Cooperativa sociale che offre servizi di ascolto, orientamento, formazione, accoglienza rivolti a detenuti/e, ex detenuti/e e persone che vivono in condizione di disagio sociale.

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Lavoro in carcere e gender gap

«Ma una volta ridotto il carcerato a soggetto astratto; una volta “annullata” la sua diversità (fino allo smarrimento che accompagna la solitudine del soggetto irrelato dal sociale); una volta messolo di fronte a quei bisogni materiali che non può più soddisfare autonomamente; resolo così completamente dipendente dalla/alla sovranità amministrativa; a questo prodotto, infine, della macchina disciplinare viene imposta l’unica alternativa possibile alla propria distruzione, alla propria follia: la forma morale della soggezione, la forma morale, cioè, dello status di proletario.» “Carcere e Fabbrica” (2018, D. Melossi, M. Pavarini)

Lavoro in carcere

Quali sono i lavori disponibili per le persone detenute all’interno delle carceri italiane?  La lista che più volte mi è stata presentata nei vari racconti ascoltati in questi anni, è una lista relativamente breve, abbastanza prevedibile e segnata da quella particolarità infantilizzante del nostro sistema penitenziario che tende a rendere le parole più docili, più piccole, attraverso il suffisso quasi onnipresente “ino/a” (si pensi alla “domandina”); un suffisso che accompagna le parole quasi a rimarcare, una volta ancora, la differenza tra il dentro e il fuori. Spesinә, scopinә, portapacchi, scrivanә…   

«Sì ma i lavori a turni, lo sai quali sono? Gli scopini, quelli so’ i lavori a turno. Il lavorante a piano, che poi te fanno fa un’ora diciamo al giorno, un’ora e mezza la sera, devi fa il piano e basta. Io c’ho il CUD del 2021 che stavo là e a fine anno ho guadagnato 190 euro. Ao, in un anno de lavoro ho guadagnato 190 euro. E l’INPS m’ha chiesto il CUD eh! Quando ho fatto richiesta della pensione m’ha chiesto il CUD del 2021. Io gli ho detto “Ao io stavo carcerato nel 2021”, gli ho mandato pure il certificato de carcerazione. Che devo fa? È così. » Domenico

Il lavoro in carcere è quindi principalmente volto alla gestione interna della quotidianità ristretta: dagli spazi ai pasti. È poco perché è solo quello, quindi insufficiente per tutte le persone che abitano le celle, così si fa a turno. Diventano sempre meno ore, quindi meno soldi.

*Foto Antigone Rapporto annuale 2024, “Nodo alla gola” (qui il link)

Gender gap

Cosa ci dice Antigone del lavoro in carcere per la popolazione detenuta femminile? È curioso lo stupore che può sorgere nel leggere che sono le donne in carcere a lavorare di più degli uomini. Tra le ragioni non è possibile ignorare la questione numerica, certo è che rappresentando una percentuale minore della popolazione detenuta totale, quella femminile sembra avere maggiore accesso al lavoro intramurario. Questo però non significa che possiamo per una volta non parlare di gender gap, anzi mi viene da dire che neanche in questa situazione ristretta riusciamo a trovare un modo per garantire un accesso equo e paritario al mondo del lavoro. Che poi, ricordiamolo, lavorare in carcere significa magari pulire un piano della sezione, per quanto? Due/tre ore?

Oltre ai numeri però, l’osservatorio di Antigone ci rende not3 di un fatto che poco ci stupisce invece: le offerte di lavoro e formazione riservate alle detenute sono orientate dallo sguardo stereotipato di una cultura patriarcale.

«È importante orientare la tipologia di offerta formativa proposta verso percorsi non stereotipati al femminile. Nel primo semestre del 2022, ultimo dato disponibile, sono stati 2.248 gli iscritti ai 197 corsi di formazione professionale attivati, di cui 242 (pari al 10,8%) donne. Se guardiamo invece ai corsi conclusi, sempre in quel semestre sono stati 163, cui erano iscritti 1.763 detenuti, di cui 90 (il 5,1%) donne. Per quanto riguarda i percorsi di istruzione, gli ultimi dati disponibili (al 31 dicembre 2021) ci dicono che il titolo di studio era stato rilevato per i due terzi delle donne presenti in carcere, ovvero 1.515 su 2.237.»

*Foto Antigone Primo rapporto sulle donne detenute in Italia (qui il link)

Tempo fa avevamo affrontato il discorso sulla formazione in carcere e sulle differenze di genere che caratterizzano i programmi:

Le persone detenute negli istituti femminili spesso sono sottoposte a stereotipi e aspettative tradizionali legate al “comportamento femminile”. Infatti vengono introdotte ad attività come il ricamo e l’uncinetto, in contrasto con la maggior offerta di attività prevista per la componente maschile. Un’ulteriore tendenza di differenziazione riguarda l’accesso a opportunità lavorative e formative: esiste infatti un’alta disparità nell’accesso agli studi universitari tra popolazione carceraria maschile e femminile.

 Se ti interessa, puoi recuperarlo qui

 

Questo focus fa parte della Campagna PID “Assorbire il cambiamento 2.0” – Un’iniziativa che prevede la donazione degli assorbenti in carcere, la realizzazione di laboratori e incontri all’interno di istituti penitenziari femminili e strutture di accoglienza per promuovere maggiore consapevolezza sul ciclo mestruale e sui “nuovi” prodotti igienico sanitari ecologici quali coppetta, slip mestruali e assorbenti lavabili. Leggi di più qui

La sindrome di Rocky

Donne senza utero

Perché parliamo della sindrome di Rocky? Da quando abbiamo iniziato la campagna Assorbire il cambiamento abbiamo utilizzato l’espressione “persone con utero” per parlare di chi vive il ciclo mestruale, fuori e dentro il carcere. Da un lato ci sono corpi con utero che non sono donne, dall’altro ci sono donne che non hanno un utero, né il ciclo. Tra queste ultime, appunto, le persone che soffrono di una sindrome rarissima:  la Sindrome di Rokitansky, detta anche Sindrome di MRKH o ancora Sindrome di Rocky

E se questo nome ci fa immaginare uno dei pugili più famosi del cinema, forse non è un caso. 

Cos’è la Sindrome di Rokitansky?

La Sindrome di Mayer-Rokitansky-Küster-Hauser (MRKH) è una malattia rara che colpisce circa 1 donna su 4.500 alla nascita. Si manifesta con l’assenza (o lo sviluppo incompleto) dell’utero e della parte superiore della vagina. Mentre le ovaie e le caratteristiche sessuali sono presenti e sviluppate “normalmente”. 

La sindrome di Rocky in genere si scopre durante il periodo dell’adolescenza, uno dei campanelli d’allarme è proprio l’assenza delle mestruazioni. Quando quindi la persona non ha il suo primo menarca entro un tot dalla comparsa delle caratteristiche sessuali femminili come ad esempio la crescita del seno, allora si parla di amenorrea primaria

La diagnosi avviene solitamente tramite ecografia o risonanza magnetica.

Che significa avere la sindrome di Rocky?

Ho scoperto questa sindrome parlando con una mia carissima amica proprio sulla questione “persone con utero”. Entrambe ci siamo messe a immaginare cosa possa significare, perché oltre il fatto che – com’è facilmente intuibile – le ragazze con la sindrome di Rocky non possono portare avanti una gravidanza, anche dal punto di vista dei rapporti sessuali non deve essere una passeggiata. 

Se pensiamo solo al fatto strettamente anatomico, come si è detto prima le ragazze Rocky possono nascere con una vagina più corta o meno sviluppata. Ergo, i rapporti sessuali possono essere dolorosi se non si affronta l’argomento con unɘ specialista. 

Sono diverse le soluzioni per creare o allungare la vagina in modo da permettere rapporti sessuali senza dolore. Direi anche che ne sono contenta!  

  • Dilatatori vaginali: la tecnica più raccomandata;
  • Intervento chirurgico: neovagina.

Oltre alla pura fisicità, come in ogni ambito, possono viversi criticità anche dal punto di vista emotivo. Ed è bello che si creano reti di condivisione delle Rocky’s.

Idem, per quanto riguarda la grande questione della maternità. Soprattutto di questi tempi in Italia in cui uno dei metodi preferiti per dare alla luce una vita anche senza possedere un utero è stato dichiarato reato universale. Se c’è bisogno di dirlo, lo dico: sì, parlo della gestazione surrogata

Ci sono poi altre soluzioni, come il trapianto di utero, anche se è ancora sperimentale e viene fatta solo in alcuni paesi. 

Fonti: Sindromedirokitansky.it, ANIMRKHs Onlu

La comunità di Guerriere Rocky

Negli ultimi anni, grazie anche ai social network, è nata una vera e propria comunità di persone con la sindrome di Rocky. Questi fenomeni contemporanei sono forse uno degli aspetti più positivi dell’utilizzo dei social, forse proprio la loro ragion d’essere iniziale. Nelle community delle Rocky girls si condividono storie e lotte, si promuove consapevolezza e sensibilizzazione.  

La pagina Facebook Guerriere Roki è un esempio di come il supporto reciproco possa fare la differenza. E c’è anche un interessantissimo  documentario su YouTube (link) che racconta storie di donne che hanno trasformato una diagnosi difficile in una battaglia per l’accettazione e il cambiamento

 

Questo focus fa parte della Campagna PID “Assorbire il cambiamento 2.0” – Un’iniziativa che prevede la donazione degli assorbenti in carcere, la realizzazione di laboratori e incontri all’interno di istituti penitenziari femminili e strutture di accoglienza per promuovere maggiore consapevolezza sul ciclo mestruale e sui “nuovi” prodotti igienico sanitari ecologici quali coppetta, slip mestruali e assorbenti lavabili. Leggi di più qui

La libertà d’amore

A San Valentino si celebra l’amore, l’amore struggente, durevole, eterno. L’amore passionale che ti incasina la mente, l’amore dei film e dei bigliettini a forma di cuori. Quell’amore lì che vediamo negoziarsi tra gelosie e inganni, che i poeti raccontano come una morsa che stringe le viscere. Quell’amore lì, certo ci parla alla pancia, ma abbiamo imparato tragicamente il suo non essere amore. 

 

“Tossico” è l’aggettivo di cui abusiamo, soprattutto in questi tempi di decostruzione delle certezze soffocanti, per descrivere un amore che ci intrappola e ci nega la libertà. Lo leggiamo sui post social, banalizzato in guide circoscritte che dicono di spiegartelo in 5 punti. “Come riconoscere una relazione tossica” e robe del genere. Si promuove consapevolezza, o si finisce per allontanarsi dalla profondità delle emozioni, senza saper riconoscerle, o comprenderle? La verità è che ci interroghiamo molto negli ultimi tempi su come narrare la libertà d’amare, non solo a San Valentino, e non solo l’amore romantico. Quando si pubblicano contenuti seri e un po’ difficili da affrontare sui social d’intrattenimento, ci si fanno mille domande. Verrà recepito il messaggio? Questo è il modo migliore per scriverlo? L’immagine è rappresentativa o solo accattivante? 

 

L’amore romantico

Il modello di amore romantico è molto noto, è un po’ quello che abbiamo introdotto sopra, naturalizzato dalla nostra cultura occidentale come quel sentimento fatale che unisce due persone in un vincolo esclusivo, durevole e duraturo che in genere viene sancito istituzionalmente con il contratto matrimoniale. L’amore romantico è appunto un modello, non è certo universale, come invece si è soliti pensare. La naturalizzazione del sentimento di amore romantico sembra esserci stato instillato dalle generazioni precedenti, pensiamo a Paolo e Francesca.

Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende,

prese costui della bella persona

che mi fu tolta; e’ l modo ancor m’offende.

Amor, ch’a nullo amato amar perdona,

mi prese del costui piacer sí forte,

che, come vedi, ancor non m’abbandona.

Amor condusse noi ad una morte:

Caina attende chi a vita ci spense».

Queste parole da lor ci fuor porte.

Difficile non emozionarsi al cospetto di Dante! Ci viene insegnato fin da bambin3 questo tipo di amore, pur vagamente. Eppure non per tutt3 universale e naturale, ma piuttosto un modello prodotto dalla storia occidentale, all’interno delle classi dominanti prima e diffuso con i media e la cultura di massa poi. Proprio attraverso quest’ultima l’amore romantico trionfa come modello, si radica, pervade le convizioni per cui frasi come “sei tutto per me” diventano il grimaldello per accedere all’unico amore possibile: quello romantico. 

 

Con l’industrializzazione e la società di mercato si innesca un processo di individualizzazione che di questo modello d’amore ne tenta di far emergere la libertà decisionale.

 

Il sociologo Anthony Giddens si muove contro la concezione foucaultiana della presa in carico istituzionale delle pratiche, dei discorsi e dei sentimenti privati riguardo all’amore. E spiega la nascita più recente di un’idea nuova che consiste nella “nozione di amore come relazione pura”, diffusa negli ultimi decenni del Novecento all’interno della cultura occidentale. (Fabio Dei, 2016) Una relazione pura è quella svincolata dalle regole opprimenti dei tempi della repressione sessuale, del modello contrattualistico matrimoniale, della costruzione di un rapporto cioè che rispetti ruoli costitutivi e che abbia una continuità obbligata. Una relazione che si costruisce sulla base dei benefici reciproci e che finisce nel momento in cui questi vengono a mancare. 

La relazione pura è ancora nell’amore romantico, ma forse va un po’ oltre, ed è quella che supera la narrazione dell’incontro fatale d’un amore eterno, ma ne produce un’altra che attraverso film, musica, serie tv – e oggi reel, caroselli, montaggi emozionanti – ci fornisce un repertorio di storie che ci danno la concretezza sociale delle relazioni pure. (ibidem)  

 

L’amore oltre la coppia, oltre la coppia eteronormativa

Tutto bello ma riconosciamo oggi una realtà ancora diversa, un amore libero di darsi e di dirsi. Un amore che va ancora oltre la relazione pura e parte dal Sè, passa per le persone che per caso o scelta abbiamo accolto nella nostra vita, si relaziona in rapporti plurimi, in relazioni stabili o temporanee, condivide spazi, passioni, porzioni di mondi. Un amore dell’oltre le etichette, fine a se stesso. Esistono relazioni che a discapito di una certa propaganda che ne sporca l’autenticità appiccicandoci sopra espressioni negativizzanti quali “ideologia gender”, sono amorosamente reali nel solo esistere in questa realtà

 

E c’è la l’amore dell’amicizia e quello parentale, c’è l’amore dell’essere single e mai sol3, c’è l’amore che ci stringe in terzetti o in quartetti. C’è quello tra uomini e donne, quello di un uomo nei confronti di un altro e quello di due persone che non si definiscono con i generi dominanti. Tutta questa diffusione infinita d’amore dovrebbe portarci solo che gioia, per chi scrive è così. 

 

Non so molto dell’amore ancora, non credo neppure si possa sapere tanto in generale, perché alla fine non possiamo definirlo per caratteri e darci una definizione unica e universale. L’abbiamo detto, l’amore che conosciamo è un modello, quello che viviamo spesso ne è condizionato ma se ci guardiamo dentro e continuiamo a scavare, l’amore poi cos’è?

Per me l’amore è rispetto assoluto, è quando dai fiducia all’altro da te, è sentirsi al sicuro, spogliarsi di tutto e restare nud3 con le proprie fragilità. 

 

L’amore in carcere

«Lì fuori lo chiamano amore, ma dentro il carcere è meglio non parlare di queste cose» scrive Piero Vereni raccontando di un amore nato tra “un articolo 17” (un volontario) e una persona dipendente del penitenziario in cui ha svolto etnografia. 

L’affettività negata in carcere fa pensare che l’istituzione abbia paura dell’amore, come se un «legame affettivo con una persona (esterna) in intimità amichevole con molte persone detenute potrebbe ridurre proprio la distanza tra personale e detenuti, sovvertendo in uno spazio liminare la frattura moderna tra chi è recluso e chi è libero» (P. Vereni, 2017)

 

Una tematica che abbiamo affrontato in più di un’occasione: Intimità e affetti in carcere; Il detenuto “adultolescente” e che in questi giorni rimbalza sulle testate giornalistiche per la prima volta con notizie positive. 

Nelle carceri di Parma e Terni due persone detenute hanno ottenuto la possibilità di avere colloqui intimi, inclusi rapporti sessuali, senza la supervisione della polizia penitenziaria. Questo è avvenuto grazie soprattutto alla sentenza della Corte Costituzionale di gennaio dello scorso anno, con la quale si è dichiarato illegittimo il divieto di affettività e sessualità in carcere

 

Di strada ce n’è ancora, ma per oggi, almeno per le due coppie riunite di Terni e Parma, accogliamo la gioia. E vi auguriamo buon San Valentino, qualsiasi modello d’amore viviate.

 

Questo focus fa parte della Campagna PID “Assorbire il cambiamento 2.0” – Un’iniziativa che prevede la donazione degli assorbenti in carcere, la realizzazione di laboratori e incontri all’interno di istituti penitenziari femminili e strutture di accoglienza per promuovere maggiore consapevolezza sul ciclo mestruale e sui “nuovi” prodotti igienico sanitari ecologici quali coppetta, slip mestruali e assorbenti lavabili. Leggi di più qui

 

Riferimenti

  • Dei (2016) “Antropologia culturale” 
  • Vereni (2017) “Catene d’amore, ovvero la statalità del male”

Un carcere che “protegge” le donne – Delitto d’onore in Giordania

Nel libro “Donne violate. Forme della violenza nelle tradizioni giuridiche e religiose tra Medio Oriente e Sud Asia” Marta Tarantino affronta il rapporta tra cultura e legge, mostrando come gli intrecci che hanno intessuto i ruoli di genere nell’area mediorientale della Giordania influiscono sulla legislazione del Paese. 

Gerarchia famigliare e ritualità identitarie

L’autrice ricostruisce dapprima il corpus dei valori etico-morali che caratterizza il contesto arabo-islamico del regno Hashemita di Giordania, partendo dall’esplicitazione del duplice ruolo che ha la famiglia. Da un lato, essa assolve alla funzione privata di definizione e costruzione identitaria dell’individuo; dall’altro si fa strumento politico-religioso attraverso il quale la comunità dei credenti continua a esistere nella storia. 

Come uno specchio della società, la famiglia mediorientale è organizzata verticalmente secondo gerarchie e regolata da valori patriarcali. Nella vita famigliare di un bambino o di una bambina inizia la socializzazione ai modelli del femminile e del maschile attraverso lo scandirsi dei rapporti genitoriali dove la madre detiene un potere “temporaneo” sul figlio. Dopo i primi sette-nove anni di vita il bambino compirà quel rito di passaggio della circoncisione che segnerà il suo giungere, dalla maschilità – ossia la condizione biologica – alla mascolinità – il ruolo di genere. Se nei primi anni è stata la madre a curarsi del figlio, sarà poi l’autoritario e distaccato padre a dover guidare il bambino maschio. La bambina invece continuerà ad essere socializzata dalla madre e dalle altre donne di casa: 

«Per le donne invece, la lingua araba utilizza il termine unūah tanto con significato di “essere femmina” o “essere di genere femminile” quanto con quello di “essere molle”, sottolineando con quest’ultimo una sfumatura spregiativa, una semplificazione atta a ribadire il concetto patriarcale di subordinazione e debolezza dell’universo femminile rispetto a quello maschile.» M. Tarantino“La Giordania contemporanea tra cultura tribale e delitto d’onore” 

Una costruzione identitaria che segna una duplice costrizione, una duplice sofferenza: se gli uomini dovranno onorare il proprio ruolo machista e violento, le donne sentiranno il peso di una sessualità di cui hanno l’onere di custodire. Queste costruzioni identitarie, incarnate simbolicamente nella virilità dell’uno e nella verginità dell’altra, s’incontrano nel vincolo del matrimonio, l’unico luogo in cui l’atto sessuale viene legittimato. E a quel punto, la rottura dell’imene della donna durante la prima notte di nozze, rappresenterà non solo l’onore di lei ma quella dell’uomo, della famiglia e di tutta la comunità.  

Delitto d’onore in Giordania

In Giordania la popolazione è caratterizzata da un substrato tribale che include sia arabi musulmani che cristiani ortodossi, i quali di solito appartengono a tribù di natura nomade, semi-nomade o sedentaria. Questa struttura contribuisce a una rete complessa di pratiche e consuetudini che, in molti casi, si sovrappongono o sostituiscono le leggi ufficiali dello Stato, creando una coesistenza di poteri che risale alla nascita dello Stato giordano moderno.

È proprio grazie a questa eredità culturale che la protezione dell’onore e della reputazione si è evoluta nel tempo, assumendo forme di violenza che sono moralmente accettate e normalizzate dalla comunità, in particolare nei confronti di chi mina l’onore e la dignità della famiglia.

Il codice di comportamento non scritto riservato alle donne è necessario al mantenimento dell’onore della famiglia, il quale gli uomini hanno il compito di proteggere e mantenere e che una volta perso, non può essere ripristinato.

Il delitto d’onore può essere letto come un reato culturalmente orientato e nasce proprio da questa responsabilità tutta al femminile dell’onore rappresentativo dell’uomo. La condotta vuole che la donna sia pudica e riservata per tutta la sua vita e in ogni ambiente che abita. Le cause del delitto d’onore possono essere di vario tipo: dalla conversazione di una donna con uno sconosciuto in un posto pubblico, all’assenza prolungata da casa; dal rifiuto di un matrimonio combinato, all’arrivo di una gravidanza illegittima se pure consumata da una violenza. 

«I delitti seguono poi uno schema che si ripete in gran parte dei casi: in una prima fase vi è la presa di coscienza da parte della famiglia del “disonore”, spesso oggetto di discussione di vere e proprie riunioni familiari, seguita dalla designazione di chi dovrà portare a compimento il delitto. Generalmente, l’esecutore materiale dell’omicidio è il fratello della vittima, sebbene all’azione possano concorrere tutti i parenti maschi più prossimi (il padre, lo zio paterno o il cugino), con impiego di armi di vario tipo fra cui coltelli, pistole o veleno nel cibo. Trattandosi di delitti che solitamente avvengono in aree lontane dai grandi centri abitati, spesso i corpi vengono abbandonati in zone remote, rendendone più difficile la scoperta, l’identificazione e complicando la successiva indagine.» M. Tarantino – “La Giordania contemporanea tra cultura tribale e delitto d’onore” 

Legittimare un carcere che “protegge” le donne in Giordania

Nel 1992 la Giordania firma la Convention on the Elimination of all Forms of Discrimination Against Women (CEDAW) che diventa effettiva nel 2007. Nel 2008 il Parlamento pubblica il Protection from Family Violence Law con lo scopo dichiarato di voler coadiuvare la riconciliazione fra i membri delle famiglie in conflitto. Nonostante le intenzioni, il testo resta poco chiaro e polveroso su alcune questioni fondamentali, come la stessa definizione di violenza che viene relegata nell’ambiente domestico. Il delitto d’onore resta di fatto facilitato dal codice penale, da letture misogine della religione musulmana e dalla forza delle consuetudini tradizionali. L’articolo 340 del Codice penale giordano fino al 2001 rendeva possibile la completa assoluzione degli accusati e nonostante le modifiche del testo tese a rendere le disposizioni più neutre, a oggi si recitano i benefici delle attenuanti per un uomo che dopo aver scoperto in ”flagrante delicto” sua moglie o parente la ferisca o uccida.  

«Nessuna donna è detenuta senza motivo, pertanto può avvenire (che essa venga detenuta) per proteggere la sua vita futura, l’eventualità di una disgrazia sociale.» – ibidem, cit. intervista di Amnesty International al Direttore del Dipartimento per i Diritti umani del Ministero degli Interni giordano (2020)

Così accade che per “salvare” la vita a donne che hanno macchiato l’onore della propria famiglia – magari per essere state stuprate e poi aver rifiutato il matrimonio con il carnefice, per essere fuggite via, per avere il grembo il frutto della violenza – queste vengono messe in carcere. In che senso?

Dopo essere stata costretta a sottoporsi a test medici “sulla verginità”, dopo essersi salvata dalla famiglia, dopo aver tentato invano di denunciare alle autorità la sua condizione di pericolo, per effetto del Crime Prevention Act del 1954 può succedere che una donna venga detenuta a “scopo tutelare”. 

  • Nel 2013 la maggioranza della popolazione detenuta femminile si trova nel carcere dei Juweida: vivono in condizioni precarie, vittime di abusi fisici e psicologici. Donne giovani, senza figli né marito, poco abbienti, donne che hanno subito violenze in ambito domestico, che sono state abbandonate dalle famiglie dopo l’incarcerazione. Per entrare e per uscire è necessaria la decisione del governatore locale che però non può acconsentire alla scarcerazione se non è sicuro che la famiglia non abbia intenzioni punitive. Così alcune ricorrono ai matrimoni combinati, altre vanno incontro alla libertà con una sentenza di morte appena fuori le porte del carcere.
  • Nel 2017 inizia ad accendersi il dibattito pubblico intorno alle questioni relative al delitto d’onore, i primi passi verso un’inversione di marcia vengono mossi grazie alle cronache giornalistiche, al lavoro delle associazioni e a una parte moderata del mondo islamico che guardano al problema riconoscendone le radici culturali.
  • Nel 2018 è istituita la casa-rifugio Dar Amneh per permettere alle donne in detenzione amministrativa di avere accesso a servizi, opportunità e assistenza per il reinserimento nella società. Tutti fattori negati all’interno del carcere di Juweida.

Il governo Hashemita sembra aver mostrato così un doppio atteggiamento che da un lato è caratterizzato dalla volontà di rendersi partecipe di un processo di riforma, dall’altro –  impedendo il trasferimento delle donne dal carcere alla casa-rifugio – si fa portatore di un potere arbitrario sulle donne tentando di convincerle a “tornare sotto la protezione maschile”.

«La difficoltà nel debellare il fenomeno è dovuta alla refrattarietà dell’intero sistema valutativo dei reati, il quale esprime, attraverso i vari organismi coinvolti, forme reiterate di male guardianship, partendo dagli uomini della famiglia per giungere ai medici incaricati di sottoporre le donne a test di verginità e gravidanza, al personale carcerario e in ultimo ai giudici chiamati a esprimersi nei processi.» M. Tarantino – “La Giordania contemporanea tra cultura tribale e delitto d’onore” 

Questo focus fa parte della Campagna PID “Assorbire il cambiamento 2.0” – Un’iniziativa che prevede la donazione degli assorbenti in carcere, la realizzazione di laboratori e incontri all’interno di istituti penitenziari femminili e strutture di accoglienza per promuovere maggiore consapevolezza sul ciclo mestruale e sui “nuovi” prodotti igienico sanitari ecologici quali coppetta, slip e mutande assorbenti. Leggi di più qui.