Di “guerra al crimine perenne” e di “controllo della droga come controllo di classe” ne parla il criminologo norvegese Nils Christie in un testo che forse può risultare un po’ datato oggi (seconda edizione del 1994) ma che mi pare tocchi alcuni punti fondamentali riguardo l’andamento del controllo del crimine degli stati “industrializzati” che oserei dire sembrano predittivi di quel che sta accadendo.
Il libro si chiama Il business penitenziario. La via occidentale al gulag.
Il criminologo parte da un presupposto che altre volte abbiamo affrontato su questo blogsu questo blog, anche se poco seriamente. Il crimine non esiste, o meglio, esso accade, dice Christie.
Intanto c’è da dire che il crimine di per sé, così come entità arbitraria, non può esistere senza che sia commesso un atto e che a questo gli venga attribuito il significato di criminale.
Poi si può proseguire dicendo che più c’è distanza dalla persona che commette un atto criminale, più siamo inclini a pensare a questo atto come criminale e ad attribuire alla persona la categoria di criminale. Difficile detta così, ma il caro Nils ci fa un esempio: pensate ai figli. I nostri figli e quelli degli altri. Se un figlio ci ruba i soldi dal portafoglio o picchia suo fratello, lo additiamo come criminale?
No. Perché lo conosciamo, sappiamo il contesto per cui quel giorno ha fatto una cosa sbagliata.
Quando Christie scrive stava germogliando un po’ in tutto il mondo, ma soprattutto negli USA, la tendenza a quella che verrà chiamata poi l’incarcerazione di massa. Ergo, il numero delle persone detenute aumentano. E aumentano non di pari passo con l’aumentare della criminalità, perché, come lo studioso ci fa notare, i due fattori non sono necessariamente connessi. La guerra perenne contro il crimine è ciò che in qualche modo alimenta il numero degli ingressi in carcere, una guerra che diventa efficace proprio al fine di mantenere in vita l’industria del controllo del crimine.
All’aumento della disoccupazione, degli “inutili” sociali, corrisponde l’inquietante aumento delle incarcerazioni. Quelle mani oziose che rappresentano, dagli esordi degli stati industrializzati, un pericolo per l’ordine sociale perché dicono al sistema che è fallace e non funziona: l’esistenza delle persone disoccupate mette a rischio la moralità capitalistica che ci vuole sempre efficienti, oltre ad aumentare la possibilità dei conflitti interni.
E quando lo stato sociale è in crisi, quando le politiche assistenzialiste non bastano, come si controllano le classi pericolose?
Uno dei modi è la guerra alla droghe, un aspetto della guerra al crimine perenne che si esplica in maniera concreta con l’aumento significativo delle pene per i reati concernenti gli stupefacenti. Ed eccoci qui, in Italia. Nel 2025.
Leggiamo sull’ultimo rapporto di Antigone che al terzo posto dei reati maggiormente commessi dalle persone detenute nelle carceri italiane al 31 dicembre 2024, ci sono i reati legati alla “Legge droga”: 21.131 persone detenute.
Mi sembra riduttivo e banalizzante sputare questo dato così, ma è brutale l’ovvietà realistica di quel che 30 anni fa “prediceva” un criminologo dalla Norvegia.
Proseguendo il discorso sul controllo delle classi pericolose attraverso la guerra alle droghe, il nostro Nils spiega la terminologia che utilizza Spitzer nel 1977 per descrivere la condizione dei cosiddetti “rifiuti sociali” che sono assediati da un “movimento a tenaglia”:
Vengono chiamati <<Pescecani della droga>> e vengono incarcerati per periodi eccezionalmente lunghi se importano o vendono più di quantità minime di droga.
[…] All’altro capo del movimento a tenaglia, ci sono le iniziative per imporre cure coercitive.
Vi invito però a leggere il libro di Christie, ci dà molti spunti di riflessione. E se vi va, ci possiamo sempre confrontare sulle tematiche che affronta.






