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È sempre divertente dire alle persone che ho svolto il tirocinio con la Cooperativa PID dentro una struttura di accoglienza per persone detenute e/o ex detenute. Le facce dei miei interlocutori si colorano spesso di domande che non riescono a essere formulate per paura di risultare insensibili o ignoranti: più o meno la stessa cosa di quando dico che studio antropologia.

Non è pericoloso? Ma quindi significa che stanno agli arresti? Vabbè ma mica hanno fatto cose gravi altrimenti non te li facevano vede’, no? Scusa eh, questi stanno dentro ‘na casa a fa’ che? E tu che fai, ma perchè?  

Il mio perché nasce da molto lontano, ero appena una teenager – potremmo dire – quando mia sorella che era alle scuole superiori torna a casa con il saggio di Beccaria “Dei delitti e delle pene” e inizia a spiegarmi quanto fosse ingiusta la pena di morte.

Negli anni, il mio interesse per le marginalità sociali, le ragioni che ne sono la base, le dinamiche culturali che le alimentano, le simbologie attraverso cui esse sono rappresentate nella quotidianità di tutti è andato costruendosi attorno alla mia persona: io ho fatto spazio a quella voce che ha iniziato a spingere sempre più forte una volta avvenuto il reale contatto con le persone prese in carico dalla Cooperativa.

Mi sembra quindi essenziale ripercorrere insieme i passi che ci hanno portato a scegliere di realizzare questo blog, introducendo con questo articolo un’esperienza totalmente soggettiva dell’incontro tra una studentessa, due educatori e sei persone che Passo dopo Passo si apprestano ad abbracciare una società nuova, diversa da come l’avevano lasciata. 

Gradualmente 

Quando per la prima volta ho aperto il portone di casa, la luce del sole mi ha accolto. Non è una costruzione meramente letteraria, perché effettivamente succede ogni volta: tutto il corridoio che attraversa orizzontalmente lo spazio che ti si presenta davanti si irradia. 

E all’inizio non senti neanche un rumore. 

Sono da subito entrata in una dimensione altra, l’ho sentita sulla pelle che lasciavo fuori da quella porta, abbandonando la persona che pensavo di dover essere, mettendo tutto il mio centro nelle mani di chi sapevo avrei presto incontrato.  

Il primo giorno non ho conosciuto nessuno degli ospiti: sono andata subito in ufficio da Francesco, l’educatore in turno con il quale ho iniziato il percorso dentro la struttura.

Un po’ alla volta, in base agli impegni di tutti e le disponibilità, ci siamo pian piano lasciati conoscere, più di quanto avrei mai potuto pensare. 

James Clifford ne “Scrivere le culture. Poetiche e politiche dell’etnografia.” presenta il lavoro di Richard Price del 1983 “First-Time: The Historical Vision of an Afro-American People.” per illustrare un parallelismo fondamentale tra la modalità di trasmissione del sapere orale attraverso i racconti saramaka e la conoscenza parziale dell’etnografo del campo. Il paradosso individuato da Price durante la sua ricerca sta nel fatto che ⟪qualsiasi racconto saramaka […] rivelerà solo una piccola parte di quello che il narratore sa dell’evento che narra.⟫  

Il motivo che muove questo principio del Primo-Tempo si ritrova in una più ampia concezione della conoscenza del tale evento o sapere, in quanto essa deve essere graduale, deve cioè crescere un po’ alla volta e dunque ⟪l’oratore rivela di proposito ai suoi uditori solo un po’ di più di quello che ritiene già sappiano.⟫

Questo tipo di gradualità nella conoscenza del sapere saramaka accompagna l’etnografo nella consapevolezza dell’impossibilità, sia sua che dei singoli individui appartenenti alla data cultura, di ottenere un corpus “completo” del sapere del Primo-Tempo.

Ed è questa consapevolezza che accompagna ogni giorno il mio stesso rapporto con i protagonisti delle storie che andremo a raccontare. 

A guidare inizialmente la mia conoscenza degli ospiti sono gli educatori, Francesco e Livia che come il narratore saramaka fanno da filtro permettendomi di addentrarmi nelle trame della struttura di accoglienza: intenzionalmente tracciando una scala immaginaria di conoscenza per non farmi travolgere dalla realtà per intero ma conducendomi verso una graduale consapevolezza delle parti che la componevano, delle loro storie e delle loro scelte che su un piano strettamente morale non rispecchiano il tipo comune di persona con cui si è soliti entrare in contatto. 

Gradualmente le persone incontrate in questo percorso hanno scelto di raccontarsi e proprio per questo ci è sembrato importante strutturare i tempi di condivisione con la stessa ottica del Primo-Tempo: narrazioni parziali del sapere completo, un passo dopo l’altro, un articolo per volta.

Una struttura di accoglienza socio-assistenziale in favore di persone condannate e/o ex detenute

Inoltre, il concetto della gradualità ai fini della reintegrazione nella società civile è stato uno dei primi che la Cooperativa mi ha insegnato, anche in relazione al lavoro stesso degli educatori e più in generale dei percorsi degli utenti del PID, in quanto volti entrambi al graduale reinserimento sociale dei secondi.

Voglio spiegarvi il senso di questo concetto come l’ha fatto con me Francesco: avete presente quando da ragazzini ad un certo punto si è deciso di darvi le chiavi di casa? Ecco questo perché, al di là della necessità del possedere quelle chiavi, prima è stata testata la vostra puntualità al rientro e la stessa costanza nell’essere puntuali e diciamo così, nel dimostrarvi affidabili avete ottenuto la responsabilità di custodire le chiavi di casa. 

Cosa succede in una casa famiglia per detenuti o ex detenuti?

Le prestazioni offerte all’interno delle strutture gestite dalla Cooperativa PID sono volte alla reintegrazione nella società civile della persona ristretta

Lo scopo dell’accoglienza è quello di aiutare le persone con disagio a superare problematiche ed emergenze; sostenere e costruire insieme a loro il percorso volto al recupero di autonomia, opportunità, socializzazione e competenze. Per questo, viene impostata attraverso una modalità olistica che prevede da una parte semplicità familiare, dall’altra la consapevolezza professionale degli operatori nel confronto quotidiano delle problematiche degli ospiti. 

Il rapporto educatore-ospite si legge nelle trame di un sostegno concreto e doppio, nel senso che è costantemente caratterizzato dalla piena disponibilità dei primi e del loro sempre alto grado di attenzione alla qualità degli interventi.

Alessia Massaroni