Cooperativa sociale che offre servizi di ascolto, orientamento, formazione, accoglienza rivolti a detenuti/e, ex detenuti/e e persone che vivono in condizione di disagio sociale.

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Riflessioni sul ruolo dell’educatorɘ: il burnout, un mostro sempre in agguato?

Nell’ambito della nostra attività quotidiana di educatorɘ ci troviamo spesso a fare i conti con situazioni di stress lavorativo che possono arrivare a minare il nostro equilibrio e la nostra produttività, fino ad arrivare a casi estremi in cui si manifesta quello che ormai l’OMS definisce come vera e propria sindrome: il burnout. L’operatorɘ in burnout arriva ad una sorta di esaurimento delle proprie risorse interiori, deteriorate da una condizione di disagio diffusa dovuta alla sovraesposizione al lavoro e alla ridotta capacità di far fronte alle criticità quotidiane. Questo esaurimento si manifesta con la disaffezione verso il lavoro, con un aumentato cinismo e distacco che mina alle basi qualsiasi intervento educativo.

L’argomento è quasi tabù, affrontarlo o ammettere di averci fatto i conti nella propria vita lavorativa può essere letto come mancanza di professionalità, come inidoneità allo svolgere una professione delicata che ha al centro una relazione di aiuto. In realtà per mantenere uno standard lavorativo alto e preservare il proprio equilibrio mentale è prioritario rendersi conto delle proprie debolezze e fragilità, trovare il modo per affrontarle sia individualmente che nel gruppo di lavoro.

Nella mia esperienza lavorativa nella Cooperativa PID mi sono trovato spesso in periodi e situazioni molto stressanti, dovute al sovraccarico lavorativo e alla particolare tipologia di utenti con cui mi sono trovato a confrontarmi negli anni. Il primo rifugio e approdo sicuro nei periodi più pesanti è stato senz’altro il confronto di gruppo, il poter contare sulle colleghe di lavoro e sul lavoro in equipe, l’aver avuto sempre persone vicine che mi hanno fornito sostegno e l’opportunità di confrontarmi e di esplicitare le criticità con cui mi sono trovato di volta in volta a fare i conti. La supervisione di uno specialista poi è stata un’arma in più, che mi ha permesso di avere un approccio più riflessivo e distaccato dalle dinamiche quotidiane, una chiave di lettura esterna che ha contribuito a farmi vedere i problemi da altri punti di vista, arricchendo la mia capacità di trovare soluzioni e di non farmi sovrastare dalle criticità quotidiane, applicando metodologie che mi hanno consentito nel tempo di tenere sotto controllo il lavoro e la sua incidenza sul mio equilibrio psichico.

Soprattutto una volta preso in carico un nuovo utente, e successivamente nel percorso di accompagnamento nella strada verso il reinserimento, si instaura un rapporto molto profondo e diretto con l’utenza, ed è quindi opportuno impostare il rapporto con le persone in carico in maniera chiara, senza lasciar spazio ad ambiguità, in modo da palesare e rendere chiaro il proprio ruolo di “accompagnatore” in un percorso di reinserimento nella società civile, percorso mai scontato ed immediato, che necessita di costante monitoraggio e sostegno da parte dell’educatorɘ professionale. Instaurare un rapporto troppo amicale, diretto, senza filtri e senza paletti con l’utenza può portare al rischio di creare confusione nell’ospite, che cercherà di colmare una serie di deprivazioni cui la sua condizione di detenzione passata o presente l’ha esposto, deprivazioni soprattutto affettive e relazionali, con un rapporto troppo stretto e scorretto con l’educatore, che viene quindi investito di aspettative e richieste crescenti cui non potrà far fronte nel medio-lungo periodo, generando frustrazione nel lavoratore e disaffezione nell’utente. 

Spesso mi sono trovato a dover ribadire, con la dovuta delicatezza per non compromettere il rapporto educativo costruito con l’utente, che il mio ruolo non è assimilabile a quello di un amico, di un confidente, ma appunto è quello di una persona che si pone degli obiettivi, professionali, in comune con l’utente, ovvero, in primis, il raggiungimento di una condizione di autonomia che porti la persona a riprendere le redini della propria vita. 

Nel rapporto che si instaura con le persone prese in carico a volte è necessario mettere degli argini, per evitare di dedicarsi h24 al lavoro, e di dare la falsa illusione all’utente di “esserci sempre”. Il corretto rapporto con l’utente, secondo me, si raggiunge quando entrambi gli attori del rapporto educativo hanno chiaro il reciproco ruolo, e in quell’ambito agiscono per raggiungere quelli che sono gli obiettivi comuni.

Penso che sia importante anche affrontare in maniera riflessiva il proprio lavoro, avere degli spazi e dei luoghi in cui si parli non dell’oggetto del lavoro, ma del lavoro in sé, mettendo al centro gli operatorɘ e dando il giusto spazio alle differenti individualità che compongono un’equipe che si occupa di interventi socio-assistenziali. 

Anche l’avere uno spazio per esprimere le proprie idee, riflessioni e valutazioni, come questo che sto utilizzando in questo momento nell’ambito del blog “Passo dopo passo”, è senza dubbio un elemento positivo che mi aiuta in tal senso.

Francesco

Dossier statistico immigrazione 2022 – i migranti nelle carceri italiane

Il 27 ottobre scorso ho avuto il piacere di ascoltare la presentazione del Dossier Statistico sull’immigrazione del 2022: il frutto del lavoro meticoloso svolto da IDOS in collaborazione con la rivista Confronti e l’Istituto di Studi Politici Pio V volto a fotografare la situazione dei migranti in Italia.  

Ad introdurre la discussione circa la trentaduesima edizione del Dossier, un pensiero rivolto a tutte le vittime del mare e delle frontiere, a tutte le sofferenze e il dolore di chi passa il confine: “A tutti i migranti reali che però sono assenti…”

In questo resoconto, vorremmo riportare i dati del Dossier per quanto riguarda la popolazione migrante detenuta dell’anno 2022. Numeri che rispecchiano una realtà diversa da quella narrata dal luogo comune per cui io non sono razzista ma questi vengono qua e ce stuprano ‘e figlie, ‘e mogli!”. Percentuali che fanno luce su l’evidente disagio socio-economico che vivono le persone che non-accogliamo tutti i giorni. 

Criminalità in Italia – il reale contributo delle persone straniere

Al fine di analizzare il “peso” delle persone straniere nel più ampio scenario criminale italiano, Gianfranco Valenti e Luca di Sciullo, ricordano l’assunzione preliminare di una serie di criteri oggettivi «senza i quali si rischia di fornire una interpretazione unilaterale, ingenua e scorretta» di una realtà che risulta essere più interconnessa di quanto non sembri.

Nel senso, è giusto porre un confine netto tra la criminalità straniera e quella autoctona? 

Lo studio qui presentato cerca di contestualizzare il fenomeno all’interno dell’ambiente sociale, culturale ed economico in cui si manifesta.

Quattro sono le riflessioni che aprono il discorso intorno alla questione contro cui invece si scontra l’opinione comune di molti italiani, condita con una «salsa razzista-lombrosiana – scrivono Sciullo e Valenti – per cui i caratteri somatici comuni a una “etnia” rivelerebbero tratti caratteriali propri di un’intera popolazione».  

  1. Non sempre il numero degli arresti o delle denunce sono corrispondenti alle persone effettivamente arrestate o denunciate, perché è possibile che una stessa persona sia arrestata o denunciata più volte nell’arco del tempo. 
  2. Le persone immigrate in Italia hanno un maggior numero di leggi a cui riferirsi e dunque un maggior numero di reati possibili rispetto agli italiani. Si parla in questo caso di tutte le leggi sull’immigrazione che regolano ingressi, permanenze e regolarità.
  3. Il prevalere dei reati commessi dai giovani, deve essere considerato alla luce di un confronto squilibrato in quanto gli individui giovani sono una forte rappresentanza della popolazione straniera in Italia, a differenza degli italiani più giovani. Dunque occorrerebbe proporre una comparazione della frequenza dei reati per fasce di età.
  4. Infine, non si può evitare di considerare «quanto il degrado del contesto urbano e sociale di vita, la condizione di emarginazione, l’assenza di misure e strutture di sostegno per un’effettiva partecipazione alla vita collettiva siano fattori che aumentano il rischio di scivolamento nell’illegalità…» e non solo per gli individui immigrati.

 

Dai dati messi a disposizione nel Dossier, tratti dall’archivio del Sistema Informativo Interforze si è assistito a un calo determinante delle denunce e degli arresti delle persone immigrate soprattutto nel periodo pandemico, quando in conseguenza alle restrizioni dovute al lockdown, è diminuita di fatto la possibilità di compiere reati “all’aperto”

Sebbene i numeri ad essi relativi siano saliti nuovamente in seguito alla graduale riapertura verso la mobilità sociale, questi sono comunque inferiori rispetto al periodo precedente la pandemia

Questione però secondo me fondamentale, riguarda l’incidenza percentuale sulla criminalità italiana dei reati accertati degli individui stranieri: per sequestri di persona (36,2%), violenze sessuali (41,0%) e omicidi preterintenzionali (42,6%) che in termini assoluti andrebbero a costituire rispettivamente lo 0,2%, lo 0,8% e meno dello 0,1% del totale

Flussi migranti in carcere 

Come abbiamo visto e possiamo dedurre di conseguenza, ad un calo di denunce e arresti delle persone immigrate in Italia, corrisponde il calare del numero dei detenuti in carcere: rispetto al 2008 – anno in cui si registra un numero di presenze migranti ristrette più alto rispetto agli ultimi 20 anni – quando la popolazione detenuta straniera costituiva il 37,1 % del totale; a giugno del 2022 si è scesi al 31,3 %. (Fonte: Associazione Antigone

Come illustrato da Carolina Antonucci, Francesco Biondi e Carla Cangeri, nonostante diminuisca il numero dei detenuti stranieri all’interno delle carceri italiane, è in aumento il numero dei suicidi. «Al 12 agosto – 2022 – erano morte suicide negli istituti penitenziari italiani 51 persone (già salite a 59 al 2 settembre), di cui 27 (più della metà!) erano detenuti stranieri». Come tristemente noto, il numero dei suicidi in carcere non è in diminuzione.

Accesso alle misure alternative 

Nell’articolo di lunedì abbiamo cercato di spiegare in chiave narrativa cosa siano le misure alternative alla detenzione, nel Dossier Statistico sull’immigrazione del 2022 è presente la quota dei detenuti stranieri in semilibertà (16,6% rispetto al totale dei detenuti in carcere). Il numero dei detenuti stranieri in semilibertà è in aumento, notano Antonucci, Biondi e Cangeri ma è comunque basso, sono 174 persone in tutto. 

Se la concessione della semilibertà viene valutata in base al percorso rieducativo e alle razionali possibilità di reinserimento sociale del detenuto e della detenuta, spiegano gli autori: «Evidentemente per gli stranieri sussistono condizioni soggettive – tra le quali anche la debolezza delle reti sociali di riferimento – che impediscono maggiormente l’avvio di questo percorso, con tutte le conseguenze negativo a livello individuale (sul piano pratico e psicologico) e collettivo (in termini di recupero dalla marginalità a una attiva e piena partecipazione al contesto sociale».

 

Quanto riportato è solo una parte dell’importante ricerca Idos, per conoscere nel dettaglio la situazione dei migranti in Italia nell’anno appena trascorso, vi consigliamo di acquistare il Dossier Statistico sull’immigrazione del 2022 qui.

Alessia

Tirocinio all’interno di una struttura di accoglienza per detenuti: in che senso?

È sempre divertente dire alle persone che ho svolto il tirocinio con la Cooperativa PID dentro una struttura di accoglienza per persone detenute e/o ex detenute. Le facce dei miei interlocutori si colorano spesso di domande che non riescono a essere formulate per paura di risultare insensibili o ignoranti: più o meno la stessa cosa di quando dico che studio antropologia.

Non è pericoloso? Ma quindi significa che stanno agli arresti? Vabbè ma mica hanno fatto cose gravi altrimenti non te li facevano vede’, no? Scusa eh, questi stanno dentro ‘na casa a fa’ che? E tu che fai, ma perchè?  

Il mio perché nasce da molto lontano, ero appena una teenager – potremmo dire – quando mia sorella che era alle scuole superiori torna a casa con il saggio di Beccaria “Dei delitti e delle pene” e inizia a spiegarmi quanto fosse ingiusta la pena di morte.

Negli anni, il mio interesse per le marginalità sociali, le ragioni che ne sono la base, le dinamiche culturali che le alimentano, le simbologie attraverso cui esse sono rappresentate nella quotidianità di tutti è andato costruendosi attorno alla mia persona: io ho fatto spazio a quella voce che ha iniziato a spingere sempre più forte una volta avvenuto il reale contatto con le persone prese in carico dalla Cooperativa.

Mi sembra quindi essenziale ripercorrere insieme i passi che ci hanno portato a scegliere di realizzare questo blog, introducendo con questo articolo un’esperienza totalmente soggettiva dell’incontro tra una studentessa, due educatori e sei persone che Passo dopo Passo si apprestano ad abbracciare una società nuova, diversa da come l’avevano lasciata. 

Gradualmente 

Quando per la prima volta ho aperto il portone di casa, la luce del sole mi ha accolto. Non è una costruzione meramente letteraria, perché effettivamente succede ogni volta: tutto il corridoio che attraversa orizzontalmente lo spazio che ti si presenta davanti si irradia. 

E all’inizio non senti neanche un rumore. 

Sono da subito entrata in una dimensione altra, l’ho sentita sulla pelle che lasciavo fuori da quella porta, abbandonando la persona che pensavo di dover essere, mettendo tutto il mio centro nelle mani di chi sapevo avrei presto incontrato.  

Il primo giorno non ho conosciuto nessuno degli ospiti: sono andata subito in ufficio da Francesco, l’educatore in turno con il quale ho iniziato il percorso dentro la struttura.

Un po’ alla volta, in base agli impegni di tutti e le disponibilità, ci siamo pian piano lasciati conoscere, più di quanto avrei mai potuto pensare. 

James Clifford ne “Scrivere le culture. Poetiche e politiche dell’etnografia.” presenta il lavoro di Richard Price del 1983 “First-Time: The Historical Vision of an Afro-American People.” per illustrare un parallelismo fondamentale tra la modalità di trasmissione del sapere orale attraverso i racconti saramaka e la conoscenza parziale dell’etnografo del campo. Il paradosso individuato da Price durante la sua ricerca sta nel fatto che ⟪qualsiasi racconto saramaka […] rivelerà solo una piccola parte di quello che il narratore sa dell’evento che narra.⟫  

Il motivo che muove questo principio del Primo-Tempo si ritrova in una più ampia concezione della conoscenza del tale evento o sapere, in quanto essa deve essere graduale, deve cioè crescere un po’ alla volta e dunque ⟪l’oratore rivela di proposito ai suoi uditori solo un po’ di più di quello che ritiene già sappiano.⟫

Questo tipo di gradualità nella conoscenza del sapere saramaka accompagna l’etnografo nella consapevolezza dell’impossibilità, sia sua che dei singoli individui appartenenti alla data cultura, di ottenere un corpus “completo” del sapere del Primo-Tempo.

Ed è questa consapevolezza che accompagna ogni giorno il mio stesso rapporto con i protagonisti delle storie che andremo a raccontare. 

A guidare inizialmente la mia conoscenza degli ospiti sono gli educatori, Francesco e Livia che come il narratore saramaka fanno da filtro permettendomi di addentrarmi nelle trame della struttura di accoglienza: intenzionalmente tracciando una scala immaginaria di conoscenza per non farmi travolgere dalla realtà per intero ma conducendomi verso una graduale consapevolezza delle parti che la componevano, delle loro storie e delle loro scelte che su un piano strettamente morale non rispecchiano il tipo comune di persona con cui si è soliti entrare in contatto. 

Gradualmente le persone incontrate in questo percorso hanno scelto di raccontarsi e proprio per questo ci è sembrato importante strutturare i tempi di condivisione con la stessa ottica del Primo-Tempo: narrazioni parziali del sapere completo, un passo dopo l’altro, un articolo per volta.

Una struttura di accoglienza socio-assistenziale in favore di persone condannate e/o ex detenute

Inoltre, il concetto della gradualità ai fini della reintegrazione nella società civile è stato uno dei primi che la Cooperativa mi ha insegnato, anche in relazione al lavoro stesso degli educatori e più in generale dei percorsi degli utenti del PID, in quanto volti entrambi al graduale reinserimento sociale dei secondi.

Voglio spiegarvi il senso di questo concetto come l’ha fatto con me Francesco: avete presente quando da ragazzini ad un certo punto si è deciso di darvi le chiavi di casa? Ecco questo perché, al di là della necessità del possedere quelle chiavi, prima è stata testata la vostra puntualità al rientro e la stessa costanza nell’essere puntuali e diciamo così, nel dimostrarvi affidabili avete ottenuto la responsabilità di custodire le chiavi di casa. 

Cosa succede in una casa famiglia per detenuti o ex detenuti?

Le prestazioni offerte all’interno delle strutture gestite dalla Cooperativa PID sono volte alla reintegrazione nella società civile della persona ristretta

Lo scopo dell’accoglienza è quello di aiutare le persone con disagio a superare problematiche ed emergenze; sostenere e costruire insieme a loro il percorso volto al recupero di autonomia, opportunità, socializzazione e competenze. Per questo, viene impostata attraverso una modalità olistica che prevede da una parte semplicità familiare, dall’altra la consapevolezza professionale degli operatori nel confronto quotidiano delle problematiche degli ospiti. 

Il rapporto educatore-ospite si legge nelle trame di un sostegno concreto e doppio, nel senso che è costantemente caratterizzato dalla piena disponibilità dei primi e del loro sempre alto grado di attenzione alla qualità degli interventi.

Alessia Massaroni