, agent3 e detenut3, sono in relazione tra loro alla “gatto e topo”. Dove il gatto è legittimato a ridurre in poltiglia il topo, a costruire trappole, a farlo vivere nella paranoia, a ricordargli tutti i giorni, in ogni minuto che la sua vita non è più vita. Molti infatti, magari pure in attesa di quella visibilità dei traumi psichici necessaria per confermare l’avvenuto atto di tortura, la vita scelgono di abbandonarla. Siamo oggi a 69. 

 

A fronte delle evidenti problematiche strutturali degli istituti di pena italiani, le risposte sono violente e legittimate! Ce lo conferma ancora una volta la vaghezza con cui si parla del reato di tortura. Si sceglie la via della repressione delle rivolte senza ascoltarne le ragioni. Reprimere, punire e alimentare di conseguenza un ciclo di violenza che no, non si esaurisce nella “discarica sociale” dove nessuno pare voler guardare. 

Non volendo generalizzare, voglio ricordare una cosa secondo me fondamentale per capire meglio che ad essere fallimentare è proprio questo sistema carcere: a morire di carcere non sono solo le persone detenute, sono anche gli agenti che ci lavorano. Questo dovrebbe far riflettere.

Intimità e affetti in carcere

Nel Ventesimo rapporto sulle condizioni di detenzione “Nodo alla gola” dell’Associazione Antigone, uno dei focus su cui si fa luce ancora una volta è quello che riguarda la negazione degli affetti in carcere

«L’intimità degli affetti non può essere sacrificata dall’esecuzione penale oltre la misura del necessario, venendo altrimenti percepita la sanzione come esageratamente afflittiva, sì da non poter tendere all’obiettivo della risocializzazione.» – parte delle ragioni mosse a sostegno della sentenza n. 10 del 2024 della Corte costituzionale sulla legittimità dell’art. 18 della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà). 

Durante il mio percorso all’interno della Cooperativa PID ho avuto modo di conoscere in prima persona diverse storie di vita reclusa, riascoltando le loro voci o rileggendo le loro parole, tra le diverse esperienze, i differenti modi di affrontare il carcere e gestire gli effetti della prigionizzazione, uno degli elementi che torna sempre è quello del contatto con le persone care.

“Io sono fortunato perché ho avuto la mia famiglia sempre vicino”.

“La mia forza è stata la mia famiglia, mia moglie con i miei figli”. 

A dicembre il nostro L aveva scritto già qualcosa al riguardo, definendo il detenuto come un “adultolescente” anche a causa della negazione da parte dell’ordinamento penitenziario dell’affettività sessuale in carcere. Qualcosa che negando il diritto all’intimità incide sui processi di trasformazione della persona detenuta e del suo corpo nell’involucro depersonalizzato che il sistema carcere plasma. 

«Ti accorgi, con Io sguardo perso nel vuoto/che c’era un “prima” ma che forse non ci sarà un “dopo”. Si finisce con il dissipare un legame o quantomeno si rischia di ridurlo ad un guscio vuoto. C’è una regressione “adolescenziale” del detenuto che si rassegna alla “piattezza” della vita quotidiana dietro le sbarre.» (Leggi qui “Il detenuto adultolescente”)

Degno di nota certamente il fatto che la Corte abbia accolto la sentenza del Magistrato di sorveglianza di Spoleto che abbiamo accennato prima, in quanto si presuppone che dietro questo atto vi sia un cambiamento di prospettiva proprio nella concezione della pena detentiva, per la quale non si dovrebbe appunto essere spogliati di tutte le cose che rendono una persona umana. Come ricorda Antigone non è questa la prima sentenza che si pone la questione spinosa dell’affettività in carcere – oltre quella più strettamente relativa all’intimità sessuale, anche quella delle relazioni sociali delle persone detenute con i propri cari più in generale. Rispetto al passato, l’attuale Collegio ha saputo dare risposte più concrete tentando di suggerire alla legislatura come muoversi per garantire alle persone private della propria libertà l’affettività e l’intimità, pur tenendo conto delle logiche securitarie che governano il sistema carcerario. Nonostante questo, nessuna proposta è stata mossa fino ad oggi.

«Non possiamo infatti non osservare che il legislatore, inteso sia come Parlamento che come Governo, mantiene una sostanziale inerzia, non risultando alcuna iniziativa in atto. Le indicazioni puntualmente formulate nella senza della Corte in tal modo sembrano indirizzarsi solo alle amministrazioni, centrale e periferiche, ed alla magistratura di sorveglianza. Il che reca con sé il rischio che si possano avere risposta assai diverse da un luogo ad un altro, con disparità di trattamento ancor più odiose dopo la pronuncia della Consulta. Senza contare che occorrerebbero stanziamenti ad hoc, oggi neppure ipotizzati.»

– Antigone Onlus (Leggi qui per saperne di più)

Alla ricerca del tempo perduto

Osservazioni sulle riforme dell’Ordinamento Penitenziario in Italia

MULLI – 12 agosto 2024

Sono passati esattamente ad oggi undici anni dalla costituzione con DM 2 luglio 2013 della Commissione Giostra, dal nome del suo Presidente docente di Diritto Processuale Penale alla Sapienza di Roma, meglio denominata “Commissione di studio per elaborare una proposta di interventi in tema di ordinamento penitenziario e in particolare di misure alternative alla detenzione”.

Gli atti della Commissione sono rimasti lettera morta, e le sue numerose pagine, possono essere tuttalpiù utilizzate per “incartar sardelle” rubando il termine a Giannone in relazione alle leggi e alla interpretazioni di Giudici e Avvocati del Regno di Napoli rimaste inascoltate, meglio inapplicate.

L’unica riforma, quella riconducibile a Guardasigilli Orlando del Governo Renzi del 2018, volta a modificare il nostro sistema carcerario restò lettera morta e il progetto di legge fu affossato dagli esecutivi successivi, sia di destra che di sinistra, succedutesi negli anni. Per estrema viltà, o meglio per mancanza di coraggio nell’adottare soluzioni migliorative alla condizione di chi era ed è condannato a pena definitiva o detenuto, di fronte ad un’opinione pubblica che non avrebbe ben compreso le profonde ragioni degli interventi diretti a migliorare l’Ordinamento Penitenziario.

 

Né di riforma sostanziale si può scrivere riguardo alla cd Cartabia, che si è limitata a modificare ed ad attuare a distanza dalla Legge di Depenalizzazione, la 689 del 1981, il sistema delle pene alternative alla detenzione, con un ritardo di oltre quaranta anni, riconoscendo anche ai Giudici del Processo rispetto a quelli di Sorveglianza la facoltà di applicarle in casi ben determinati, con aggravio di attività da parte degli Uffici di Esecuzione Esterna (UEPE).

Una goccia nel mare. Né certamente si può scrivere di modifica del nostro Ordinamento Penitenziario, in riferimento al Progetto di Riforma cd Nordio, appena licenziato dalla Camera.

Anzi nel leggere il contenuto della norma, è evidente a tutti, che la soluzione del Problema Giustizia, non può, da parte mia aggiungerei non deve, risiedere solo ed esclusivamente nella previsione di un piano di intervento per la realizzazione di nuovi istituti carcerari, ma deve necessariamente comportare soluzioni immediate a migliorare l’attuale condizione personale di chi è detenuto o per pena definitiva o in alcuni casi, troppi per la verità, in attesa di giudizio.

Anche la possibilità per chi detenuto, di attivarsi il lavori di pubblica utilità, con nuovo comma introdotto nell’Art. 21 OP, non rappresenta una novità, limitandosi a riproporre quanto già disposto nell’Art. 20 ter, norma rimasta per lo più inattiva, se non in alcuni Istituti Carcerari per illuminata Volontà di chi li dirigeva, e non comportando benefici carcerari in relazione alla pena da scontare di chi usufruisce della misura.

Poco o nulla in breve, e non mi dilungherò ulteriormente, tranne che per rimarcare, se ce ne fosse ulteriore necessità, che nel frattempo chi è detenuto continua a patire condizioni indegne, con esperienze che definire devastanti è riduttivo e che di conseguenza, chi non riesce a venirne fuori, non trova altra soluzione che porre fine alla propria esistenza in questa torrida estate del 2024, nell’assoluto silenzio della politica, che non è in grado, o meglio non vuole, mettere fine a questa situazione che rappresenta, prima che una vergogna, un fallimento non solo per le Istituzioni, ma per tutta la società civile.

Alla “Ricerca del Tempo Perduto” dunque, o meglio “Adelante Pedro con judicio”.

La morte di unə, il dolore di tant3

LIVIA

Due settimane fa abbiamo scritto un articolo sul sovraffollamento, il caldo e i suicidi in carcere.

Il tempo di pubblicarlo ed è uscita la notizia di un nuovo suicidio e poi di un altro, e poi di un altro ancora.

Tenere questo conto comincia a diventare difficile sotto tutti i punti di vista, solamente chi dovrebbe farsene carico, lo stato e chi lo rappresenta, sembra non avere difficoltà in merito.

Perché questo è importante sottolineare, il carcere è un’istituzione statale, come le scuole e gli ospedali per intenderci.

Tutt3 dovremmo interrogarci sul perché, invece, è diventato e viene percepito come un mondo a parte dove tutto può succedere.

 

Se già più volte ci siamo soffermat3 sul lato politico e sociale dei numerosi suicidi che stanno avvenendo, ora il nostro pensiero si sofferma sul lato emotivo.

La morte di una persona provoca dolore e spiazzamento, la morte per suicidio provoca una miriade di altre sensazioni e riflessioni.

E dietro la morte di una persona c’è il dolore di tant3.

In questi casi c’è il trauma di chi ritrova un corpo senza più vita, che siano poliziott3 o altr3 detenuti; c’è il dolore e lo stupore di chi fino a qualche ora prima aveva condiviso tempi e spazi ristretti; c’è soprattutto il dolore e la disperazione di chi è fuori e a quel “detenutə suicida” voleva bene.

Dolore al quale si aggiungono rabbia, perché il carcere dovrebbe custodire e non uccidere; rimorso, per non aver capito quanto poteva succedere; rimpianto, per un’ultima carezza mancata.

Le persone detenute che si stanno togliendo la vita sono esseri umani non numeri, proviamo ad immaginare cosa significa la perdita di una persona cara, proviamo a ricordare cosa abbiamo provato quando ci è successo.

 

Purtroppo sappiamo tutt3 che ci saranno altre morti e altre rivolte, in un effetto domino potenzialmente infinito.

Purtroppo sappiamo tutt3 che continuerà il silenzio istituzionale, figlio di un disegno repressivo ampio e ramificato.

Purtroppo sappiamo che anche le nostre sono solo parole, lette da poch3 e condivise da pochissim3, ma continueremo a scrivere, a lavorare, a lottare e indignarci finché avremo fiato.

Gli anni del Covid in carcere

Il periodo pandemico è ormai storia lontana, la guardiamo quasi con disorientamento, chiedendoci se sia successo davvero. Siamo stat3 chius3, nelle nostre case, con orari da rispettare, documenti da compilare per uscire, controlli, dispositivi di sicurezza … La quotidianità stravolta del nostro fuori si è forse avvicinata a quella di molte persone private della loro libertà, le quali hanno vissuto proprio in quel periodo l’acuirsi del disagio che versavano le loro “case” circondariali
DOMENICO

Quando sono uscito io non m’hanno fatto saluta nessuno perché era il periodo del Covid. 

Durante il Covid, in carcere

Io sono stato il primo a essere isolato  per Covid. Isolato.

Allora che è successo: c’avevo il raffreddore, non me sentivo bene e so andato in infermeria. “Dotto’, c’ho il raffreddore me dai qualcosa?” e lui mi ha dato un antibiotico per 5 giorni.

Il giorno dopo, stavo all’aria, mi sento chiamare e quindi vado di nuovo in infermeria. 

Boh, me comincio a preoccupa’.

Il dottore me dice: “Come sta?”. “Bene – gli ho detto – m’ha dato l’antibiotico ieri”.

M’ha messo il misurino sul dito, m’ha fatto passeggia’ per 5 minuti e poi m’ha detto: “Noi abbiamo disposizione che la dobbiamo isolare”. 

 

Era sotto Pasqua, me ricordo, era il 2021 o il 2019. Gli dico: “Come me devi isola? Io sto bene”. Eh, e m’ha isolato. M’ha mandato in una cella che era stata distrutta da un mattaccino. Era tutta rotta, pure il termosifone era rotto. Io ho fatto casino, ho chiamato il comandante e gli ho detto: “Io non prendo più la medicina…” E al dottore: “Ma lei manda la gente in isolamento senza vedere manco dove li manda…”  

 

Sono stato 15 giorni, gli chiedevo io a spese mia di fare il tampone. 

“Dotto’ famme il tampone. Te lo pago io, che dovemo fa?”

“No, le disposizioni non sono queste.”

“Ho capito ma io sto bene, perché devo stare 15 giorni isolato da solo?”

 

Che poi c’avevo un pezzetto d’aria che potevano esse quattro metri per tre?

‘Na cosa brutta è stata, il tampone non me l’hanno fatto, so’ stato 15 giorni isolato punto. 

 

Riguardo al Covid, l’unica cosa buona che ha portato è stato il fatto che potevi fa più telefonate e le videochiamate. Solo quello.

Potevi fare due telefonate a settimana di 10 minuti. Non c’erano gli incontri. Poi parlamose chiaro, noi dovevamo andare in giro con la mascherina, gli agenti tutti senza mascherina. E infatti c’è stato qualche agente che si è ammalato, è stato male, è andato in terapia intensiva.  Da quando sono cominciati i colloqui,dovevamo sta  tutti con le mascherine: noi, i parenti. Giustamente, quello che non capisco è perché io sono obbligato a mettere la mascherina e tu no. Questo non capisco.

Che poi rischiavi rapporto senza mascherina. Se te prendi rapporto, perdi 45 giorni de libertà anticipata. Qualsiasi cosa che fai te perdi 45 giorni.

Io in tutti sti anni de galera non me so mai pijato un rapporto, me credi? Niente, non ho perso un giorno. Quando sono uscito fuori, perché a 4 mesi dal fine pena mi hanno dato i domiciliari, una mattina non ho sentito i carabinieri che m’hanno sonato. Stavo sotto la doccia alle sette e dieci perché io uscivo alle otto, e non l’ho sentiti. Quando so ritornato alle 10 mi hanno chiesto: “Lei do’ stava alle sette e dieci?” “E do’ stavo? Stavo sotto alla doccia.” “No, perché lei non ha risposto.” “Eh ho capito ma mica era colpa mia non ve sentivo”.

Poi avevano pure il numero di telefono mio, mi potevano pure chiamare… Infatti quando siamo andati a causa, con l’avvocatessa, ho vinto la causa e sono stato assolto.

 

Però ho perso 45 giorni!

Riflessioni sullo “svuota carceri” e non solo

LIVIA 

Fa caldo, non facciamo che ripetere questa frase in questi giorni. Eppure in linea di massima abbiamo case più o meno spaziose ma comunque vivibili, abbiamo finestre da aprire, passeggiate da fare, il respiro del mare o la frescura della montagna.

Dopo oltre  20 anni di lavoro in carcere il mio pensiero non può che andare alle persone ristrette: spazi angusti e sovraffollati, sbarre alle finestre, porte blindate chiuse con solo uno spioncino, cemento come pavimento, umidità dalle pareti, bottiglie d’ acqua sui piedi come strategia di refrigerio e acqua che manca nelle docce e poi indignazione, mortificazione, insofferenza, rabbia, dolore, disperazione e tanto altro. 

 

Bisognerebbe capire una volta per tutte che la punizione prevista è la privazione della libertà, il resto sono diritti negati al limite della tortura.

Bisognerebbe decidere una volta per tutte se vogliamo essere uno stato che garantisce diritti a tutt𑇒, se davvero si crede in un concetto di detenzione riparativa e educativa oltre che punitiva e mortificante.

 

Tanto si parla in questi giorni di riforme per dare sollievo e respiro a questa situazione di sovraffollamento, misure tecniche semplici e già sperimentate che darebbero una parziale ma maggiore vivibilità. Ma gli interessi politici e le alleanze di partito sono più forti e importanti della sopravvivenza di chi, anche se colpevole, arriva a togliersi la vita pur di non stare in un carcere. 

Ci troviamo davanti ad una totale mancanza di lungimiranza da parte di chi ci governa, che invece di correre ai ripari spaventata da ciò che succede in una loro istituzione continua a discutere e rimandare decisioni importanti al fresco delle aule parlamentari.

La riforma proposta nei giorni scorsi, come già detto da esperti del settore, è vuota e non risolutiva ma per interessi interni e giochi di potere non si giunge ad una soluzione e si paventa all’ opinione pubblica l’uscita di orde barbariche di persone detenute per giustificare misure esclusivamente repressive.

Si aspetta forse qualche rivolta per giustificare la decisione di costruire nuovi carceri invece che depenalizzare e di investire in corpi speciali di polizia invece che in strumenti educativi.

E intanto siamo a quasi 60 suicidi da inizio anno di persone detenute, siamo di fronte ad un imbarazzante e rumoroso silenzio istituzionale che neanche il caldo e il suono delle cicale riescono a cancellare.

Suicidi in carcere

Oltre i numeri, le persone

ALESSIA

«Le persone detenute che dall’ inizio dell’anno e fino al 20 giugno 2024 si sono suicidate in carcere sono 44» si legge sul documento pubblicato sul sito del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà “Analisi suicidi in carcere 2024”. 

Seguono poi una serie di dati, di numeri, delle specifiche categorie che fanno pensare di avvicinarci meglio alle loro vite: uomini 42, donne 2, italian𑛂 24,  stranier𑛂 20 e così via. 

Se la guardiamo da una certa prospettiva, può sembrare che la pulsione a incasellare vite burocratizzate svuota di senso e significato le singole esistenze. A guardarle da fuori, attraverso nomi che danno caratteristiche approssimative, ci sembra di conoscerle meglio quelle vite, mentre ci allontaniamo ancora di più dalla realtà. Con questo non si nega l’importanza che – in una società burocratizzata – rappresentano questi dati, queste statistiche. Sui giornali vediamo, con una certa leggerezza, associare le persone che scelgono di porre fine alla propria vita con parole come “rischio record” e se ci sembra normale, se non ci si accappona la pelle allora l’oggettificazione dei corpi è completa, la cosificazione delle vite ha raggiunto i suoi picchi massimi. Ancor di più quando a morire sono le persone detenute.

Quello che ci proponiamo di fare, allora, è prenderci il tempo, percorrere queste perdite, sentirne tutto il peso e le responsabilità collettive di un’istituzione penitenziaria che sì, uccide sistematicamente.

Parlare di suicidio, già di per sè fa crescere un grosso magone. S’impone ai nostri sensi un disorientamento che colpisce quasi più forte di una perdita avvenuta in altri modi, in modi casuali, in quei modi comuni che non riusciamo spesso a spiegarci. Quando la morte è scelta restiamo paralizzati, le domande si moltiplicano, si pensa a tutte le parole che potevano dirsi per evitare quella perdita. Ci si sente responsabili pure quando, dopo tempo, ammettiamo che non si può conoscere fino in fondo il dolore di una persona. Restiamo in queste domande, osserviamo le ricorrenze. Perché una spiegazione forse esiste se i numeri aumentano ferocemente, se le persone recluse nelle carceri scelgono di abbandonare la vita piuttosto che attendere il fine pena.

Quali sono le condizioni di vita negli istituti penitenziari italiani?

Immaginiamo di convivere costretti in 6 mq in 4 persone, con i muri che trasudano il calore, senza poter chiamare o vedere una persona amica nel momento del bisogno e dovendo attendere le risposte per ogni minima richiesta. Avere 3 rotoli di carta igienica al mese, scrivere domandine su domandine per chiedere che so, una visita medica. Aspettare risposte, colloqui, sentenze. Aspettare che qualcuno ti ascolti, ti ricordi che sei un essere umano. Aspettare sempre, senza poter fare nulla per la tua vita, senza poter attivamente scegliere nulla: quando mangiare, quando dormire, quando incontrare chi ami. 

«Ci sono alcune espressioni che gli agenti usano spesso per imporre le loro decisioni. La più usata è “ricordati che qui sei in galera”. Tutto ciò di cui abbiamo bisogno viene concesso dall’istituzione e quindi bisogna chiedere, usando formule di gentilezza. In una situazione di estrema deprivazione si è sempre costretti a chiedere, e spesso si ottengono risposte negative. Piccole negazioni che non sempre hanno una giustificazione. E allora, la motivazione più convincente si rivela l’invito di non dimenticare mai il luogo dove ci troviamo. Ricordare di essere in galera ci serve ad accettare con rassegnazione ogni forma di privazione. Ho l’impressione che molti agenti credono che non siamo stati condannati abbastanza, che le condanne che ci sono state inflitte siano troppo leggere, e che loro devono in qualche modo fare qualche integrazione alla condanna. È chiaro come in un clima di questo tipo vi possono essere nella quotidiana burocrazia del carcere negligenze, rigidità, omissioni, disfunzioni organizzative che creano disagio e inutili sofferenze, che offendono la dignità delle persone soprattutto perché sono improntate al pregiudizio, a volte anche al razzismo, e sono comportamenti tanto più sgradevoli e offensivi quanto più sono sprovvedute e indifese le persone che ci vanno di mezzo.»  “Farsi la galera. Spazi e culture del penitenziario.” – a cura di Elton Kalica e Simone Santorso

Proprio ieri io, Livia e Sara parlavamo di questa problematica. I suicidi in carcere accendono i riflettori su una situazione completamente degenerata che si cerca di denunciare da tempo e da più fronti. E sembra che a far più scalpore, ad accendere maggiormente i riflettori, non siano bastati i suicidi delle persone recluse: è dovuto accadere che a togliersi la vita siano stati gli stessi agenti penitenziari. Triste pensare che solo allora abbiamo iniziato a renderci conto dell’invivibilità dell’ambiente carcerario, ancora più triste è non riuscire più a sostenere il posto in cui si lavora, tanto da scegliere di abbandonare la vita. 

Indicibile, invisibile, lontano. Il carcere chiuso in sé stesso, completamente isolato e abbandonato, un posto affollato di storie di vita. Come ha sottolineato Livia, il penitenziario è pur sempre un’istituzione dello Stato: cosa succederebbe se all’interno della scuola o dell’università si riscontrasse un alto numero di suicidi tra personale e corpo studentesco? Certo non quello che si fa con il carcere, cioè nulla. 

In un incontro organizzato dall’associazione Parliamo di carcere lo scorso 11 maggio, il garante dei detenuti del Lazio  Stefano Anastasia ha parlato del grande problema dei suicidi in carcere, individuando tra le cause primarie quella del sovraffollamento. Ha notato la macabra ironia nel passaggio di letti a castello a tre, una mossa che concretamente, in termini materiali di “altezza”, facilita di fatto l’impiccagione. 

Ci lasciamo così, con questa amara consapevolezza. Spero che chi poco si interessa a questi argomenti “di nicchia” capisca l’importanza di riflettere su modi alternativi di pensare le pene. La responsabilità di calpestare, stracciare, demolire a mano a mano la dignità e i diritti umani è di tutt𑛂 noi. I suicidi in carcere fanno parte di questa stessa responsabilità. 

Il genere come categoria culturale e il transgenderismo ristretto

ALESSIA

In punta di piedi incontriamo il transgenderismo, un altro arido concetto, sì. Dietro il quale sono occultate vite reali di persone reali che abitano proprio come te nella quotidiana incertezza di questo mondo precario. E no, non è certo divenuto così perché in giro c’è troppa frociaggine o per le sfilate dell’orgoglio gay.

È sempre facile cedere alla tentazione di stigmatizzare, escludere, curare, correggere chi devia dalla norma. Si fa “da sempre”, almeno da come leggiamo sui polverosi libri di storia.

Perché il casino delle categorie culturali è che appunto ci sembrano naturali, hanno la capacità di entrare nei nostri modi di fare, di parlare, di pensare e restarci, se non facciamo attenzione, anche per la nostra intera esistenza. E tu mi dirai, cosa me ne frega a me, ci vivo bene nella mia pelle di persona socializzata in conformità della norma. E sono qui per dirti che sbagli, sbagli a non vedere o a non voler vedere che dietro una categoria ci sono persone reali, fatte di carne come la tua e di esperienze di vita che richiedono scelte, affermano gusti, si accoccolano tra gli affetti, si pigliano il raffreddore e le botte di un bastone di giudizi che quando sono diretti alla propria identità, in quanto tale, possono uccidere oltre che fare male. E ancora ti dirò che pure l’identità è un concetto costruito e che come categoria, insieme a quella di corpo è sempre relazionale e mai naturale: l’io cioè ha bisogno dell’incontro con l’altro per definirsi altro da esso. 

 

Pillole antropologiche sul genere come categoria culturale

Questo sproloquio quasi romantico vuole servire per introdurre un’altra importante verità: il genere è una categoria culturale socialmente costruita, il dualismo di genere quindi – vedere il mondo diviso in due tra il maschile e il femminile – non è parte della natura della specie umana. Prendiamo ad esempio il concetto maussiano di tecniche del corpo, rimodellato poi da quello di incorporazione:  il genere è una tecnica del corpo. Un modo di muoversi, camminare, gesticolare, parlare, esserci nel mondo specifico di un gruppo di persone. Come noi ci serviamo del corpo nel mondo uniformandoci alla tradizione.

Mauss ha scritto del diverso modo di camminare degli anni venti delle donne tra i Maori della Nuova Zelanda. Onioi è come le madri insegnano alle figlie a camminare, tecnica di camminare in un “ondulamento staccato” che forse a un occhio occidentale può sembrare sgraziato, mentre “i Maori lo ammirano moltissimo”.

Bourdieu invece ha parlato del “senso dell’onore” e della “virilità” associati all’essere corpo maschio tra i Calibi d’Algeria. Queste espressività si costruiscono per opposizione a quelle forme e tecniche incorporate alla figura femminile che ancora nei modi di camminare manifestano le loro differenze.

«Il passo dell’uomo d’onore è deciso e risoluto in contrapposizione all’andatura esitante […] che denuncia l’irresolutezza, […] la paura di mettersi in gioco e l’incapacità dì mantenere propri impegni […]. AI contrario, dalla donna ci si aspetta che avanzi leggermente curva, con gli occhi bassi, evitando di guardare qualsiasi altro punto che non sia dove metterà il piede» (Bourdieu)

* Fonte: “Antropologia medica. Saperi, pratiche e politiche del corpo.” Giovanni Pizza.

Se il genere e la sua definizione binaria è una costruzione sociale, incorporata e naturalizzata dai nostri corpi che si muovono e sono nel mondo come hanno appreso di dover essere, allora chi ci dice che i generi non possano essere di più? O che le separazioni non siano poi così nette? Se essere umani significa produrre significati, perché arrestarci ora e non produrne di nuovi?

Transgenderismo ristretto

Osservare la società contemporanea e poi il carcere come specchio della stessa ci chiarisce subito l’elemento pregiudiziale ed escludente che ingabbia il concetto-persona in un’identità di cui si tracciano minuziosamente bordi netti.

Senza dar conto della fluidità del vivere, fuori come dentro, le persone transgender e più in generale gli appartenenti alla comunità queer sono invisibilizzati, stigmatizzati e sempre a rischio di insulti, percosse e violenze di alcun tipo. 

Se invisibile è spesso la persona reale dietro il concetto di transgenderismo, immagina la persona transgender ristretta in carcere, un mondo già invisibile di suo. 

Abbiamo più volte affermato riguardo all’istituzione penitenziaria come essa si strutturi secondo dialettiche e normative che tengono conto principalmente delle condizioni di vita della popolazione al maschile che costituisce la maggioranza della popolazione detenuta totale. In una netta scissione abitativa maschio/femmina dove si collocano le persone transgender? 

Di base succede che se si arresta una persona che pur avendo iniziato il percorso di transizione non ha ancora compiuto “la riassegnazione di sesso e genere anagrafico” – quindi se sui documenti risulta il sesso con il quale si è nati e non l’identità di genere dell’individuo – una donna trans (M to F) viene collocata negli istituti maschili e un uomo trans (F to M) è collocato negli istituti femminili. 

* La riassegnazione di sesso e genere anagrafico viene regolamentizzata in Italia con la Legge 14 aprile 1982, n. 164: “Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso”.

 

Aldilà delle iniziative dei singoli istituti penitenziari che prevedono in genere la creazione di una sezione apposita di contenimento delle persone trans, le normative penitenziarie non tengono conto delle soggettività plurali che abitano le condizioni ristrette del carcere.

È lampante la criticità delle persone che oltre ad essere dentro, chiuse e isolate dalla realtà sociale legale, sono ancor più ristrette nella riproduzione di un’esclusione sociale che le segrega in spazi altri, diversi e separati dall’altro lato della popolazione detenuta. A ragione di questo tipo di soluzione che gli istituti si trovano a dover mettere in atto c’è come si può immaginare un’attenzione particolare sull’incolumità della persona trans che può essere soggetta, nel contatto con la popolazione detenuta cis, ad azioni di violenza psicologica, fisica e/o carnale.

Sono possibili soluzioni nuove che tengano conto della dignità e dei diritti della persona reclusa? Spogliamoci dalle categorie che limitano il nostro sguardo, tentiamo di decostruire secoli di saperi e conoscenze prodotte dalla cultura che portiamo addosso come pelle.

Spelliamoci, dunque. Facciamo la muta come i serpenti. Non senti quanto sia necessario?

Incontri – Assorbire il cambiamento

ALESSIA

Assorbire il cambiamento è il progetto che abbiamo promosso quest’anno, ormai lo sapete bene. Dall’otto marzo al ventotto maggio abbiamo raccolto gli assorbenti per le persone detenute in carcere e nelle strutture di accoglienza. In questi mesi abbiamo incontrato le esperienze di alcuni vissuti di dentro, ne abbiamo parlato, siamo stat3 dentro le storie di chi ha dovuto gestire in una quotidianità ristretta le mestruazioni.

Ripercorrendo nella mia mente le loro voci, i loro sguardi, i loro sorrisi sarcastici, mi rendo conto della continuità di tutti i racconti: gli assorbenti in carcere servono, quando arrivano non sono sufficienti, non sono per tutt3, non c’è possibilità di scelta

Chi lavora sì, chi ha una famiglia che può sostenerl3 va bene, chi trova la solidarietà del coabitare, in qualche modo le mestruazioni vengono gestite. 

L’obiettivo di “Assorbire il cambiamento” non è mai stato solo quello di donare assorbenti usa e getta o lavabili, come abbiamo detto più volte volevamo incontrare le persone: consegnare il materiale, ascoltare le loro esigenze, costruire insieme dei “laboratori” per parlare di ciclo abbattendo i tabù e presentare – grazie alla collaborazione con Camilla (Laboratorio sostenibile) – quei dispositivi lavabili e riutilizzabili che possono portare vantaggi economici, igienici ed ecologici importanti. 

 

Ora è arrivata la parte che preferisco, quella dell’incontro appunto. 

Incontro a Casa di Leda

Mercoledì io e Camilla siamo state a Casa di Leda, vi racconto un po’ com’è andata.

All’inizio, come succede quando guardi per la prima volta visi nuovi, siamo state sommerse dagli sguardi. Sguardi curiosi, diffidenti, infiltranti. Sono ormai due anni che percepisco quegli sguardi penetranti e non credo di saper spiegare bene cosa si provi nel’accoglierli, restano dentro. Cercano di indagarti. Sanno chi rappresenti, vogliono capire chi sei.

Ci accomodiamo in una stanza ricca di giochi per bambin3, c’è una tenda, dei libri, delle sedioline e un grosso tavolo. Con l’operatrice della struttura sistemiamo le sedie: mettersi in semicerchio è sempre una buona idea per guardarci in faccia e continuare quel gioco di sguardi. Arrivano una alla volta le donne di Casa di Leda e una bambina che ha da poco esperito il suo primo menarca. Questo forse, pensiamo con Camilla, lo renderà ancora più importante per qualcuno. Io da piccola mica ho avuto la possibilità di stare in una stanza a parlare di ciclo con sconosciute! Superato l’imbarazzo, sarà sicuramente interessante. O almeno questa è la speranza. 

Ci presentiamo, iniziamo a parlare e come sempre accade quando si ha un’idea, una “scaletta” di argomenti da trattare, la curiosità del momento ha spostato tutte le attenzioni sulla bustina blu di stoffa contenente gli assorbenti lavabili di Laboratorio sostenibile

Così Camilla ha iniziato a spiegare come sono fatti, quando e come vanno lavati, quanto possono durare, diciamo tutte quelle informazioni di cui abbiamo scritto qualche articolo fa: “Le mutande assorbenti e il carcere”.

Diventa subito facile parlare di qualcosa che va oltre i confini delle nazionalità, delle appartenenze culturali, dei differenti gruppi sociali, quando si condivide nell’immediatezza dei corpi la ciclicità fisiologica del sanguinare. 

 

Assorbire il cambiamento – gli assorbenti lavabili in carcere è una soluzione possibile?

Nonostante l’entusiamo ricevuto per gli assorbenti lavabili – se non da tutte almeno da 4 persone su 5 – alla domanda “In carcere può funzionare secondo voi?”, la risposta è arrivata all’unisono: no! Si è ragionato come anche negli altri incontri, sulla questione economico-logistica, per cui sarebbe certo una soluzione a lungo termine del problema quella di avere a disposizione sempre i propri assorbenti lavabili (che durano in media 5 anni!). Cosa non può funzionare? Il lavaggio e l’asciugatura.  

«Non si asciuga manco ‘na maglia, figurate questo che è doppio» ha detto S

«10 anni fa si potevano mette fuori i panni adesso no» ha continuato G

Mentre spiegavo meglio il progetto di Assorbire il cambiamento sono stata interrotta al “la maggior parte degli assorbenti li portiamo in carcere…”.

«E fate bene, veramente, perché ce n’è bisogno in carcere» ha affermato E, mentre le altre annuivano e confermavano quel che cerchiamo di far emergere da mesi. 

Perché secondo le loro esperienze, in linea con le altre già raccolte di Maria, Rosaria e Sonia, gli assorbenti in carcere non arrivano sempre e quando arrivano sono pochi. Pensiamo di vivere il nostro ciclo con un pacco al mese, con tre rotoli di cartigienica e senza bidet! E ci ha raccontato che quando è entrata aveva le mestruazioni, non aveva assorbenti con sé e ha dovuto arrangiarsi

«Ho preso il lenzuolo e l’ho strappato poi ho fatto così e via» – mimando il posizionamento del lenzuolo tra le gambe. Ti tieni gli assorbenti fino a quando reggono, anche l’estate quando il materiale, con il sudore e il sangue in eccesso irrita la pelle. Devi farlo per usarne il meno possibile. Certo che se ti finiscono puoi sempre chiedere a chi ne ha di più, l’altra sa che la prossima volta avrà un assorbente da te; alcune magari li vendono ma «Devi essere proprio str**za per vendere l’assorbente a un’altra mamma» ha concluso E

Sul bidet la questione è sempre la stessa, diverse le carceri, diverse le sezioni, diverse le disponibilità. Quindi in alcune è presente, in altre no. 

D ha spiegato: «Nel carcere di *** alla sezione con i figli, dove c’è l’asilo tutto, c’è il bagno in camera e hai tutto, nell’altra ci sono le docce tutte insieme».

G ha poi commentato ridendo «Tanto la metà non si lava quindi non è un problema».

Attacchiamoci al G.I.O.

G.I.O. – Gruppo di Intervento Operativo. No, non è uno scherzo e sì, anche in questo caso si predilige la via della repressione. Il G.I.O. è il nuovo modo di istituzionalizzare la violenza e legittimarne l’uso e l’abuso per rispondere ai “disordini” delle carceri italiane, ignorando completamente le ragioni a monte di una protesta o di una rivolta
Come forse è noto, lo scorso 29 maggio è stata inscenata una protesta all’interno dell’IPM di Milano, il Beccaria. Un istituto che proprio in questi mesi è protagonista di una certa attenzione mediatica dato il corso delle indagini circa maltrattamenti e violenze di alcuni agenti penitenziari nei confronti dei ragazzi. 
Il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha spiegato che il modello del G.I.O. è ripreso da quello francese Eris, con il quale «si sono abbattuti del 90% i fenomeni di criticità».

«Nel carcere minorile molti dei ragazzi detenuti hanno inscenato una protesta, che è consistita prima nel mancato rientro in cella e poi nella battitura delle sbarre, rientrata dopo poche ore senza violenza e senza che nessuno, sia tra i ragazzi che tra gli agenti, sia risultato ferito». Patrizio Gonnella – Antigone

Il nostro ricercatore spossato, ce ne parla oggi così: ATTACCHIAMOCI AL G.I.O.
LE PAROLE DI L

No, questo non è un rigurgito lessicale o un’incontinenza semantica. 

No, ci “attaccheremo” veramente tutti al G.I.O. Incurante ed indifferente di fronte ai pestaggi ed alle torture durante la pandemia nel carcere di Capua Vetere  e più  recentemente  agli episodi del Beccaria, con un “menù alla fiamma tricolore” degno di un ristorante a 5 stelle questo Governo ci ha “servito” un decreto ministeriale che istituisce il G.I.O, Gruppo di Intervento Operativo. Cos’ è?  Una squadra, c’è da scommettere che sarà così, che  interverrà reprimendo qualsiasi tipo di contestazione in ogni carcere d’Italia

 

ORDINE E DISCIPLINA – ça va sans dire. Perché la repressione è il vaccino di  questo Esecutivo, proprio come nel film di Gian Maria Volonté “un cittadino al di sopra di ogni sospetto”.

 

Dopo anni di predicazioni garantiste da parte di un Ministro ex magistrato, dopo qualche bicchiere di champagne di troppo ed un improvviso colpo di pistola per festeggiare il capodanno da parte di qualche esponente politico, ora ecco il G.I.O!

Quando si dice che l’ alcol fa male… Ed il sovraffollamento, le celle fatiscenti umide, l’assenza di cure sanitarie? La popolazione detenuta può pure andare a farsi fottere. A meno che tu non sia un detenuto che, salvo qualche eccezione, possa permetterti un avvocato “principe del Foro” ed uscire dall’ inferno delle nostre carceri. 

Come dire: “c’est l’argent qui fait la guerre”. Se no, attacchiamoci al G.I.O.               

 M49, l’Orso
Riguardo agli IPM e di come abbiano subito un importante e deleterio cambiamento, in seguito dell’inasprimento delle pene avviato con il  Decreto Caivano, puoi leggere di più qui.

Esperienze ristrette: il ciclo in carcere

Un ricordo recente, quello di Rosaria, una signora di 52 anni ospite all’interno di una struttura di accoglienza romana per persone detenute in misura penale esterna o ex detenute. Abbiamo incontrato Rosaria quasi un mese fa e ha partecipato volentieri al progetto Assorbire il cambiamento che – come ormai saprete – prevede oltre alla donazione di assorbenti per il carcere e le persone detenute nelle strutture di accoglienza, questa raccolta di preziose testimonianze che ci rendono possibile andare oltre le alte mura degli istituti penitenziari e ascoltare, o in questo caso leggere, come vivono il ciclo mestruale le persone ristrette.

 

Qualche tempo fa sui nostri canali social già abbiamo letto una piccola parte dell’intervista fatta a Rosaria

«Chi prende terapia gli scende proprio che è ‘na bellezza eh, per gli anticoagulanti. Dicevano “mamma mia c’ho tutto sto ciclo”, queste se spaventavano… Perché non sapevano, erano ignare. Poi se fai uso di dr0g4, ehhh! Se fai quello ti si riduce, e tante lo fanno pure per questo, perché non sopportano … e invece quando vengono monitorate con la terapia, tutto ‘sto sangue … Tante dovevano cambiare spesso le lenzuola perché avevano ‘sto problema. E quindi c’è chi soffre di più e chi di meno.»

E ancora, riguardo ai farmaci:

«Io per esempio sono stata una che quando sono entrata (47 anni nel 2019) avevo il flusso abbondante, ce l’ho sempre avuto abbondante e prendevo una medicina a base di penicillina. Un antinfiammatorio buono per le ossa, per il mal di schiena e pure perché riduce il flusso mestruale. […] Poi me s’è regolarizzato molto con la maternità e non l’ho preso più. Lì me davano… quello che avevano. Brufen, Oki, Buscofen … E io me prendevo quello che potevo insomma, quello che tolleravo insomma perché l’oki non lo tollero, me se mette sullo stomaco. Poi una volta, non riuscendo con questi […] mi diedero l’Ugurol che è un riduttore, so goccette che te danno. ‘Na volta, due, tre e quello me disse, l’infermiere che stava là, “ma che stai andà in menopausa?”. “No io so proprio così” – gli ho fatto – “C’ho la mia medicina che mi dovrei far prescrivere”. Dice “Ok” e quindi me diede sta cosa qua.»

Oggi riporteremo il più fedelmente possibile, il suo racconto riguardo:

  1. Il ruolo da spesina in carcere – la farmacia;
  2. “La gioia nel cuore” delle persone detenute per le donazioni ricevute;
  3. Richiedere le visite specialistiche in condizioni ristrette.
ROSARIA 

Il ruolo da spesina in carcere – la farmacia

Allora, io vi posso assicurare – dato che ho fatto la spesina per tre anni all’interno della sezione *** – davano 1 pacchetto o al massimo 2 pacchetti di assorbenti a detenuta, quando avevano la possibilità, altrimenti si compravano. Venivano da me e li acquistavano.

A. «Quindi al sopravvitto?»

Sì, tante richiedevano gli assorbenti perché stavano più comode, rispetto a quelli che passavano. Poi, da me prendevano quelli interni, i tampax, ci stavano i regular e quelli più abbondanti. 

A. «E a livello di costi?»

Eh, dei costi… dovrei pure avere la lista da parte. Comunque… costicchiavano. Stavano dai 3 euro in su, alcuni pure molto di più. Mo’ non vorrei esagera’, non me ricordo esattamente l’importo, però quello era. E quindi apprezzavano quando glieli donavano, tante volte andavano a chiedere pure alle suore, chiedevano alle associazioni… è normale. Perché poi c’erano quelle che stavano col flusso abbondante, chiaramente.

Quando c’era la farmacia, alla prima e alla terza settimana del mese – ancora me ricordo – si facevano le domandine per i farmaci – su richiesta poi della dottoressa o del dottore che ti doveva mettere in visita a seconda del giorno del piano in cui stavi. Ti facevano la prescrizione, la visita, quello che è. Però insomma si dovevano imporre, ad esempio se volevano una specifica medicina, dicevano:“No, perché io lo so che questo qua lo usavo già da fuori, me va bene e voglio questo qua non voglio cambia’”. Allora arrivava questa medicina. Le pagavano a loro spese.

Se invece dovevano farsi portare le medicine dai parenti, da fuori, dovevano fare ulteriori richieste per farle entra’ e tutto quanto. 

Ne facevo tante. Molte chiedevano le vitamine, chiedevano il multicentrum e soprattutto le ragazze nere se sentivano scoperte, non coperte, poco tutelate.

Tutte, tutte se lamentano, chi pe’ na cosa, chi pe’ n’altra.

“La gioia nel cuore” delle persone detenute per le donazioni ricevute

Vi dirò di più: quando venivano co’ i carrelli perché le associazioni, come Sant’Egidio, mandavano che ne so, du pacchetti di caffè coi biscotti… I biscotti di quelli che dentro non ce stanno, tipo batticuore, pandistelle… C’era una felicità immensa che sembrava chissà che cosa avevano ricevuto. C’era una gioia veramente nel cuore. 

Te portavano tante cose, anche i reggiseni magari di un colore differente a quello che avresti voluto ma il modello quello è. Le pantofole, io ancora ho quelle di S.E., è ‘na gioia immensa… Partiva lo scambio, “A te de che colore te l’hanno dato?”. Addirittura tanti fanno i pacchi, li mandano in uscita per i propri parenti, per i nipoti, per i figli. Hanno portato, mi ricordo, le magliette della Lazio, della Roma, le tute quelle svasate fatte a campana, i pigiami… Tutte contente, tutte entusiaste, quindi sposano bene l’idea. Non se sentono abbandonate, dicono “Ah menomale c’è qualcuno che ce pensa.” E quindi sono contente di questo.

A. «Certo, e le donazioni di assorbenti invece, sono mai arrivate?»

Sì. Vengono, vengono. Fanno delle consegne a parte magari, quando l’assistente lo richiede, perché a volte è successo che mettono dentro anche spazzolini, dentifricio, i prodotti igienici diciamo. Li mettono dentro una saletta e poi quando decidono li consegnano.

Volevo di’, del fatto degli assorbenti, in genere li consegnavano col cambio delle lenzuola, il martedì se faceva il cambio delle lenzuola ‘na volta a settimana. Poi vabbé saltava qualche volta, ad esempio per il fatto del Covid oppure quando c’è stata la scabbia. Però, se c’eraportavano nel carrello la fornitura, la cosiddetta fornitura cioè:

  • Quattro rotoli di cartaigienica per uno;
  • Due pacchetti di assorbenti; 
  • Una saponetta.

E ste cose qua.

Vi dico che prima che uscissi dalla sezione a settembre, gli assorbenti, i vestiti, i prodotti di igiene in generale venivano consegnati solo alle nuove giunte, alle altre no. E se sapevano, a maggior ragione che eri lavorante, ti obiettavano la cosa perché dicevano che non potevi prendere una cosa che toglievi ad altre che non lavorano e che non potevano permettersi di comprarla. Quindi i materiali rimangono là anche per un nuovo arresto, una nuova giunta. La formula era questa e s’è mantenuta diciamo fino a poco fa, poi mo’ non lo so. Da settembre non so se hanno cambiato qualcosa. Perché poi ho notato pure che cambia direzione, cambiano consegne, cambiano regole, cambiano tante cose… ma qui entriamo in un altro discorso.

Richiedere le visite specialistiche in condizioni ristrette

Ho fatto caso che chi fuma, gli si ostruisce diciamo le vene perché l’ossigeno non passa… cioè il sangue non si coagula nella maniera corretta e risente molto di più dei dolori mestruali.  Oltretutto, incide anche la quantità di acqua che bevi acqua, il fatto che te mangi gli insaccati, il fatto che te mangi i latticini… Io lo dico sempre a ste ragazzette di non mangia’ sta roba, per un mese e di fare la prova. Perché ti devi conoscere, devi imparare a capire cosa ti fa bene, cosa ti fa male e poi te incanali… E te dai un equilibrio, na cosa. 

A. Trovi il giusto rapporto col tuo corpo?

Brava! E allora poi dopo non te stai a lamentà che vai dal dottore “Ah, c’ho quello, c’ho questo, non so che ho fatto…” Anche perché, la ginecologa lì veniva di rado, veniva… a volte vengono. All’inizio venivano chiamate dopo tre mesi, tante se lamentavano. Ultimamente venivano più spesso. Chiamavano spesso il dermatologo che non c’era sempre. Si chiedeva del dentista, di un odontotecnico… sono queste le visite specialistiche più richieste. Poi tra l’altro quando io sono entrata nel 2019 ci fu la campagna per la sensibilizzazione del cancro seno, per le varie cose dei denti… Ci hanno portato alla parte del carcere adibita e ci hanno fatto le visite. Però non passano spesso. Anzi, la detenuta chiede e cerca, però sono gli assistenti, tra virgolette i capi insomma, i sovraintendenti, gli ispettori… che il più delle volte te dicono “Eh devi aspettà, mettite in lista.” Un po’ così…

Le mutande assorbenti e il carcere

Le mutande assorbenti sono un’alternativa ecologica ai classici assorbenti usa e getta, tra i vari  vantaggi che comporta l’utilizzo degli slip o degli assorbenti lavabili vi è sicuramente quello economico, ma non solo. Nello spirito dell’iniziativa “Assorbire il cambiamento” inserita nel progetto POSTER coordinato da Aidos, abbiamo chiesto a Camilla, fondatrice e coordinatrice dell’Associazione Laboratorio sostenibile di parlarci più nel dettaglio di questi prodotti igienico-sanitari ecosostenibili

CAMILLA

Come funzionano le mutande assorbenti?

Assorbenti lavabili e mutande mestruali sono il corrispettivo riutilizzabile e quindi più sostenibile dei comuni dispositivi mestruali usa e getta.

Gli assorbenti lavabili sono creati con materiali drenanti, assorbenti e impermeabili che hanno lo scopo di assorbire e trattenere il sangue. Il loro caratteristico bottoncino fa sì che restino ancorati allo slip. Le mutande mestruali hanno questi stessi materiali già cuciti al loro interno e non hanno quindi bisogno di ulteriori accessori per svolgere la loro funzione.

Entrambi i prodotti, se creati con materiali di qualità, possono portare notevoli benefici in termini di salute intima nonché un notevole risparmio economico sul lungo periodo e un impatto positivo a livello ambientale

Quanto durano le mutande assorbenti?

In termini di durata giornaliera entrambi i dispositivi hanno una capacità assorbente maggiore di quella degli usa e getta e possono essere indossati fino a un massimo di 8 ore.

In termini di durata negli anni parliamo di una media di 5 anni.

La loro durata nel tempo può dipendere da fattori prettamente legati al prodotto (la qualità dei materiali, ad esempio) così come da fattori esterni (corretto lavaggio e rotazione, conservazione lontano da ambienti umidi che potrebbero favorire la comparsa di muffe).

Quante mutande assorbenti al giorno?

La quantità di assorbenti e mutande mestruali di cui si necessita varia in relazione al proprio flusso e alle modalità di lavaggio prescelte

Se è vero infatti che ognuno dei due dispositivi può essere indossato fino a un massimo di 8 ore – e quindi si avrà necessità di almeno 3 pezzi per coprire l’intera giornata – è altrettanto vero che se questi verranno lavati immediatamente dopo l’uso saranno pronti per essere utilizzati nuovamente nel giro di 24 ore. Se al contrario si aspetterà la fine delle mestruazioni per lavarli tutti insieme, si avrà bisogno di almeno 10/15 pezzi per coprire con serenità tutti i giorni di mestruazioni.

Come si lavano le mutande assorbenti?

Questa è la preoccupazione principale di chi si approccia per la prima volta al mondo delle mestruazioni sostenibili. Ma il lavaggio è solo una questione di pratica e abitudine.

I punti fondamentali sono pochi e ben precisi: assorbenti e mutande mestruali hanno bisogno di un risciacquo in acqua fredda dopo l’uso per far sì che il sangue non si fissi ai tessuti. Dopo questo passaggio fondamentale, entrambi i dispositivi possono essere lavati sia a mano che in lavatrice a una temperatura massima di 40°.

Esistono poi delle soluzioni efficaci per rimuovere macchie e aloni più ostinati. Parliamo del percarbonato e dell’acqua ossigenata che se utilizzati prima del lavaggio finale e uniti all’asciugatura al sole fanno tornare assorbenti e slip mestruali igienizzati e puliti come nuovi.

ALESSIA

Perplessità sull’utilizzo delle mutande assorbenti in carcere 

Ci siamo chiest3, in carcere può funzionare? 

Durante l’organizzazione della Campagna di raccolta assorbenti per il carcere e le strutture di accoglienza per persone detenute di quest’anno, abbiamo pensato di introdurre questi dispositivi ecosostenibili. I nostri dubbi sull’uso delle mutande assorbenti o gli assorbenti lavabili negli spazi ristretti di una cella, magari pure affollata, sono relativi alle condizioni igieniche per cui si deve lavare lo slip nello stesso lavandino in cui si lavano le stoviglie; per i fastidi che può portare nelle condizioni di una convivenza forzata tra persone diverse che magari non condividono le stesse abitudini e le stesse concezioni riguardo alle mestruazioni in generale; o ancora per i tempi di asciugatura

Abbiamo chiesto per questo a Maria e Sonia, due persone che hanno vissuto l’ambiente del carcere in modi, tempi e situazioni differenti. 

Introdurre negli istituti penitenziari l’uso delle mutande assorbenti 

MARIA

In carcere tutte le cose, anche le mutande normali si lavano nello stesso posto in cui si lavano le stoviglie. Io posso dire una cosa secondo la mia esperienza. Purtroppo in cella con altre persone ci sono stata poche volte, solo quando mi trasferivano a *** alla massima sicurezza dove c’erano cella da tre letti. Quindi ci sono stata qualche volta, però lì c’era (per fortuna) nel cortile dell’area uno spazio per gli stendini. Quindi là ti potevi stendere tutto quello che volevi, senza dare fastidio a nessuno.

Invece, per esempio nella mia esperienza della cella singola che è stata per tutto il tempo della carcerazione cella singola… Ehh! Lì l’abitudine è che ti lavi le mutande quando te le levi la mattina e le stendi in un filo che hai messo dentro la cella con gli appendini quelli di plastica, ci metti un filetto, qualcosa insomma (se te lo fanno tene’) e le tue cose più private le stendi là. Mentre che ne so se lavi i maglioni, le camicie, i pantaloni, li stenti agli stendini fuori. Che poi lì gli stendini stavano dentro al corridoio quindi neanche c’era tutta quest’aria… Non era tanto comodo perché non si asciugava tanto bene la roba. Perché i giorni che era umido poi dopo non era profumata, se marciva mentre se asciugava, capito?

In genere comunque, nella comunità dato che si è fra donne sta cosa che faccia schifo una mutanda… Considera il lavandino è sempre uno solo, a *** nelle celle da tre persone ci stavano tipo acquasantiere dove già lavarci i piatti era molto complicato. Però è la legge del carcere, no? Tu lavi i piatti nello stesso posto dove vai al bagno, quindi la questione è quanto tieni pulito il lavandino. Nel senso, c’hai lavato le mutande, ce passi il VIM e poi ce poi lavà pure il bicchiere tanto a quel punto è disinfettato. Poi le puoi lavare anche dentro al bidet se ce l’hai, può essere un’alternativa…

Intervista a SONIA

Secondo l ‘esperienza di Sonia invece, non c’era molta solidarietà femminile, chiamiamola così. Infatti, chi aveva bisogno di un assorbente in genere si trovava a doverlo barattare con qualcos’altro come ad esempio le sigarette, o addirittura comprarlo da altre compagne. 

Alla domanda “c’era il bidet dov’eri tu?” mi ha risposto ridendo, affermando “che lusso!”.

Per lei le mutande assorbenti in carcere sarebbero super apprezzate.

Conclusioni

Tu cosa ne pensi? Hai mai provato dispositivi igienico-sanitari riutilizzabili come gli slip mestruali o gli assorbenti lavabili? Ti invitiamo a cercare le soluzioni più adatte a te sullo shop di Laboratorio sostenibile, una realtà con la quale ci siamo trovat3 subito in sintonia per l’attenzione, la cura e la partecipazione empatica alle nostre tematiche. 

In occasione della Campagna di raccolta assorbenti del PID Onlus, Laboratorio sostenibile donerà alle persone detenute assorbenti lavabili per tentare di dare supporto a chi nonostante non scelga di avere le mestruazioni, continua a sanguinare anche da dietro le sbarre. 

Vuoi contribuire anche tu? Ti ricordiamo che i materiali donati possono essere consegnati presso i seguenti punti di raccolta nei giorni e negli orari indicati:

  • Casa delle donne Lucha Y Siesta: Via Lucio Sesto, 10 – Mercoledì dalle 11:00 alle 13:00, dalle 16:00 alle 17:00 e Giovedì dalle 12:00 alle 13:30.
  • Associazione Libellula: Viale Giustiniano Imperatore 280/A – Lunedì dalle 15:30 alle 18:30.
  • L’Archivio 14: Via Lariana, 14 – Mercoledì e Venerdì dalle 10:00 alle 13:00 e dalle 17:00 alle 19:00, Giovedì dalle 17:00 alle 19:00.

Se non si ha la possibilità di recarsi in uno dei precedenti punti di raccolta, i materiali possono essere spediti alla Sede legale della Cooperativa PID Onlus, all’indirizzo: Via Eugenio Torelli Viollier, 109 – 00157 Roma

 

Continua a seguire gli aggiornamenti sui nostri canali social per saperne di più sulle questioni relative le mestruazioni in carcere, i tabù del ciclo e la raccolta di assorbenti per le persone detenute.

Ricordi di mestruazioni ristrette: gli assorbenti in carcere

Mestruazioni ristrette: come vivono le donne il ciclo mestruale in carcere? Abbiamo chiesto a Maria di raccontarci la sua esperienza, i suoi ricordi di dentro relativi proprio alle questione della fornitura di assorbenti e delle condizioni in cui si abita l’istituzione totale penitenziaria. 

La testimonianza qui trascritta si inserisce nel più ampio progetto della Cooperativa P.I.D. “Assorbire il cambiamento”. Un progetto che ha lo scopo di portare un beneficio concreto alle persone recluse grazie alla donazione di materiali sanitari, di accendere l’attenzione della società, delle istituzioni e della cittadinanza sulla condizione delle donne recluse, nonché di raggiungere un cambiamento sistemico della questione affrontata.

Per saperne di più clicca qui

MARIA

Entrare in carcere: la dotazione

Quando entri in carcere ti viene assegnata una cella, un letto, se nella cella ci sono più persone e ti viene data una “dotazione”: le lenzuola, una specie di asciugamano, un asciughino per i piatti, bicchieri e posate di plastica e una saponetta. Poi, non è detto che te li diano all’inizio, ma comunque puoi chiedere un pacco di assorbenti al mese. Ovviamente sono indecenti come assorbenti, come qualità e soprattutto sono pochi.

A. «Quindi non ci sono le marche che girano fuori?»

No, sono cose di quelle tipo materassino, magari stretti e lunghi che comunque non si trovano in commercio… Sono quelle sottomarche che non so da dove vengono fuori, sicuramente ci saranno dei fornitori che producono proprio per il carcere, insomma.

A. «Immagino che poi non ti danno i vari “modelli” tipo il salvaslip o l’assorbente per la notte, eccetera…»

Ti danno un pacchetto standard che ti deve durare. Chiaramente il problema sta nel fatto che quasi tutto quello che ti danno loro non ti può bastare. Una saponetta non ti può bastare un mese. Una spugnetta, per dire, la spugnetta dei piatti magari un mese non basta. Quelle spugnettine per pulire si sbriciolano facilmente. Poi se vanno a contatto con la varechina è finita, so’ morte subito, istantaneamente. Quindi lì il problema… In carcere è sempre un problema di status economico, se hai qualcuno che ti può dare i soldi da fuori puoi comprare al sopravvitto che ne so, il bagnoschiuma, lo shampoo, eccetera. 

Poi dipende dalle carceri, ci stanno posti dove ti portano la lista per la spesa una volta a settimana, posti dove te la portano due volte a settimana e tu da lì tu puoi richiedere tutte le cose che stanno là. Se volevi particolari prodotti, un tempo lo richiedevi tramite domandina, ma dipende sempre dagli istituti. Da quello che so io, per esempio, adesso ai maschili fornirsi con le domandine è diventato quasi impossibile. Questo perché il fornitore che prende l’appalto per il sopravvitto e per il vitto magari non ci spreca il tempo a cercare le cose che chiedi. Qualche volta è garantito l’acquisto dei libri, quello sì. Ci mettono tanto tempo però poi te lo portano il libro. Per quanto riguarda l’assorbente in sè per sè è una carenza cronica, cioè all’interno del carcere. Poi ogni donna c’ha le sue, no?

Mestruazioni ristrette: convivenze e strategie

Consideriamo che può sembrare che con la convivenza arrivi anche la sincronizzazione delle mestruazioni

Sappiamo che questo fatto non è scientificamente provato ma nonostante ciò è qualcosa che torna spesso nelle esperienze condivise delle donne. 

«Nessuno dice che la coordinazione dei cicli mestruali non esista, sia chiaro. Stiamo dicendo che fino ad ora non esistono studi riproducibili che abbiano fornito evidenze numeriche a supporto di questa tesi. L’unica cosa che spiega l’effetto, ad oggi, è una distorsione nella percezione del fenomeno.» Fonte: Missionescienza.it

Per quanto riguarda la convivenza tra mestruazioni ristrette, infatti, può succedere che il ciclo mestruale di alcune persone si sincronizzi. Magari non tutte nello stesso periodo, insomma dipende, però questa cosa è stata notata. Il problema è che se stai male durante l’inizio delle mestruazioni devi chiamare l’infermiere per farti dare un antidolorifico perché non lo puoi tenere e anche qui le tempistiche sono lunghe, gli infermieri ci possono impiegare ore perché non si muovono per una sola persona, devi attendere il momento in cui fanno il giro della sezione.

Cioè, intorno alle mestruazioni si gioca un periodo delicatissimo della donna. Io sono una persona un po’ tetragona, sotto il punto di vista di cercare di condizionare i propri bisogni, quindi riuscivo o ad anticiparle o a posticiparle in vista di un possibile trasferimento che mi aspettavo per un processo o per altro. Riuscivo a condizionare il mio corpo ad aspettare che avvenisse quell’evento per non trovarmi durante il viaggio con il problema delle mestruazioni, perché non ti fanno scendere dal furgone durante i trasferimenti. È vietatissimo, a meno che non devi fare viaggi lunghissimi. Mi ricordo a suo tempo, adesso non lo so, avevano istituito anche i trasferimenti con gli aerei, se ad esempio devi fare viaggi molto lunghi, per abbreviare anche il tempo di pagamento della scorta che deve andare e tornare. Devono essere tre persone durante i trasferimenti: c’è il capo scorta, c’è quello che guida, l’autista, e poi c’è quello che sta dietro con il detenuto che lo deve accompagnare. Se porti tre detenuti devi portare tre persone, capito? Quindi diventa complicato. E quindi intorno alle mestruazioni si gioca tutta questa ansia. Oppure l’assenza delle mestruazioni a causa dello stress, lo shock del carcere colpisce moltissime ragazze, le fa perdere. 

Salute mestruale e visite ginecologiche

A. «Per quanto riguarda le visite specialistiche ginecologiche, come funziona?»

Anche le visite ginecologiche passano attraverso il sistema di richiesta tramite il medico del carcere. Tu vai dal medico, gli esponi il tuo problema e se lui ti dice “va bene ti segno” allora fai la visita con uno specialista. Se gli va bene, sennò rimani e aspetti.

A. «Dipende dalla persona che ti trovi davanti?»

Sì, i medici del carcere ce ne stanno di tutti i tipi. Ci stanno quelli che ti danno ascolto e quelli che non ti si filano per niente. Poi oggi, con tutti “i mattarelli” che stanno in carcere, invece di stare in un luogo più adatto per i disagi mentali, i medici hanno ancora più lavoro da fare: è un grande problema.

Comunque a me non è mai capitato che sono andate via le mestruazioni. La mia esperienza personale è che proprio a un certo punto ho cominciato a stare così male che ho chiamato io da fuori una ginecologa che è stata fatta entrare su richiesta mia dal direttore. La ginecologa mi ha detto che dovevo farmi operare immediatamente e togliere l’utero. E così è stato. Mi hanno mandato a Pisa e lì mi hanno operato: è stata un’esperienza abbastanza bruttina.

E a quel punto sono diventata fornitrice di assorbenti perché li prendevo per le altre. Mi spettavano, quindi un mese  a una, un mese all’altra… la mia parte di assorbenti si dava. Quelli del carcere si usavano per la notte principalmente. Se non hai i soldi per comprarli ti devi arrangiare con la carta igienica, ad esempio o gli asciugamanetti. Anche perché di carta igienica te ne danno tre rotoli al mese, ma che ci fai?

 

È una legge de’ natura insomma, te devi protegge’, è una questione di adattamento… in tutti i sensi: nelle relazioni umane, nelle relazioni con la custodia. Ti adatti  comunque sia a un ambiente in cui sai quello che puoi esprimere, quello che non puoi esprimere, come lo devi esprimere… che spazio vitale c’hai, no? Devi crearti il tuo spazio vitale, eh.

L’esperienza detentiva: amicizie e solidarietà

L’esperienza detentiva di Domenico torna oggi a raccontarci di un’amicizia stretta dentro, una tra le molte, che continua ancora adesso nel segno di una solidarietà costruita sulle ingiustizie vissute da chi oltre a non essere libero e legale, non è neanche “italiano”.

DOMENICO

Il carcere. Il carcere non fa bene. Fa male a tutti, a tanti fa incattivire. A me non mi ha fatto mai incattivire. Nonostante i tanti anni passati dentro, non è mai riuscito a mettermi la cattiveria, il veleno, niente.

Non ho mai fatto reati ostativi lesivi, risse, accoltellamenti, no mai. Mai perchè ho sempre cercato di evitarli, sono sempre stato amico con tutti. Ancora oggi ho amici in carcere a cui scrivo che me rispondono. Capisci?

L’incontro con il diverso da sé nell’esperienza detentiva

Di regola, dopo due mesi ti danno la cella “a solo”. Dove stavo io c’era un ragazzo del Senegal che erano 10 mesi che stava nel “cellone” – una cella chiamata così perché è dove si concentra un alto numero di presenza, circa 5 o 6 persone – questo faceva il Ramadan e tutto quanto. Un giorno io gli chiedo “Perché te stai sempre qua?”.

“Io vado dal comandante e il comandante eeh”. E io gli ho detto “‘Namo dal comandante, viè”.

Lì al penale bussi e te apre, se ce sta, il capo posto. Sono andato dal capo posto è gli ho detto “Senti ce sta sto ragazzo qui, so 10 mesi… so 10 mesi che sta nel cellone. So 10 mesi che sta lì… Allora lì fumano e lui non fuma, deve fare il Ramadan eeee è ‘n casino, poro fijo. Ma scusa eh!” E sono dovuto andare a parlarci io. 

Il capo posto mi risponde: “Ma tu sei l’avvocato suo?”. 

“No, non so’ l’avvocato suo ma non pare giusto che qui la gente entra e lo scavalcano, entra e lo scavalcano. Ma perché? Perché è scuro?” – gli ho detto – “Non è calcolato, non è giusto”.

E il comandante ha detto poi al ragazzo: “Ma perché lei è 10 mesi che sta così?” 

Manco lo sapeva! Manco lo sapeva. Poi all’ultimo gli hanno dato la cella a solo. A 3 mesi dal fine pena perché era stato condannato perché dice che era scafista ma lui me l’ha spiegato a me. “Io non ero scafista, io ho portato il motoscafo ma m’hanno pagato il viaggio sennò manco potevo venì” – mi ha detto – “Mica io ho frustato a qualcuno o ho fatto male a qualcuno, siamo arrivati lì e poi me ne so andato tutto qui e m’hanno dato 3 anni”. Quello è, ma è un bravo ragazzo.

Ora sta a Roma io ho il numero di telefono, siamo rimasti in contatto. Quando è uscito è venuto a pranzo da me, siamo stati insieme pure con il fratello. Lavora sempre, dalla mattina alla sera, pure la domenica, pure i giorni festivi.

Dal carcere ai CPR

Io pure sta cosa che gli extracomunitari una volta usciti li portano nei CPR (Centri di Permanenza per il Rimpatrio), ossia li ri-carcerano un’altra volta, non la capisco! Si fanno una doppia esperienza detentiva.

Dopo che hanno pagato quello che dovevano paga con la giustizia, li ri-carcerano n’altra volta poracci. Capito? 

E non è giusta sta cosa, è proprio sbagliata! Hanno già pagato! Io che ne so, devono aspettare mesi, mesi, mesi per che fare poi? Pe pote’ esse imbarcati al paese loro? E non va bene. Purtroppo, queste persone scappano perché hanno fame o per le guerre, le cose…  Vengono qui fanno i danni, nel senso che fanno i danni perché non hanno niente, parlamose chiaro. E che fanno una volta che commettono i reati? Li cacciano, pagano il reato che hanno fatto e li portano ai CPR, li fanno sta ancora lì dentro… è brutta sta cosa eh. Come se io , che ne so,  esco dalla galera e invece di mandarmi a casa me mandano da un’altra parte. Eh, non va bene.

La criminalizzazione del migrante si estende negli ultimi anni e sempre con maggiore ferocia anche all’atto stesso del migrare, come abbiamo potuto già osservare durante la Presentazione del Dossier Statistico Immigrazione 2023. Nella sezione dedicata, andiamo a leggere le particolarità di un fenomeno che vuole nell’immaginario sociale la persona straniera come persona pericolosa, così diversa e lontana per “cultura” o “etnia” che non può conoscere né comprendere “le regole di casa nostra”. Alla banalizzazione assoluta di termini complessi – rappresentanti persone, vite e storie reali – che spesso accompagnano i discorsi del quotidiano, rispondiamo con le analisi, le ricerche sociali e le statistiche raccolte nel Dossier riguardo ai processi di criminalizzazione del migrante, di categorizzazione sociale e di securitarizzazione dello straniero. Ripercorriamo insieme i punti fondamentali affrontati qui.

Vissuti di dentro: racconti di incontri, legami e domandine

Lo scorso febbraio, in seguito a un commento ricevuto sotto un nostro post, un ex detenuto e utente della cooperativa ha deciso di condividere con noi la sua voce che oggi raccontiamo qui. Domenico è uscito definitivamente dal carcere nel 2022, un passato non molto lontano, ma è oggi libero e sereno perché “ha pagato tutto” e “non ha più nulla da nascondere”. La nostra chiacchierata inizia più o meno così: 

A. «Posso registrare?»

D. «Sì va bene tanto io non ho niente da nascondere, non ho più niente da nascondere. ‘Na volta sì adesso no».

LE PAROLE DI DOMENICO

Io ho conosciuto il PID nel 2005 dopo l’ennesima domandina che ho fatto, perché ne ho fatte svariate per poter parlare con un’operatrice del PID, eh!

Nel 2008 sono uscito e mi sono affidato al PID perchè io tutte le volte che sono uscito prima me ritrovavo sempre in mezzo alla strada e dovevo sempre fa’ reati, come me tanti altri detenuti che non hanno nessuno, nessun riferimento, nessuna opportunità diciamo. 

E il PID mi ha aiutato. Mi ha inserito nelle borse lavoro e mi sono trovato bene, non ho fatto più reati. E non mi hanno mai abbandonato, neanche in queste altre occasioni perché lo sapevano che io ormai ero uscito da tutto il contesto di delinquenza. 

Poi ho avuto altre carcerazioni, nel 2015 e nel 2019 ma erano tutte cose vecchie, prima del 2005 che sono andate definitive perché come si sa i processi vanno per le lunghe. 

 

A.«La famosa giustizia lenta?»

D. «Ma non direi lenta, lentissima».

Mi sono affidato a loro e sono riuscito adesso nel 2022. Grazie al PID però, perché mi ha dato una grande mano facendomi conoscere un’avvocatessa seria e mi ha salvato perché sennò il mio fine pena era il 2034.

Un lungo percorso “dentro” 

Ho cominciato con Porta Portese da minorenne e l’ho chiusa diciamo nel ‘67/’68. L’ex carcere minorile sarebbe. Poi sono andato a Regina Coeli, Rebibbia, San Vittore. Perché andavo pure fuori a lavorà, tra parentesi. San Vittore, Livorno, Firenze (sempre da minorenne) in Via della Scala; Chieti, dopo la rivolta del ‘74 a Rebibbia. Perché stavo là io quando c’è stato tutto il casino e abbiamo distrutto tutto quanto.

A. «Hai partecipato alle rivolte?»

D. «Si, ho fatto un casino lì. Ancora ero un ragazzo che la testa non c’era».

Entravo, uscivo, entravo, uscivo. Mi ritenevo l’omo più bevuto d’Italia

Che poi quando uscivo mi ritrovavo un’altra volta per strada… Dovevo campare, dovevo mangiare. Non avevo famiglia, non avevo niente.

Le domandine in carcere

In carcere devi fare domandina per tutto, per tutto ci vuole la domandina: per poter parlare con l’assistente sociale, per poter parlare con la psicologa, per poter parlare con il direttore, con il “capo posto” (il capo del reparto). 

Per fare entrare dentro un paio di scarpe nuove ad esempio, perché le vecchie sono rotte, devi darle prima indietro (le vecchie) altrimenti non entrano (le nuove). 

 

E certe domandine si perdono, diciamo si perdono… Tante le cestinano e invece tante si perdono. La domandina è tutto, senza domandina in carcere non ci fai niente.

Molte però, forse la maggior parte vengono perse. Io per poter parlare col PID ho fatto innumerevoli domandine. Finalmente poi mi hanno chiamato “Domenico? Devi anna’ a parla’ col PID”. “Oddio che sta a succede!”

Gli affetti da dentro e le feste in carcere

Allora uno che fa quando non trova un aiuto e si ritrova per strada?

Questo è quello che dicevo io… 

 

E lì ho passato svariati Natali, Natali brutti. Natali dove ho visto tanta gente, “criminali per davvero”, che in quei giorni la soffrivano veramente la galera. La soffrivano proprio perchè la gente diceva “sì, so criminali e tutto quanto” ma dentro c’hanno sempre ‘ncore. Hanno i figli, le famiglie, le madri, i padri che hanno lasciato fuori.E per quanto delinquenti senti che ti mancano quando arrivano questi giorni particolari. 

Sono gli affetti che mancano, mancano.

Io ce ne avevo pochi di affetti in quei periodi. Dopo ce ne ho avuti tanti, nel 2005 i miei due figli. Nel 2019 mio figlio era in clinica, ricoverato che ora sta male e lo seguo io, viviamo insieme perché da solo non può stare. Stiamo io e lui, lo aiuto con le terapie e quello che deve fare. Stiamo tranquilli.

A. «Quindi hai trovato la tua serenità in qualche modo?»

D. «Sisi, adesso sì. E cerco di dargliela pure a lui».

Torneremo a Domenico e alla storia, ai suoi preziosi racconti e alle sue parole desiderose di una giustizia che non dimentichi nessuno.

Assorbenti per le persone detenute – sensibilizzazione e raccolta

Assorbire il cambiamento – Vivere il ciclo in carcere  

  • CAMPAGNA DI SENSIBILIZZAZIONE E INFORMAZIONE SULLE QUESTIONI RELATIVE LE MESTRUAZIONI IN CONDIZIONI RISTRETTE
  • RACCOLTA E DONAZIONE DI SLIP MESTRUALI E ASSORBENTI PER LE PERSONE DETENUTE

Nella Giornata Internazionale della Donna vogliamo condividere e rendere ufficialmente pubblico il progetto che stiamo tessendo da mesi: “Assorbire il cambiamento”. Sono importanti le ricorrenze, sì ma non ci bastano.

Nel 2024 continua a versarsi un mare di discriminazioni, abusi e violenze sui corpi e le vite delle donne. Le lotte per i diritti, per i mutamenti necessari delle pratiche e politiche egualitarie delle identità di genere tutte si scontrano con una realtà nutrita da una cultura patriarcale, maschilista e paternalistica che ha costruito nei secoli profondi solchi nell’identificare gli individui secondo un netto binarismo e caratterizzarli seguendo principi che inneggiando alla “verità naturale e biologica”  hanno finito per determinare gli squilibri di potere che ancora oggi segnano i rapporti tra gli esseri delle comunità umane internazionali. 

L’otto marzo è tutti i giorni, come il venticinque novembre, come ancora tutte le giornate nazionali e internazionali istituite per ricordare e promuovere i diritti umani. 

 

Cogliamo oggi l’opportunità per tornare a parlare di carcere al femminile. Ci siamo chiest3: come vivono il ciclo le persone recluse negli istituti penitenziari italiani?  Gli assorbenti per le persone detenute sono abbastanza? Come vengono consegnati? 

Il P.I.D. Pronto Intervento Disagio Onlus, in occasione della Giornata dell’Igiene mestruale del 28 maggio, organizza una Campagna di raccolta assorbenti per il carcere femminile  e per le persone in esecuzione penale esterna ospiti all’interno di strutture di accoglienza.

La campagna, iniziata due anni fa, con la collaborazione di altre realtà del terzo settore romano, quest’anno prende il via sotto nuove vesti grazie al progetto “Assorbire il cambiamento”, a sua volta parte del più ampio progetto “POSTER. Pratiche oltre gli stereotipi”. 

Tra le attività promosse, oltre alla donazione di assorbenti per le persone detenute, sono previsti laboratori e incontri all’interno di Istituti femminili per promuovere maggiore consapevolezza sulle tematiche riguardanti il ciclo mestruale e la conoscenza dei “nuovi” prodotti igienico sanitari più ecologici quali coppetta, slip e mutande assorbenti. 

Il progetto ha lo scopo di portare un beneficio concreto alle persone recluse grazie alla donazione di materiali sanitari, di accendere l’attenzione della società, delle istituzioni e della cittadinanza sulla condizione delle donne recluse, nonché di raggiungere un cambiamento sistemico della questione affrontata.

Le donne sono una piccola minoranza della popolazione detenuta, poco più del 4% (2.392 secondo i dati rilevati fino al 31 dicembre 2023) e si confrontano con tutte le problematiche legate al sistema penitenziario, alle quali si aggiungono specifiche questioni, accentuate dal fatto che la detenzione è pensata per un mondo al maschile che non prevede le diverse identità di genere

In carcere gli assorbenti, così come altri prodotti consentiti, possono essere acquistati attraverso il cosiddetto “sopravvitto”, una sorta di negozio interno all’Istituto Penitenziario al quale possono accedere solo coloro che hanno soldi sul conto corrente interno. Chi non ha possibilità economica e di conseguenza non può acquistare, deve adeguarsi alla fornitura dell’Amministrazione Penitenziaria che, se non trascura questo aspetto, non riesce a garantire la scelta di un modello, di una marca o le quantità necessarie di assorbenti in base alle singole esigenze.

 

La raccolta di assorbenti per le persone detenute comincia venerdì 8 marzo 2024 e si conclude giovedì 23 maggio 2024:

  • si possono donare assorbenti classici di qualsiasi marca e modello e gli slip assorbenti, mentre i tamponi in carcere non possono entrare. 

I materiali donati possono essere consegnati presso i seguenti punti di raccolta nei giorni e negli orari indicati:

  • Casa delle donne Lucha Y Siesta: Via Lucio Sesto, 10 – Mercoledì dalle 11:00 alle 13:00, dalle 16:00 alle 17:00 e Giovedì dalle 12:00 alle 13:30.
  • Associazione Libellula: Viale Giustiniano Imperatore 280/A – Lunedì dalle 15:30 alle 18:30.
  • L’Archivio 14: Via Lariana, 14 – Mercoledì e Venerdì dalle 10:00 alle 13:00 e dalle 17:00 alle 19:00, Giovedì dalle 17:00 alle 19:00.

Se non si ha la possibilità di recarsi in uno dei precedenti punti di raccolta, i materiali possono essere spediti alla Sede legale della Cooperativa PID Onlus, all’indirizzo: Via Eugenio Torelli Viollier, 109 – 00157 Roma

 

Continua a seguire gli aggiornamenti sui nostri canali social per saperne di più sulle questioni relative le mestruazioni in carcere, i tabù del ciclo e la raccolta di assorbenti per le persone detenute.

Istituti penali per minorenni – gli effetti del Decreto Caivano secondo il Rapporto di Antigone

“Prospettive minori” è il VII Rapporto di Antigone sulla giustizia minorile e gli Istituti penali per minorenni, lucida fotografia delle conseguenze – forse prevedibili – dell’inasprimento delle pene del discusso Decreto Caivano.  

 

Sette mesi fa abbiamo affrontato l’argomento delle carceri minorili con Matteo che ha scritto riguardo a possibili “Spunti per il futuro”:

La questione della detenzione minorile solleva interrogativi fondamentali riguardo alla giustizia, alla riabilitazione e al benessere dei giovani coinvolti. Mentre il sistema tradizionale di carcere minorile è soggetto a numerose critiche, le alternative focalizzate sulla riabilitazione e sulla prevenzione della recidiva offrono una prospettiva utile per il futuro. Sviluppare politiche e programmi che favoriscano una riforma autentica del sistema diventa cruciale per garantire che i giovani coinvolti nel sistema penale possano intraprendere un percorso significativo di riscatto e reintegrazione positiva nella società.

 

Sappiamo oggi che una riforma della detenzione minorile è stata dettata, ma si muove in direzione opposta a quella auspicata. Lo spiega bene il rapporto di Antigone, lo affermano con preoccupazione i membri della nota associazione, sono i numeri a parlare e a dirci che qualcosa non va. Punire per educare sembra essere la direttiva deleteria che ha portato all’introduzione delle nuove misure del Decreto Caivano.

Dopo oltre un decennio,  in Italia tornano a crescere i numeri delle persone detenute recluse negli Istituti penali per minorenni (IPM). Nei soli primi due mesi del 2024 sono 500 i ragazzi e le ragazze ristretti. Nell’ottica di una dialettica causa-effetto osserviamo quali sono i mutamenti introdotti a settembre 2023 che hanno comportato e con tutte le probabilità continueranno a comportare la crescita delle presenze negli Istituti Penali per Minorenni:

 

  • «La possibilità di disporre la custodia cautelare in particolare per i fatti di lieve entità legati alle sostanze stupefacenti». Secondo il rapporto di Antigone infatti, se nel 2023 le ragazze e i ragazzi in misura cautelare erano 243, a gennaio 2024 il numero sale a 340.   
  • «L’aumentata possibilità introdotta dal Decreto Caivano di trasferire i ragazzi maggiorenni dagli IPM alle carceri per adulti». Il rapporto ci informa che quasi il 60% delle persone detenute nelle carceri minorili sono minorenni, principalmente tra i 16 e i 17 anni. 

 

Prospettive minori non è Mare Fuori, è la realtà di 500 ragazzi e ragazze in Italia. Fa riflettere, in un periodo dominato dall’interesse per una serie ambientata proprio in quegli ambienti e da una narrazione che vuole far emergere la complessità delle problematiche giovanili e l’importanza degli approcci educativi, si predilige la linea di sorveglianza e punizione. Se dovessimo ragionare in ottica foucaultiana, potremmo pensare ai metodi punitivi piuttosto che «come semplici conseguenze di regole di diritto o come indicazioni di strutture sociali» come qualcosa di inserito all’interno dei processi del potere. Quindi potremmo «Assumere, sui castighi, la prospettiva della tattica politica». (“Sorvegliare e punire. Nascita della prigione.” Michel Foucault.)

Sono molti gli strumenti e i contenuti messi a disposizione da Antigone per affrontare le tematiche legate alla giustizia minorile. Al rapporto infatti, è allegato “Traverse”, un podcast di Rebecca Zagarella (qui il link al rapporto di Antigone sugli IPM).

In questi mesi abbiamo a lungo sentito parlare dei giovani, spesso in relazione con parole come “devianza” o “disagio”. Abbiamo la certezza che questo sia il sistema migliore per aiutare una gioventù – in cui sì, mi ci metto anche io – segnata da anni di crisi e da quotidianità precarie? Da futuri incerti e scuole piene di ansiolitici? Circondati da “strade pericolose” tra cui scegliere, al primo passo falso gettati dietro le sbarre. Magari appena compiuti i 18 anni, dopo aver iniziato un percorso nell’IPM, spostati senza riguardi in una delle carceri per adulti. Una volta usciti, cosa resta? 

 

Concludiamo con alcune delle riflessioni di Antigone:

«Il settimo Rapporto di Antigone sulla giustizia minorile e gli Istituti penali per minori evidenzia i rischi di mettere da parte una bella storia italiana di de-istituzionalizzazione dei ragazzi e delle ragazze. Una storia che ha costituito un vanto dentro l’Unione Europea. “Punire per educare” è una politica perdente. È illusorio, nonché socialmente dannoso, inseguire gli obiettivi ricompresi in questo slogan oggi tanto di moda nelle carceri e finanche nelle scuole. Uno slogan che è diventato politica attiva. La giustizia penale minorile non meritava le involuzioni normative presenti nel cosiddetto Decreto Legge Caivano che ci riporta qualche decennio indietro nella storia giuridica del nostro Paese. A partire dal 1988, con l’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale, l’Italia aveva scelto un’altra via, quella dell’interesse superiore del minore.»

La domandina, il dottor House , il “signor Martini”

La domandina, i diminutivi carcerari e il potere simbolico del linguaggio. Immaginiamoci di esserci appena svegliat3 nella nostra cella per la prima volta: Cosa devo fare? La domandina.
L RACCONTA

Dopo la prima notte, una notte di incubi in cui hai dovuto fare i conti con i fantasmi del tuo inconscio, ti alzi e ti guardi intorno smarrito, poi ti informi col tuo compagno di cella per questa o quella necessità quotidiana. Ti dirà che devi fare una “domandina”, si avete capito bene, domandina, indicando la “stanza di appartenenza” – attenzione – “stanza” e non “cella”. Ovvero quello spazio dove sei ristretto in 6 con accanto pochi altri metri quadri dove si cucina e si defeca anche. 

 

Poi ti chiameranno per una sorta di visita medica . Troverai un dottore accompagnato da un’infermiera ruvida nei modi, con lo stile tipico di un R.S.A., di quelle che si leggono nella cronaca dei giornali. Lui, il dottore, non è esattamente il geniale dottor House della famosa serie televisiva. Poche domande di rito su malattie pregresse e disturbi vari.

Il dottore ti vede ma non ti guarda, ti sente ma non ti ascolta, scrive chino sulla cartella medica , poi si alza, ti chiede di togliere la maglietta, una palpata sullo sterno, pochi secondi e tutto finisce lì. “Stavo mejo prima” direbbero a Roma … 

 

Rientri in cella, “la stanza” per intenderci, e chiedi agli altri come fare per occupare il tempo magari lavorando come “scopino”, fare le pulizie insomma. Ti dicono di fare l’ennesima domandina. Per dirla in breve vivi e subisci tutta una serie di trappole e trappolette cognitive disseminate lungo il tuo percorso detentivo a cominciare dall’uso ridondante di diminutivi linguistici, tanto per citarne un altro lo “spesino”.

 

Mentre cammini in corridoio noti un detenuto vicino di cella che cammina instancabilmente su e giù. Sembra che parli da solo. Qualcuno benevolmente ti fa notare che è il “mattaccino” della sezione. Non si ferma mai, chiede a tutti qualche sigaretta e un po’ di caffè, lo fa continuamente, tutto il giorno. Ha bisogno di aiuto, di un sostegno, ma dovrà fare una domandina pure lui. Gliela facciamo noi, perché non sa scrivere. Sembra quasi il signor Martini di “Qualcuno volò sul nido del cuculo”.

 

Tutto davvero surreale , non c’è un ca**o da ridere, cosa ci faccia qui dentro uno così con il suo disagio mentale non è dato sapere. Si cerca di aiutarlo per quanto possibile anche se è stordito dagli psicofarmaci

 

È il carcere, bellezza. “Situazioni che stancamente si ripetono senza tempo”, direbbe Edoardo Bennato.

 

M49, l’Orso

Nel bene e nel male – Terzo giorno

Terzo giorno di galera, il ricercatore “Orso” racconta: Ore 8 e trenta del mattino, apertura del blindo.

LE PAROLE DI L

L’insopportabile rumore metallico delle chiavi che lo aprono segnano il terzo giorno. Quel tintinnio delle chiavi sai che te lo porterai dietro per tutta la carcerazione. Dopo una notte in cui, preda delle tue angosce, pensi che “il futuro è passato e non te ne sei accorto”, proprio come in un film di Ettore Scola, ti alzi e scendi dalla branda e dai il buongiorno a tutti.

Poi sommessamente, tra te e te, pensi “buon giorno un ca**o”. Prendi un caffè che il tuo vicino di branda ti offre dopo averlo preparato con il classico fornello da campeggio.

Poi vai in doccia, è la terza volta, ma non sei ancora abituato e ti lavi senza le mutande proprio come facevi 72 ore prima dell’arresto.

“Ma che fai? Qui sei in galera” – ti dicono gli altri. “Ah scusa, me ne ero dimenticato” – rispondi, non ancora aduso a certi riti ai quali dovrai abituarti in fretta.

 

Ti vesti e vai al passeggio o all’aria, chiamatela come volete. 

 

“Ciao sei nuovo? T’hanno bevuto I’altro giorno?”

Lì per lì non capisci subito, pochi istanti dopo ricolleghi la parola “bevuto” a quella dell’arresto, ti abituerai presto a questo lessico colorato. “Il detenuto – tanto per usare una citazione erudita –  è un essere che si abitua a tutto” scriveva Dostoevskij. 

 

La conversazione al passeggio è tutto un susseguirsi di auspici su improbabili provvedimenti di indulto, amnistie, misure di clemenza e quant’altro. C’ è poi, irresistibile, proprio come in una fiction televisiva , l’irrefrenabile pulsione da parte di qualcuno che dando il peggio di sé si erge a tribunale dei detenuti, puntando il dito su questo o quel detenuto indicandolo a torto o a ragione poco raccomandabile in quanto “presunto informatore” o, a suo dire, “infame”.

 

Capita sovente quel colui che al primo approccio ti sembra affidabile, generoso ed altruista, ti suggerisce il nome del suo avvocato, a suo dire bravissimo ed espertissimo perché “se lo nomini ti farà uscire da questo posto in pochissimo tempo”. Ma attenzione, quasi sempre non è un atto di generosità ma il miserevole e maldestro tentativo di scaricare i costi delle parcelle del suo avvocato su di te

 

Sei soltanto al terzo giorno ed occorreranno settimane forse mesi per prendere consapevolezza piena del mondo carcerario nel bene e, bisogna dirlo, anche nel male . Per dirla tutta, non crediate che ci sia più umanità in carcere che fuori. Così non va, edulcorare questa realtà è ipocrita ed i primi a dirlo dobbiamo essere proprio noi detenuti.

Il carcere è semplicemente “lo specchio deformato” del mondo libero. 

Queste cose vanno dette.

Nel bene e nel male.

M49 

Carcere e omofobia

Carcere e omofobia, maternità surrogata e tutte le ipocrisie (o solo alcune) del mondo contemporaneo. Le tematiche che attraversano ogni giorno le strade e le case del globo incontrano e travolgono la società nascosta, la parte che si dimentica, a cui non si pensa.
L, come un lucido osservatore delle realtà socio-culturali che attraversano la quotidianità, ci racconta un carcere non molto lontano dalle nostre città. Non molto distante dalle idee e dalle narrazioni in cui si impigliano quei tanti modi di essere umani tra umani. E così, anche oggi, L ci dice la sua mettendo nero su bianco le sue riflessioni e consegnandole allo spazio di condivisione del blog.

“E si farà l’amore ognuno come gli va”

Lucio Dalla

LE PAROLE DI L

Non ho altre parole e non voglio trovarne. So che attirerò gli strali di alcuni detenuti (non la maggioranza per fortuna) ma è giusto dover dire che una certa “fascinazione” per l’ uomo forte gerarchicamente posizionato è molto presente in carcere e quindi soltanto sollevare certe questioni, tra queste quella dell’omofobia, è come cercare di abbattere “muri mentali” assolutamente difficili da rimuovere. Parliamo di pregiudizi e stereotipi costruiti nel tempo, a cominciare dai disgustosi commenti sul “cromatismo della pelle”, ma di questo parleremo un’altra volta. Si fatica a capire fuori di qui e “qui dentro” che a dover prevalere è la libera scelta delle persone. È questo il vero discrimine etico. Invece con giudizi talora spregevoli finiamo per rinchiudere in cella non soltanto i nostri corpi, ma la nostra mente e le nostre parole. 

“Le parole sono importanti” direbbe Nanni Moretti, invece sono anch’esse prigioniere entro categorie. Non capiamo che ci sono coppie omogenitoriali che vivono con bambini felicissimi e ignoriamo l’esistenza molto diffusa delle cosiddette “famiglie atipiche” in cui le relazioni contano più dei ruoli tradizionali. A prevalere in questi casi è la genitorialità. Si può essere madri o padri anche con figli concepiti da altri perché i figli sono anche di chi li cresce e non sempre di chi li concepisce. Basta con certi precetti morali! Per screditare le famiglie omogenitoriali si usa anche in modo strumentale la questione della maternità surrogata,  enfatizzata e volgarizzata come “utero in affitto” omettendo di dire che nel novanta per cento dei casi questa pratica riguarda famiglie eterosessuali

 

Il mantra “Dio Patria e Famiglia” è in crisi. Le nuove generazioni lo sanno. A non capirlo sono i moralisti d’accatto che si ergono a difensori della famiglia tradizionale patriarcale e finiscono poi nella loro vita privata a vivere di tradimenti, di bugie e di ipocrisie quando va bene e, quando va male, si voltano dall’altra parte se tradimenti e bugie finiscono in tragedie in cui a pagare con la vita sono le donne.

Orso M49 
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