Cooperativa sociale che offre servizi di ascolto, orientamento, formazione, accoglienza rivolti a detenuti/e, ex detenuti/e e persone che vivono in condizione di disagio sociale.

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Il detenuto “adultolescente”

Il detenuto, la sessualità e l’affettività in carcere. L ci scrive:

LE PAROLE DI L 

 

I carcerati sono ridotti alla stregua di adolescenti ma che dico ADULTOLESCENTI per dirla con un neologismo. Il vero danno non è “l’astinenza”, quanto la frantumazione della vita di coppia. Nessun luogo è lontano, neanche il carcere in una società. 

Eppure il legame affettivo è eroso dal carcere e con esso la sessualità, riconosciuta invece in altri Paesi europei.Quando se ne parla assistiamo sempre ad un vergognoso “girotondo” di pregiudizi, si crea attorno a questo “diritto negato” un ” humus ” favorevole a chi con pulsioni irrefrenabili, con un florilegio di insulti e con toni sbracati urla “chiedendo di buttare via Ia chiave”.

Tutto questo semplicemente per raccogliere uno squallido dividendo elettorale.

 

La sessualità è una componente essenziale in un rapporto di coppia, corrobora la relazione coniugale, ne scongiura il logoramento a vantaggio anche degli altri componenti di una famiglia

Con la negazione di questo diritto capisci che il tuo tempo, il tuo vissuto, la tua storia di coppia possono dissolversi. 

Ti accorgi, con Io sguardo perso nel vuoto/che c’era un “prima” ma che forse non ci sarà un “dopo”. Si finisce con il dissipare un legame o quantomeno si rischia di ridurlo ad un guscio vuoto. C’è una regressione “adolescenziale” del detenuto che si rassegna alla “piattezza” della vita quotidiana dietro le sbarre. 

 

Aspettiamo la Consulta, “Nessuna notte è infinita” direbbe Renato Zero.

 

ORSO M49

Riflessioni di L sull’attualità

LE PAROLE DI L

Quante volte

Quante volte con improvvidi “cazzeggi” giuridici ci scagliamo noi detenuti con improbabili certezze contro la cosiddetta ” discrezionalità” del Magistrato di fronte ad una sua ordinanza? Senza rendercene conto difendiamo interessi non nostri che non ci appartengono, interessi ” diciamolo pure ” apertis verbis” di “classe ” .

Pochi giorni fa la Giudice Valeria Ciampelli ha deciso di applicare la misura cautelare del solo divieto di dimora ad una donna , Zaira, di Tor Bella Monaca difesa dalla avvocata Manila Salvatori. Zaira era stata fermata dalla Polizia con alcune dosi di crack ed eroina. Non era la prima volta: una donna disperata con un marito morto in un incidente , con dei bambini senza futuro , prospettive di lavoro, nulla. La Giudice ben lungi dal sollevare in modo “lombrosiano”il sopracciglio e percependo il dramma di questa donna e la condizione di marginalità sua e dei suoi bambini che con un padre ormai deceduto ed una madre in galera chissà dove sarebbero finiti ha deciso di attenuare la misura.

Senza la discrezionalità , senza questo strumento di garanzia tanto inviso al garantismo di classe, quello a corrente alternata per intenderci dove si è deboli con i” colletti bianchi”e duri e puri con i “poveracci” tutto questo non sarebbe potuto accadere.

Quante volte anche noi detenuti ci lasciamo andare a supercazzole giuridiche il Giudice non è un” algoritmo” e non è ancora subalterno al potere politico.

Un atto di giustizia

Poche settimane fa un decreto del tribunale civile di Matera ha ordinato alla ASL di eseguire una risonanza magnetica ad una donna di 51 anni che da settimane a causa di alcuni noduli al fegato cercava di sottoporsi a questo accertamento. La donna non aveva i soldi era in uno stato di indigenza , un quadro disperante insomma, e non poteva per fare in fretta , attesa la gravità , rivolgersi ad un privato. Salvifico è stato il provvedimento di un Giudice ,il dott. Angelo Franco, il quale accogliendo il ricorso dell’avvocato Angela Maria Bitonti , Presidente dell’Associazione per la tutela dei diritti dell’ uomo I’ “ADU“, ha poi consentitola TAC.

Noi detenuti pervasi, è comprensibile, da un pregiudizio ideologico, (siamo o siamo stati pur sempre in carcere a seguito di una condanna emessa da un magistrato) ci saremmo aspettati tutto tranne che vedere un magistrato porre coraggiosamente rimedio questo singolo caso . Ciò che traspare in modo evidentissimo è la selvaggia privatizzazione ispirata da lobbies economiche che in nome del” profitto” e forti della loro presenza nei consigli di amministrazione, condiziona le scelte dei politici” sponsorizzandone” la loro elezione in Parlamento.

Un plauso a questo Giudice che potremmo dire ha dato coraggio alle paure di questa donna, alla sua disperazione, alla sua marginalità.

“Sconfiggere la povertà non è un atto di carità, è un atto di Giustizia”.
Nelson Mandela

Il passato che non passa

“A noi…II dovere di reprimere!” è la frase di un film …

La guerra agli ultimi, ai marginali ai migranti alle mamme detenute con figli minori ai detenuti quelli ristretti in carcere e quelli rinchiusi senza titolo nei C.P.R., la guerra nei loro confronti è già cominciata con l’inasprimento delle pene. Si creano nuove norme, si assimila la resistenza passiva del detenuto che disobbedisce a quella del detenuto violento, si fa la stessa cosa con i ragazzi ambientalisti considerati con le nuove norme alla stregua di terroristi.
Tutto questo con buona pace dei reati finanziari e fiscali ed anche quelli di mafia dove il “bottino” il mal tolto o chiamatela come credete la “refurtiva” è di gran lunga superiore.

Questa è la predicazione di chi ci governa, del “Presidente del Consiglio” (non ama le declinazioni al femminile e non la chiameremo” la Presidente” vittima com’è della sua concezione patriarcale) che si dice “orgogliosa” di questo pacchetto sicurezza.

Siamo ormai al balconismo recidivo non più a Piazza Venezia ma poche centinaia di metri più in là a Palazzo Chigi.

“La città è malata ad altri spetta il compito di educare e di curare, a noi il dovere di reprimere la repressione è il nostro vaccino!”

Sono le parole di Gianmaria Volontè nel panni di un funzionario di polizia nel celebre film del 1970 di Elio Petri “Un cittadino al di sopra di ogni sospetto”.

Il passato che non passa, bellezza.

 

ORSO M49

Il permesso premio: Noodles e Fat Moe

LE PAROLE DI L

Il permesso premio «consente al detenuto di “uscire temporaneamente” dal carcere, per periodi non superiori a quindici giorni, fino ad un massimo di quarantacinque giorni all’anno, per coltivare interessi affettivi, culturali e di lavoro» Dott.ssa Francesca Saveria Sofia

Provvidenziale fu la legge del 10 ottobre 1986 numero 663 ovvero la “legge Gozzini” del Senatore Comunista Mario Gozzini con la quale si introdussero le misure alternative al carcere e tra queste i permessi premio ai detenuti.

ll “permesso premio” è quel beneficio premiale che ti consente la riappropriazione del tempo perduto e la valorizzazione di quello presente e futuro.
Ci si relaziona con i propri cari, si riassaporano “frammenti di libertà”, anche quando banalmente da ” semiliberi” si sorseggia un caffè al bar, si fa una corsa al parco o si carezza un cane.
E poi … diciamola tutta … si stemperano le ” tempeste ormonali “. Le giornate tornano ad essere non più ripetitive, non c’è più l’automatismo temporale che si vive dietro le sbarre dove a sovrastarci è la “predazione” del nostro tempo.
Al netto dell’emergenza climatica e dell’inquinamento ambientale si respira comunque il “profumo della libertà”. Capita spesso che, al primo permesso premio, parenti amanti conoscenti amici veri o presunti ti chiedano “cosa hai fatto per tutto questo tempo”.

La risposta, quella vera, dolce e malinconica è “sono andato a letto presto”. Proprio come Noodles (De Niro) rispondeva a Fat Moe (Larry Rapp) nel capolavoro cinematografico “C’era una volta in America” del 1984 del regista Sergio Leone.

Noodles Fat Moe i permessi premio.

ORSO M49

Quanto costano le mail in carcere?

LE PAROLE DI L

Il vento delle mail in carcere, a caro prezzo

C’è un dato che deve confortare, almeno chi se le può permettere, stiamo parlando delle mail in carcere. È un “mezzo di comunicazione” notevole dietro le sbarre. Con la mail “parliamo scrivendo” al cuore dei nostri cari e loro parlano al nostro. 

 

Con la mail comunichiamo più celermente con i nostri avvocati, talvolta inca**andoci con loro chiedendo rassicurazioni ed altro. Con le mali siamo presenti laddove siamo assenti: il mondo libero, ca va sans dire.

 

La mail può rafforzare la nostra identità scalfita dall’assenza della libertà

Ci sono per noi detenuti, in questa forma di comunicazione, nostalgia e sensi di colpa per ciò che non si è vissuto, nel bene e nel male. Ma si continua a sognare un futuro con l’arma della scrittura. 

 

Non deve sembrare questa una narrazione edulcorata e rosea della realtà, perché i nodi da sciogliere sono tanti a cominciare dai costi e dai tempi di invio e ricezione che non sono esattamente gli stessi che si hanno “fuori” in libertà. La posta elettronica “smistata” da altri arriva sempre il giorno dopo. Quella di venerdì poi il lunedì successivo. Quello che parenti, mogli, figli ed avvocati scrivono può essere letto solo il giorno dopo. E, molte volte, neanche letto perché viene ricevuto e mandato in automatico nello SPAM del ricevente, perché non viene riconosciuto dalla email. 

Quanto ai costi… Et voilà 30 pagine 12 euro, 70 pagine 24 euro, 165 pagine 40 euro e dulcis in fundo, 250 pagine 54 euro.

  

È bello il non detto…. 

Sarebbe giusto riconoscere questa modalità di comunicazione anche a chi è “l’ultimo degli ultimi ” e non ha un centesimo, ma tant’ è. 

 

M 49 

Le telefonate, il blindo socchiuso dei detenuti

I PENSIERI DI L

La “stretta” sulle telefonate per i detenuti  lascia presagire tempi “duri” per gli Ultimi, quelli dietro le sbarre.

Fa sorridere per non dire inca**are, scusate il rigurgito lessicale, che in un periodo in cui impazzano decreti legge non più “ad personam” come ai tempi del Cavaliere, ma “contra personam” (vedi Cutro) decreti ormai prassi quotidiana con buona pace della “necessità ed urgenza”, non ci sia nulla che riguardi la popolazione detenuta. 

E dire che spesso “manine”, provvidenziali per qualcuno, inseriscono in questi decreti cose estranee agli stessi provvedimenti legislativi per compiacere lobbies, gruppi industriali e consorterie varie. Ma non c’è nulla che possa mitigare l’espiazione della pena

 

Le quattro telefonate settimanali consentivano a tutti noi di poter tenere socchiuso, (è una metafora) il blindo del carcere, permettendo, per qualche minuto a tutti noi di pensarci fuori con i nostri cari, ci si quasi illudeva di poter condividere le loro quotidianità, ansie, gioie e preoccupazioni. Era poco ma era tanto, per usare un ossimoro. Stupisce che un Ministro che “brandiva” la bandiera del garantismo ora appaia come colpito da afasia e sia inerte di fronte a questo abisso securitario. 

 

Le scorie post-fasciste si sono ormai diffuse nei palazzi di potere. 

“Non abbiamo le prove ma sappiamo che è vero”, direbbe Pasolini. 

 

Cosa pensano i detenuti del mondo fuori?

Nulla è per sempre, tutto è transeunte. 

Pensando a quel che doveva essere e non è stato (nella nostra vita) molti di noi detenuti provano amarezza. Il passato resta (in parte) ed è anche giusto che sia così, perché si deve rispondere delle proprie condotte illegali. Tutto ci “segue e ci insegue” a cominciare dai sensi di colpa per i danni causati alle parti lese ed alla Comunità, per finire alle delusioni ed alle sofferenze che con quelle condotte abbiamo provocato ai nostri familiari. Ed allora per non buttare via il tempo e dare un senso non più distruttivo alle nostre vite è giusto pensare di “utilizzare” un giorno noi stessi al servizio degli altri. Ci confrontiamo, discutiamo (talvolta con asprezza) per condividere idee e progetti con altri detenuti, con gli operatori sociali ed il volontariato. 

 

Di fronte alla questione migranti ed al dramma che ne consegue (ci si ostina a considerarlo un problema solo emergenziale e non strutturale ed epocale), di fronte alla de-umanizzazione degli ULTIMI, alle sperequazioni sociali, ad un Esecutivo che vorrebbe una Magistratura subalterna al potere politico, una  Giustizia “strabica”, forte con gli ultimi e debole con i “Colletti Bianchi”, anche noi detenuti spesso ci interroghiamo, discutiamo, ci misuriamo ognuno con le proprie convinzioni

 

Perché una volta “fuori” sarà questo il mondo con cui interagire, 

E dovremo farlo in modo costruttivo, questa volta. 

 

M49 L’orso

Morire di lavoro

LE PAROLE DI L

Il paradosso di questi anni è che si debba constatare la morte violenta di chi lavora “per campare” e che ci si stia abituando a queste tragedie. Il lavoratore non è più garantito ed è visto semplicemente come una sorta di mezzo di produzione. Per dirla in breve non si vive più per lavorare ma si muore di lavoro. Il “liberismo feroce” di questi anni, quello del “digrignar di denti” di certe oligarchie finanziarie sostenitrici della produttività ad ogni costo, il laissez-faire hanno portato a questo. Cosa dovremmo fare imbavagliarci e stare zitti? Fare finta di nulla di fronte a queste stragi? 

 

È avvilente questo politicamente “corretto” dei nostri leader intriso di demagogia, ogni volta che muore un lavoratore. Dippiù: provoca conati di vomito. 

Sono gli stessi politici che hanno tolto il reddito di cittadinanza a quei lavoratori (in nero) che percepivano 3 euro l’ora. Non si era mai vista, come negli ultimi anni, un’inclinazione così feroce alla produttività ad ogni costo, con buona pace dell’Articolo 36 della Costituzione

 

 «Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa. La durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge. Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi.»

 

Questi fatti vorrebbero che si desse esecuzione a provvedimenti di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori. Li faranno? Lo vorrei tanto.

 

Ci ostiniamo a credere che “un altro mondo sia possibile”. Proprio come quelli che urlavano, che manifestavano al G8 di Genova. (2001) Un altro mondo dev’essere possibile! L’Italia “derubata e colpita al cuore” quella che con grande intuizione aveva denunciato e previsto De Gregori non è il paese che vogliamo per le future generazioni

 

M49

Miliardari – La “democrazia distorta” secondo L

«Io non creo niente: io posseggo. E noi facciamo le regole: le notizie, le guerre, la pace, le carestie, le sommosse, il prezzo di uno spillo. Tiriamo fuori conigli dal cilindro mentre gli altri, seduti, si domandano come accidenti abbiamo fatto. Non sarai tanto ingenuo da credere che noi viviamo in una democrazia: vero, Buddy? È il libero mercato, e tu ne fai parte: sì, hai quell’istinto del killer…» – dal film “Wall Street” (1987).

Per la rubrica “L ci parla di”, oggi il nostro ricercatore spossato riflette sulle parole del film “Wall Street” in correlazione ai recenti eventi del nostro paese che hanno coinvolto l’Anfiteatro Flavio e due degli uomini più ricchi al mondo. 
LE PAROLE DI L

Due miliardari “squali” che detengono un patrimonio di 350 miliardi stavano per trasformare il Colosseo in un ridicolo luogo di combattimento tra gladiatori attempati. Si chiamano Musk e Zuckerberg. Il “nostro” Ministro della Cultura con sprezzo del ridicolo, in cambio di una “mancetta milionaria” (per costoro qualche milione di euro sono pur sempre spiccioli) si era fatto promotore di questa “cafonata miliardaria” salvo poi ricredersi. 

Un teatrino simile promosso poi dai nostri sedicenti “patrioti” suona come uno sberleffo nei confronti di chi patriota lo è per davvero. Patriottismo è ben altro, un uomo per tutti. (Pertini)

 

Suvvia, basta ca**ate, si facciano pagare le tasse a questi due imprenditori stile cafonal. Solo così si difende la dignità del nostro paese. Meglio preferire la parola “paese” e non “nazione”, posto che proprio coloro che stavano per allestire nella nostra città un ring a beneficio di questi due miliardari con un ego ipertrofico con degenerazioni narcisistiche suscitano l’entusiasmo e l’adulazione perversa di certi governanti. 

 

A questa sub-cultura in grado di sedurre la “piccola borghesia” più restia da sempre ai cambiamenti sociali Michela Murgia, con il suo radicalismo linguistico, aveva contrapposto un nuovo “umanesimo digitale”, più esattamente una “letteratura digitale” non a caso invisa all’accozzaglia di quei  “leoni da tastiera o killer digitali” da sempre sostenitori del peggior sovranismo patriarcale. Vogliamo ostinarci a credere che la democrazia sia un valore preminente. E tanti saluti ai discendenti di Gordon Gekko, Wall Street, Micheal Douglas e alla loro distorta lettura del digitale.

La rete deve poter estendere l’eguaglianza, i diritti dei popoli. Non deve … “rinco*****ire” la gente.

 

Colgo l’occasione per dirti, Michela: ci mancherai!

M49

Detenzione minorile tra sfide attuali e possibilità future

MATTEO

La questione della detenzione minorile rappresenta un tema di rilevante importanza che genera discussioni approfondite in tutto il mondo. Mentre le istituzioni giudiziarie cercano di affrontare il comportamento criminale tra i giovani, è vitale esaminare con attenzione l’efficacia del sistema di detenzione minorile e riflettere sulle possibili alternative, con l’obiettivo di promuovere una rieducazione più efficace e un futuro migliore per i giovani coinvolti nel sistema penale.

 

Una Prospettiva Globale del concetto di detenzione minorile

La detenzione minorile, spesso conosciuta come carcere minorile o istituto di correzione giovanile, rappresenta un sistema in cui i giovani che hanno commesso reati vengono privati della libertà e confinati in strutture appositamente destinate a questo scopo. In teoria, l’obiettivo di tale sistema è quello di correggere il comportamento criminale attraverso programmi educativi, terapie e attività di riabilitazione. Tuttavia, è importante considerare in modo critico il funzionamento di tale sistema, dato che spesso sorgono critiche per quanto riguarda le sue carenze e l’efficacia complessiva.

 

Sfide Connesse alla Detenzione Minorile

 

  1. Rischio di Recidiva: numerosi studi hanno evidenziato come la detenzione minorile possa aumentare il rischio di reincidere nel crimine. All’interno delle strutture detentive, i giovani possono entrare in contatto con influenze negative e modelli comportamentali criminali, rendendo così difficile il processo di reinserimento nella società una volta terminata la pena.

 

  1. Impatti a Lungo Termine: l’esperienza della detenzione può avere conseguenze a lungo termine sulla salute mentale, l’istruzione e le opportunità di impiego dei giovani. Tali conseguenze possono limitare in modo significativo le loro prospettive future e contribuire a un circolo vizioso di coinvolgimento nel crimine.

 

  1. Sovraffollamento e Condizioni: molte strutture di detenzione minorile registrano problemi di sovraffollamento e condizioni igieniche precarie. Questi fattori possono avere un impatto negativo sulla salute fisica e mentale dei giovani detenuti, ostacolando così qualsiasi tentativo di promuovere una reale riabilitazione.

 

Alternative alla Detenzione Minorile

 

  1. Programmi Intensivi di Riabilitazione: esperti e professionisti del settore sostengono l’efficacia di programmi intensivi di riabilitazione, tra cui counseling individuale, terapia familiare, opportunità di istruzione e formazione professionale. Questi programmi mirano a trattare le radici profonde del comportamento criminale, offrendo ai giovani una reale opportunità di cambiamento.

 

  1. Approcci di Diversione: un approccio basato sulla diversione prevede l’indirizzamento dei giovani verso programmi comunitari anziché la detenzione. Questi programmi affrontano direttamente le cause sottostanti che possono aver contribuito al comportamento criminale, cercando così di prevenire la recidiva.

 

  1. Giustizia Riparativa: questo approccio coinvolge la vittima, l’offensore e la comunità nell’affrontare insieme le conseguenze del reato. Gli incontri di giustizia riparativa promuovono la responsabilità individuale e contribuiscono alla guarigione delle parti coinvolte.

 

Spunti per il Futuro 

La questione della detenzione minorile solleva interrogativi fondamentali riguardo alla giustizia, alla riabilitazione e al benessere dei giovani coinvolti. Mentre il sistema tradizionale di carcere minorile è soggetto a numerose critiche, le alternative focalizzate sulla riabilitazione e sulla prevenzione della recidiva offrono una prospettiva utile per il futuro. Sviluppare politiche e programmi che favoriscano una riforma autentica del sistema diventa cruciale per garantire che i giovani coinvolti nel sistema penale possano intraprendere un percorso significativo di riscatto e reintegrazione positiva nella società.

 

Libertà dopo la reclusione: il reinserimento sociale dei detenuti analizzato con il principio di Pareto

Il periodo di reclusione rappresenta una tappa fondamentale nella vita di un individuo. Tuttavia, ancor più importante è il processo di reinserimento sociale che segue la fine della pena. In questo blog post, esploreremo il tema della libertà dopo la reclusione, analizzandolo attraverso il prisma del Principio di Pareto, noto anche come la regola dell’80/20. Scopriremo come questo principio possa fornire una prospettiva utile per affrontare le sfide e le opportunità che si presentano nel reinserimento dei detenuti nella società.

Il Principio di Pareto afferma che, in molti contesti, l’80% degli effetti è determinato dal 20% delle cause. Questo principio può essere applicato anche al reinserimento sociale dei detenuti. Infatti, un piccolo numero di fattori critici può influenzare in modo significativo la riuscita o il fallimento di tale processo.

Educazione

Offrire opportunità di istruzione e formazione professionale ai detenuti può fornire loro le competenze necessarie per trovare un impiego stabile una volta liberati. Investire nel potenziale di crescita personale e professionale dei detenuti può contribuire a ridurre il tasso di recidiva e consentire loro di diventare membri “produttivi” della società.

Supporto psicologico

La reclusione può lasciare cicatrici emotive e psicologiche profonde. È essenziale fornire un adeguato supporto psicologico ai detenuti, aiutandoli a elaborare il loro passato e a costruire una visione positiva per il futuro. Terapie individuali e di gruppo, programmi di reinserimento gradualmente progressivi e sostegno sociale possono giocare un ruolo significativo nel favorire una transizione positiva.

Sostegno comunitario

Sensibilizzare l’opinione pubblica, eliminare il pregiudizio e promuovere la comprensione sono requisiti fondamentali per creare un ambiente favorevole all’accettazione dei detenuti che cercano di ricostruire le proprie vite. Programmi di reinserimento basati sulla collaborazione tra enti penitenziari, organizzazioni no-profit e imprese locali possono agevolare la transizione dei detenuti verso una vita autonoma e produttiva.

 

Il reinserimento sociale dei detenuti richiede uno sforzo collettivo per superare le sfide che essi affrontano una volta concluso il periodo di reclusione. Applicando il Principio di Pareto, possiamo concentrarci sugli aspetti chiave che possono influenzare positivamente il processo di reinserimento. Investire nell’educazione, nel supporto psicologico e nel sostegno comunitario: agire sul 20% delle cause, può aiutare a mitigare l’80% degli effetti.

L’arte terapia negli istituti penitenziari: l’espressione creativa come mezzo di libertà

MATTEO

L’arte terapia nasce come disciplina nel corso del XX secolo, in particolare negli anni ’40 e ’50. Viene attribuita principalmente a due figure fondamentali: Adrian Hill e Margaret Naumburg .


Adrian Hill, un pittore britannico, è considerato uno dei pionieri dell’arte terapia. Durante la sua esperienza in un sanatorio per tubercolosi, Hill notò come il disegno e la pittura lo aiutassero a superare la malattia e a gestire il dolore e lo stress emotivo.

Attraverso il suo lavoro, Margaret Naumburg, una psicoanalista statunitense cercò di integrare il processo creativo con la psicoanalisi, permettendo ai pazienti di esprimere i loro conflitti interiori attraverso l’arte. Nel 1943, fondò la Walden School di New York, una scuola che integrava l’arte terapia nell’educazione dei bambini.

Negli anni successivi, l’arte terapia ha continuato a evolversi come disciplina, con il contributo di molti altri professionisti nel campo della psicologia, della psicoterapia e delle arti creative.

Oggi, l’arte terapia è riconosciuta come un approccio terapeutico valido e viene utilizzata in una vasta gamma di contesti clinici, inclusi gli istituti penitenziari, per promuovere l’empowerment personale e il benessere emotivo.

Cos’è l’Arte Terapia?

L’arte terapia è una forma di terapia che utilizza l’espressione artistica come mezzo di comunicazione e di guarigione. Attraverso vari mezzi espressivi come la pittura, il disegno, la scultura e l’artigianato, gli individui possono esplorare e rielaborare i propri sentimenti, pensieri ed esperienze attraverso il canale non verbale. Si viene a creare uno spazio sicuro e creativo in cui le persone possono esprimere se stesse liberamente, promuovendo l’autoriflessione e la relazione d’aiuto.

Le artiterapie negli Istituti Penitenziari:

Negli istituti penitenziari, i laboratori di artiterapie offrono una via percorribile per superare le difficoltà e le sfide emotive associate alla vita in detenzione. I detenuti possono sperimentare sensazioni di isolamento, rabbia, frustrazione e persino disperazione. Le arti terapie forniscono loro uno spazio dove possono liberare queste emozioni e cambiare il punto di vista da cui guardare, anche in un penitenziario.


L’arte terapia negli istituti penitenziari mira a migliorare il benessere emotivo dei detenuti, a riscoprire la propria identità e le proprie risorse. L’Arteterapia promuove la riabilitazione e la reintegrazione nella società. Attraverso l’espressione creativa, i detenuti possono sviluppare una maggiore consapevolezza di sé, una migliore gestione delle emozioni e una prospettiva positiva sul loro futuro.

 

In conclusione, l’arte terapia negli istituti penitenziari offre ai detenuti la possibilità di esplorare la loro creatività, trovare un canale emotivo innovativo e sviluppare competenze personali significative. Attraverso questa forma di terapia, i detenuti possono intraprendere un percorso trasformativo capace di aprire le porte alla riscoperta di sè, all’autostima, e al reinserimento sociale. Le arti terapie dimostrano come l’espressione artistico-creativa possa far contattare quel senso di libertà anche in una condizione di mancata libertà, come quella detentiva.

La magistratura dagli occhi di un condannato

La magistratura  secondo L

Noi carcerati (non io per la verità, la pena la sto scontando) vediamo sempre la figura del magistrato con un comprensibile livore, più esattamente con un pregiudizio ideologico.

Una riflessione ampia sulla magistratura: attenzione al giudizio più che al pregiudizio

Dopo Cutro e a seguito degli accadimenti a largo della Grecia, l’Associazione Nazionale dei Magistrati ha giustamente fatto notare che non è possibile accusare di un reato chi fugge da un paese perché privato della libertà. Nessuna norma, sostengono, potrà mai impedire l’obbligo di salvataggio in mare perché non è possibile impedire ad alcuno di fuggire da paesi dove non è riconosciuta la dignità umana. Sono principi bellissimi. 

Stiamo parlando della stessa associazione tanto invisa alla classe dirigente “garantista a corrente alternata”. Una classe politica severissima e feroce con gli ultimi, i marginali, gli “sfigati” insomma, un po’ meno con i “colletti bianchi”. Abolizione dell’abuso d’ufficio docet

Vorrebbero addirittura, questi “politicanti” portare le pene relative allo spaccio di droghe leggere da 3 a 5 anni. Come ha fatto notare qualcuno nei giorni scorsi (PalmaGarante nazionale privati libertà) nulla è stato fatto con la nuova riforma per migliorare le condizioni di vita dei detenuti. Questo è un paese dove se “sporchi” con la vernice lavabile qualche muro per sollevare il dibattito sull’emergenza climatica, rischi il carcere, ma se inquini il territorio con la cementificazione e i pesticidi ti premiano addirittura per aver contribuito ad alzare il PIL, come ha fatto notare qualcuno.

E poi perché crocifiggere sempre i magistrati, anziché il legislatore?

Proviamo soltanto ad immaginare cosa accadrebbe se il “disegno trentennale” del cavaliere, quello di rendere subalterna la magistratura al potere politico, si dovesse realizzare …

Gli ultimi, ed in carcere sono la maggioranza, marcirebbero in galera con buona pace dell’Articolo 27 della Costituzione che vorrebbe il reinserimento e la rieducazione del detenuto.

Non è forse questo l’auspicio di Salvini?

La magistratura sulla tortura

Ad onor del vero anche la magistratura ha le sue responsabilità: ricordiamo Enzo Tortora.

Non possiamo però non riconoscere altri magistrati che condannarono chi torturò Cucchi. Altri stanno indagando sulle torture ai danni di “fermati” poste in essere da alcuni poliziotti della questura di Verona. Abbiamo tutti visto con stupore le foto di quei maltrattamenti.

La riforma recentissima sulla Giustizia, oggi non consentirebbe più la pubblicazione di quelle foto. Per non parlare dei maltrattamenti a Santa Maria Capua Vetere, nessuno avrebbe saputo di quei misfatti se quel giorno un uomo nell’immediatezza di quei fatti non avesse preteso (a seguito di una segnalazione anonima) di entrare in quel carcere.

Quell’uomo era un magistrato!

 

Al di là di certe innegabili criticità, la magistratura è e deve restare un presidio di legalità. Siamo detenuti per le condotte illegali che poi un magistrato ha accertato. Non dimentichiamolo. Il “giudizio” sulla magistratura deve essere più forte del pregiudizio.

Per un detenuto è “impopolare” scrivere queste cose, ma vanno scritte e l’ho fatto!

M49 L’orso

La cultura che genera il femminicidio

Sulla cultura patriarcale e il ruolo delle donne nella società contemporanea, si esprime L, commentando il recente femminicidio di Giulia Tramontano, senza poter trattenere l’amaro.
Di fronte a questi episodi, ti si arrovella lo stomaco. È veramente possibile che alla scomparsa di una donna, si è già tutti e tutte consapevoli che “è stato lui”?
Alcuni sostengono che non esiste più ragione per portare avanti le cause del femminismo, perché ormai si sono ottenuti tutti i diritti. Come a dire “E basta, dai. Non vi accontentate mai voi donne!”. Come si può credere veramente questo?
LE PAROLE DI L

NON DIMENTICHIAMO GIULIA!

Non crea più stupore, solo un senso di ribrezzo e impotenza, la retorica dei media all’indomani della morte di Giulia Tramontano, una giovane donna incinta di 7 mesi uccisa dal suo fidanzato. Il concetto della donna-premio, promulgato sui media anche da certi personaggi di “spessore”, sottende ancora un retropensiero del quale noi “maschietti” non ci siamo ancora liberati e con il quale non abbiamo ancora fatto i conti.

Questa “sub-cultura” può, come nel caso di Giulia, generare dei mostri. Si fatica molto a considerare la differenza tra amore e possesso. Non lo si fa abbastanza. Anche in questo caso, non riguarda solo il nostro paese: si pensi a quello che succede alle donne iraniane. Mentre in alcuni paesi europei, dove le società sono più “laiche” e le cose vanno “meno peggio”. 

 

Ogni ora nel mondo 5 donne vengono uccise da un uomo. 

 

La nostra “Commissione d’inchiesta” sul femminicidio sembra essere colpita da afasia. Noi, nel nostro paese, subiamo un retaggio culturale, come scritto poc’anzi, che ci impedisce nel XXI secolo di tenere lezioni di educazione sessuale da un punto di vista scientifico nelle scuole. Il reddito delle donne è mediamente più basso rispetto a quello degli uomini e non possono affrancarsi. Si è spesso portati a credere che la “denatalità” nel nostro paese sia colpa delle donne perché lavorano troppo e non hanno tempo per i figli

 

Forse una certa contiguità con i settori più conservatori del Vaticano ha un peso condizionante il comune pensiero della nostra comunità. Alle donne è impedita ad esempio la celebrazione della messa

 

Si dirà che di qui alle “gesta folli” dell’assassinio di Giulia c’è una distanza abissale. La verità è che se non ci si libera di una certa cultura patriarcale che è una peculiarità secolare d’Italia, queste tragedie torneranno a ripetersi.

 

Non dobbiamo dimenticarci che tutti noi maschietti siamo stati “abitanti” per 9 mesi del corpo di una donna, siamo stati nutriti e cresciuti da lei. È ora di rimuovere certe idiozie che trasudano maschilismo becero. Basta con il pensiero “un uomo che ama molte donne è un play boy” ma se lo fa una donna, questa è una … Non è possibile questo!

Si può far sesso per “amore”, per “passione” o per “mestiere”, diceva De André. E questo devono poterlo fare anche le donne, senza essere oggetto di insulti o peggio.

 

Quanto è accaduto a Giulia non sarà purtroppo, con ogni probabilità, l’ultimo episodio di femminicidio. C’è da crederlo, nostro malgrado. Viene voglia di parafrasare la celebre espressione di un film di alcuni anni fa “Ghost”: l’amore che Giulia aveva dentro se stessa, le donne in ogni angolo delle strade di questa città lo porteranno con sé.

 

Ciao Giulia, 

M49

È vietata la tortura: il XIX Rapporto di Antigone sulle condizioni di detenzione

ALESSIA

Ogni anno l’associazione Antigone raccoglie il frutto del suo prezioso lavoro nel Rapporto sulle condizioni di detenzione che delinea la situazione delle persone ristrette nelle Carceri d’Italia e apre a più ampie considerazioni e riflessioni sulle tematiche che maggiormente incidono sulla vita di chi sta dentro. Il diciannovesimo Rapporto di Antigone, come si evince dall’imperativo che fa da titolo “è vietata la tortura” reca tra gli approfondimenti il focus sul reato di tortura, la quale esistenza è stata recentemente messa in discussione. 

 

«Chiunque, con violenze o minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà, cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza, ovvero che si trovi in condizioni di minorata difesa, è punito con la pena della reclusione da quattro a dieci anni se il fatto è commesso mediante più condotte ovvero se comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona». 

 

Con l’articolo 613 bis è stato introdotto nel codice penale italiano il reato di tortura. Così, dal 14 luglio 2017 l’associazione Antigone ha ricevuto numerose denunce da parte di persone detenute che hanno dichiarato di essere state vittime di azioni di violenza.  

Come riportato nel Rapporto di Antigone, prima di questa data, il nostro ordinamento non contemplava neanche la parola “tortura”, per l’utilizzo della quale l’associazione stessa si è battuta a lungo: non possiamo chiamarle botte, percosse o minacce, è tortura. Tortura che per definizione dell’attuale codice penale consiste in tutta quella serie di azioni che producono una profonda sofferenza fisica e/o psichica alle persone già prive della propria libertà. Dunque violenze di ogni genere, intimidazioni continue e durature nel tempo considerate – a buon ragione – fattori di degrado per la dignità della persona che le subisce. 

 

Di fronte alle Nazioni Unite, nel 2010 “al vaglio dello Human Rights Council” l’Italia si opponeva all’istituzione del reato di tortura per quelle stesse motivazioni che alcuni oggi tentano ancora di proporre: «la legislazione italiana ha disposto misure sanzionatorie a fronte di tutte le condotte che possono ricadere nella definizione di tortura (…). Pertanto, la tortura è punita anche se essa non costituisce un particolare tipo di reato ai sensi del codice penale italiano». Solo due anni più tardi, è stata la mano di un giudice a riaprire la ferita. 

 

Nel 2012, durante un processo seguito dall’associazione Antigone due persone ristrette nel carcere di Asti denunciavano di essere stati vittime di gravi atti di tortura. 

«I fatti avrebbero potuto agevolmente qualificarsi come tortura (ma) in Italia non è prevista alcuna fattispecie penale che punisca coloro che pongono in essere comportamenti che (universalmente) costituiscono il concetto di tortura». Quel “ma” ha un peso così importante. Pesa ancora oggi, se si pensa a tutte quelle persone che prima del 2017 non avevano alcun potere di fronte alle azioni di violenza prolungate nel tempo dai propri carnefici i quali gesti, seppure accusati, non sarebbero stati riconosciuti dalla legge come atti di tortura. Quelle azioni di tormento, ad oggi penalmente punibili, potrebbero tornare ad essere “legittimate” perché, qualcuno ha detto, la legge sul reato di tortura impedirebbe agli agenti di fare il loro mestiere… quello di infliggere supplizi?

La sentenza del 2012 e le parole del giudice hanno inevitabilmente fatto luce sulla mancanza di strumenti giuridici per rispondere alla tortura e ha richiamato l’attenzione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, grazie al cui necessario intervento dopo cinque anni è stato introdotto l’articolo di cui sopra.  

 

«Un testo non perfetto, ma che permette oggi di pronunciare quella parola nelle aule di tribunale. Tornare indietro non si può, come fortemente abbiamo voluto sottolineare con il titolo del presente Rapporto» – c’è scritto nel Rapporto di Antigone.

Non si può tornare indietro, sarebbe contro ogni principio e senso di umanità, ingiustamente scorretto nei confronti delle persone che nonostante siano recluse per aver commesso reati, restano persone appunto.

D’altronde, concordiamo con  Zerocalcare: i principi non vanno a simpatia.

 

Un borghese piccolo piccolo

Il seguente articolo, redatto dal nostro ricercatore spossato, famelico e instancabile sognatore di un mondo senza pregiudizi e diseguaglianze, ruota attorno al tema del giovane borghese: dal titolo di un film degli ultimi anni Settanta, diretto da Mario Monicelli e tratto dall’omonimo romanzo di Vincenzo Cerami. Il film sembra rappresentare una resa incondizionata alla trasformazione della società, riflessa nella figura del Vivaldi. 
Monicelli, secondo il critico cinematografico Gian Piero Brunetta intende affermare l’«irrappresentabilità degli italiani, per perdita irreversibile di tutti i caratteri positivi».
LE PAROLE DI L

“Pensa a te Mario, pensa solo a te figlio mio. Per noi gli altri non esistono. L’ha detto uno che c’aveva due palle così”. 

Sono parole di Alberto Sordi in veste di Giovanni Vivaldi che parlava a suo figlio. Un grandissimo ed indimenticabile film del 1977. Quel personaggio, Giovanni Vivaldi è attualissimo, ci riporta al “familismo patologico” di un certo recente populismo. Un “familismo” che nel suo involucro populista non cura le ingiustizie sociali, ma le amplifica rischiando di farle “esplodere”. 

 

È successo 100 anni fa in Italia e negli anni ‘30 in Germania. C’è una preoccupante onda che si sta estendendo in tutta Europa. Non c’è “chiave” di lettura migliore per interpretare quanto si sta verificando. 

 

Negli ultimi decenni c’è stata una globalizzazione distorta dai mercati internazionali che ha finito con l’aumentare dei conflitti sociali creando nella “piccola borghesia”, nei giovani “Vivaldi” ansie e paure su temi sociali, economici e identitari.

 

Il giovane “Vivaldi” del XXI secolo di memoria “sordiana” chiede certezze, leader dalla postura feroce. Accetta e sostiene, ma non lo sa ancora, la retorica e la demagogia che gli viene malignamente inculcata.

“Il borghese piccolo piccolo” vive nel familismo più feroce, vede nella “difesa etnica” dei confini, dei muri e di quelli ideologici qualcosa di “salvifico”.

 

Il giovane “Vivaldi” del XXI secolo disprezza gli ultimi, gli emarginati, i profughi, i diversi, gli omosessuali. Vede in essi la causa del suo malessere. Quando il “borghese piccolo piccolo” non crede più a niente, ecco che finisce di credere a tutto. Anche a queste oscenità, a questi luoghi comuni. 

 

“Ma noi dobbiamo vivere e sopravvivere senza perderci d’animo mai!” –  sono d’accordo con te, Vasco. 

M49 (L’orso) 

Alla fine della fine – La crisi climatica secondo L

IL NOSTRO “RICERCATORE SPOSSATO” COMMENTA I TRAGICI EVENTI CHE STANNO VIVENDO LE PERSONE CHE ABITANO IN EMILIA ROMAGNA E LA CRISI CLIMATICA CHE  TROPPO SPESSO VIENE IGNORATA E SOTTOVALUTATA, PER PRIMA COSA NON CHIAMANDOLA CON IL SUO NOME.
LE PAROLE DI L

Vi è stato un gran parlare in questi mesi di ragazzi delinquenti che sporcavano i muri dei palazzi di potere con vernice lavabile. Erano e sono ragazzi che sia pure con “modalità discutibili” hanno voluto gettare un grido di  allarme sulla crisi ambientale in atto, sulla devastazione del nostro Pianeta.  Li hanno “demoralizzati” questi ragazzi, creando un “humus” favorevole a chi vorrebbe o potrebbe (già accade) considerarli addirittura criminali

Ognuno vede la realtà attraverso i propri pregiudizi, ma va bene così …

Che dico? Va male così!

Questa “glassa” demagogica e populista è vomitevole. 

Recentemente c’è stato anche chi ha ipotizzato nei compiti di alcuni esponenti di Fridays for Future “associazione a delinquere”. Siamo alla follia.

 

Le piogge tropicali e i fiumi che rompono gli argini in Emilia Romagna, i morti e le oltre 10.000 persone sfollate e senza più una casa sono l’evidenza della crisi climatica di cui si dovrebbe tener conto. Lasceremo alle generazioni future un Pianeta devastato. 

Non si capisce che le frasi di circostanza proferite in questi giorni non bastano, senza il coraggio di porre fine ai combustibili fossili. Non si capisce che alla fine della fine, c’è soltanto la fine. “E a culo tutto il resto” direbbe Guccini, nato da quelle parti.

 

Questi ragazzi che sporcano i muri e i monumenti sono inascoltati, protestano nell’indifferenza. Lo scorrere implacabile del tempo renderà più chiara la situazione, in tutta la sua drammaticità. Parafrasando Gramsci, è giusto dire che è odiosa questa indifferenza.

Ascoltiamoli!

 

Firmato, M49 (l’orso)

 

Cancelli rossi – Primi passi in carcere

Alessia

Oggi entro in carcere, mi sveglio con la nausea come quando ho un esame. 

Ho l’ansia, è chiaro. Sarò in grado? 

Gli operatori della cooperativa ci illustrano le regole dell’abitare lo spazio del carcere e della relazione con le persone ristrette e gli agenti. Tutto quello che si osserva, si ascolta e accade deve essere considerato in base al contesto. Ognuno sì, ha una sua storia di vita ma una traccia comune esiste: sono tutti uomini privati della propria libertà.

 

Arriviamo. Noto subito il filo spinato e mi chiedo come non si possa pensare ai campi di concentramento. Due cartoncini appesi dicono “Non è una discarica”, sorrido consapevole del triste destino dell’ecosistema e di come il termine discarica associato al carcere possa calzare; sembrano scritte “di protesta” che non si limitano soltanto ad evidenziare la mancanza di un’educazione al rispetto dell’ambiente della gente oltre la rete.

 

Il muro grigio mi ricorda il Carcere di *** dove sono stata “in visita” con la scuola al liceo.  Sono pronta. Giriamo con la macchina per vedere le altre sezioni da fuori, è immenso.

Poi andiamo verso la sezione del carcere dove dobbiamo entrare: il cancello rosso mette tranquillità, quasi non sembra un carcere e fuori c’è anche un bar dove prendiamo il caffè.

Di fronte all’alto cancello penso “e mo’ come entriamo?” 

Giustamente c’è un citofono, la voce che risponde a Francesco è severa, autoritaria, quasi scocciata. 

A: “Sì?”

F: “Siamo della cooperativa PID”

A: “Entrate”

Si apre la porticina del grande cancello e all’ingresso c’è una sorta di portineria dove si trova l’agente che ci ha aperto.

Mi stampo un sorriso sulla faccia e consegniamo i documenti, dopo esser stati controllati, passiamo sotto il metal detector, apriamo un’altra porta – penso “quante porte!” –  e ci ritroviamo in un cortile che sembra quello di un palazzo: c’è anche un piccolo laghetto con dei pesci che per la scarsità dell’acqua fanno fatica a nuotare (sembra una pozzanghera) e due gatti che dormono al sole accanto al laghetto-pozzanghera. Entriamo, l’ambiente sembra accogliente nonostante le sbarre siano la prima cosa che saltano all’occhio, rosse.

 

Seguiamo Livia e Francesco lungo un corridoio verso l’ufficio dell’educatrice. 

Dall’altoparlante, la voce esce robotizzata ed è alienante, io devo concentrarmi molto per capire cosa dice: “Tutti giù, corso di Arte terapia al teatro”. 

Le sbarre si aprono automaticamente, passiamo velocemente attraverso due “cancelli” e noto subito gli oggetti nel sottoscala: giornali, giochi da bambini e anche biciclette. Francesco mi dice “Per i colloqui con i figli”. 

 

Con l’educatrice arriviamo nella stanza adibita a teatro, qui è dove faremo il corso. Io e Monica iniziamo a sistemare le sedie in cerchio , poi arriva qualche persona che si presenta e viene ad aiutarci. La stanza è bianca con dei disegni sulle pareti, sul palchetto ci sono ancora materiali scenografici di uno spettacolo appena passato, una barca di cartone. 

Ma non c’è la luce del sole, sulla finestra è attaccato una sorta di quadrato nero. 

Non ne riesco a capire il motivo.

Ci sediamo e iniziamo a dialogare in modo amichevole con le persone presenti per la presentazione del corso al quale poi hanno deciso di partecipare. Quando arrivano tutti Monica ci guarda e ci dice “ci presentiamo? Facciamo un giro dei nomi?”.

 

Mentre Monica spiega il corso, io osservo: guardo lei e gli altri; chi ascolta attentamente, chi sembra stia dormendo; chi è seduto scomposto, chi si guarda le scarpe; chi si guarda intorno, od osserva noi.

Le parole “Arte terapia” incuriosiscono. Ad alcuni fanno pensare alle “goccette”. 

 

Dopo poco andiamo via: ci rivediamo mercoledì, dopo che avranno fatto la domandina per accedere al corso. 

Il fatto che il cancello si apre non appena siamo di fronte ad esso, prima che qualcuno di noi chiami l’agente, mi ricorda di essere costantemente osservata. Ovvio, siamo in carcere.

Un passo indientro

LE PAROLE DI L
Con l’emergenza sanitaria Covid-19 le persone semilibere hanno avuto la possibilità di usufruire della licenza premio straordinaria, gli è stato permesso di stare fuori sia giorno che notte anche se con delle misure di controllo; questa occasione ha rappresentato il concretarsi di un principio di vita “normale”. Per circa due anni e mezzo, queste persone hanno vissuto fuori, ma nel momento in cui – con la chiusura dell’anno 2022 – non è stata rinnovata la  misura contenuta nel decreto Cura Italia sono tornati nella loro cella. Come L, sono in 700 i detenuti che sono tornati in carcere dopo aver vissuto fuori negli anni della pandemia. Questa è la sua testimonianza del passo indietro che sente di aver dovuto compiere.

Quando parlo di questa cosa mi viene la pelle d’oca. Non ho pianto per vergogna, avevo un magone dentro. La sera del 31 dicembre alle 20:00, ho dovuto prendere la valigia qui alla struttura dove stavo da 2 anni e mezzo e tornare in carcere. Con la moto vedevo passare la gente che andava a mangiare, a festeggiare e io che tornavo a dormire lì.

Un’esperienza così non l’ho mai fatta. Io sono stato in carcere tanti anni, ma tornare lì dopo due anni e mezzo non potete capire quanto mi ha fatto male. 

Ma sapete perché? Perché io in questi due anni e mezzo mi sono comportato così bene, non ho fatto mai nulla di male: lavoro e casa. Ho fatto un passo indietro così, mi hanno fatto fare un passo indietro e non lo capisco perché io mi comporto bene e invece di essere trattato meglio, mi ritrovo a passare di nuovo le notti in carcere?

 

La prima notta non ho dormito. Non mi trovavo più in quello spazio, già da quando hanno iniziato a chiudere il blindato, io mi sono sentito proprio strano. Mi è sembrato come se fossi entrato in carcere per la prima volta, tentavo di dormire ma non ci riuscivo. Un’esperienza bruttissima, mi è stato detto “Dai, dopo tanti anni che ci hai passato, mo’ per una notte è possibile che stai così?”. Sì, perché io ero convinto fosse finita. Come me, tutte le persone che sono rientrate il 31 dicembre scorso. Ne ho incontrato uno che piangeva al rientro, ho cercato di consolarlo ma ero come lui in quel momento dentro. 

Volevo piangere più di lui.

Ormai sono passati quattro mesi, per fortuna in qualche modo mi sono riabituato

So’ tornato. Ho incontrato molte persone dentro che conoscevo da anni, anzi sono capitato nella stessa cella dove ero prima! Non voglio ammorbarvi con questa brutta storia, ma seriamente penso che se a oggi mi chiedessero se volessi ottenere una nuova proroga per passare più tempo fuori (un altro decreto emergenziale) direi di no. Perché ho paura, se poi dovessi tornare nuovamente? Non so se riuscirei a reggere, non è facile. Un’altra botta di queste, psicologicamente mi ammazza

 

Ora ho avuto la notizia più bella che mi hanno fissato l’udienza per ottenere l’affidamento a maggio. E sono tornato dalla mia famiglia in permesso, dopo una vita! 

Come prima cosa sono andato a trovare tutte le belle persone che conoscevo e che quasi non riconoscevo più perché molti me li ricordavo bambini. 

Due giorni che non ho dormito nulla, a casa mia c’erano sempre persone, una tavola infinita. 

Ho conosciuto i miei nipotini, una gioia immensa.

25 Aprile: Anniversario della Liberazione d’Italia

LE PAROLE DI B

L’anniversario della Liberazione è una festa nazionale della nostra Repubblica, di cui quest’anno ricorre il 78° anniversario. Ma… c’è un “ma”! Però… c’è un “però”! E potremmo andare avanti così all’infinito, ma “le parole sono stanche” (Giorgia, la cantante!) “anche quando sono importanti” (Nanni Moretti).

Questo 25 aprile infatti è uno dei più controversi e discussi mai celebrati. Da mesi ormai, sgomenti ed increduli, assistiamo ad una serie di “intemperanze linguistiche”, infausti “tic lessicali” ed inciampi espressivi da parte di alcune alte cariche dello Stato Italiano, inimmaginabili soltanto qualche anno fa.
Il nostalgismo di un tempo si fermava ai “treni che arrivavano sempre in orario”, alle fantomatiche pensioni di anzianità concesse da Mussolini (grande bufala storica, in quanto il primo sistema previdenziale in Italia risale al 1895, istituito dal governo Crispi), alla bonifica delle paludi (in realtà in buona parte effettuate con i fondi del “piano Marshall” nel 1948-1952 e poi della Cassa del Mezzogiorno).

A preoccuparmi non sono più queste ricostruzioni fasulle e posticce tanto care ai nostalgici di un tempo, ma ciò che mi raggela il cuore e mi fa rabbrividire è la riproposizione nel 21° secolo di concetti per me aberranti come quello della cosiddetta “sostituzione etnica”, concetti relegati nelle cantine del nostro inconscio, rimasugli ideologici riemersi dallo scantinato di una certa destra, sotto forma di sostituzione etnica. Ma noi già viviamo in una società multietnica! Londra, Parigi, Amsterdam, Milano, Roma sono già città multietniche, dove lingue e culture diverse si incontrano e, quando questo non avviene, se ne pagano le conseguenze in termini di emarginazione, intolleranza e criminalità. 

Non ci sono muri e confini ideologici che tengano, quello della sostituzione etnica è un tema riportato nel “Mein Kampf” di Hitler (1925), fascismo e nazismo ed i reduci consapevoli o inconsapevoli di quelle ideologie, continuano a brandire un’idea di Nazione, e di identità, odiosa. Lo fanno in modo perfido e subdolo, reclamando addirittura la “purezza” non soltanto etnica ma addirittura linguistica. Ignorano che il concetto di identità nazionale che rivendicano in realtà non esiste più, in quanto l’identità oggi è frutto di incontro di culture e lingue diverse, in una ricomposizione che vede la contaminazione come elemento fondante.

Il 25 aprile deve essere la festa dei Diritti, che appartengono a tutti/e, senza distinzioni di alcun tipo come ricorda la nostra Costituzione. Non possiamo rimettere in discussione questo, se diamo spazio ai peggiori sovranismi, alle più feroci posture ideologiche, rischiamo un brusco ritorno a quello stato etico che pensavamo sostituito dallo stato di diritto.

Non dobbiamo mai più farci abbagliare dal nazionalismo, ma stare dalla parte degli ultimi, degli emarginati, dei detenuti (di cui, ahimè, faccio parte), ribadendo il valore fondamentale dell’antifascismo.

L’antifascismo è solidarietà, eguaglianza, libertà di scelte individuali, attivismo sociale, parità di genere, abbattimento di muri e pregiudizi. 

Il 25 aprile mi piace viverlo così: ribadendo l’antifascismo e un mondo senza muri né confini.

 

21 Aprile: il Natale di Roma raccontato da N

N è un appassionato di storia, così abbiamo pensato che per la giornata di oggi si poteva approfondire un po’ il discorso sul Natale di Roma: la città eterna compie 2776 anni, ma quando e da cosa origina l’evento?
LE PAROLE DI N

Il Natale di Roma si celebra il 21 aprile perchè è una data simbolica: la leggenda vuole che Roma sia stata fondata da Romolo e Remo. È stata sfruttata dal regime fascista che si considerava continuatore ed espressione della politica imperiale romana, ha avuto quindi la sua importanza ed è stata celebrata con feste, manifestazioni eccetera su tutto il territorio nazionale. Ad oggi è ritornata ad avere importanza maggiormente nella sua dimensione territoriale. La concezione imperialistica del fascismo si lega a quella romana, con la missione di “portare la civiltà nel mondo”.

Ed essenzialmente questa era la concezione mussoliniana dell’impero.

Il 21 aprile tra mito e realtà

Quella del 21 aprile è una data che appartiene al mito, perché storicamente non c’è testimonianza della fondazione dell’urbe nel giorno specifico. Simbolicamente ha assunto la sua importanza in ambito politico e principalmente durante il ventennio, come abbiamo detto. In era moderna, con una rivisitazione della storia romana che mette al centro l’Italia e Roma come continuatori dell’opera imperiale nel Mediterrraneo.

Scontro tra fratelli, il potere

Non è nuova questa contrapposizione tra fratelli.

Alessia – Caino e Abele!
N – Vabbè, senza scomodare la Bibbia.

La contrapposizione rappresenta le due anime che fondamentalmente si vengono a scontrare in ambito politico. Anche se la politica è intesa diversamente a quel tempo, non aveva il significato moderno. La contrapposizione che si viene a costruire concerne l’assetto futuro che questa città avrebbe dovuto avere.

Poi è parte della tradizione romana: il pomerium, il confine, il solco. Apparteneva già alla tradizione latina. Qualsiasi città che veniva fondata dai romani osservava le stesse regole, regole che sono fondamentalmente di matrice religiosa. Tanto è vero che Romolo era anche il massimo referente in ambito religioso della comunità: custode del mores, i costumi antichi e le credenze religiose. Il re era il punto di riferimento all’interno di una comunità.

Storicamente la nascita di Roma

Roma dal punto di vista storico sorge con una serie di villaggi che assumono una propria dimensione, non certo cittadina. Parlare di città facendo dei parallelismi con la polis greca è un po’ una forzatura secondo me.

Ci sono questi villaggi, questi pagus, sui mitici sette colli che affacciano sul Tevere che si uniscono sotto la guida di un unico capo, che la tradizione appunto vuole far risalire a Romolo, si coalizzano tra di loro e inizia il percorso che poi porta alla formazione della Roma Tardo Antica. Il re era il garante di questa unione di genti. Il 21 aprile è una data che simbolicamente rappresenta questa unione, ma appunto resta un simbolo perché questo processo è stato lento, non c’è una data precisa.

La civiltà romana al di là di come la conosciamo noi ha la sua valenza per quello che riguarda il diritto. I diritti del mondo hanno una matrice comune che deriva da quello romano. I principi del diritto romano sono gli stessi che determinano il vivere civile.

La giustizia consiste nella costante e perpetua volontà di attribuire a ciascuno il suo diritto. Le regole del diritto sono queste: vivere onestamente, non recare danno ad altri. attribuire a ciascuno il suo.

Ulpiano, Digesto, 1.1.10pr

Uso o abuso? Gli psicofarmaci in carcere

L’utilizzo quasi regolamentare degli psicofarmaci in carcere è una verità di cui l’opinione pubblica è ormai consapevole, un tema affrontato dai media più volte dal quale emerge una realtà che ci lascia perplessi nella sua apparente immutabilità.

«C’è chi il carcere se lo fa dormendo»

Una frase che ho sentito dire spesso, sia dagli educatori che dalle stesse persone detenute, autori del nostro blog. 

«Una terapia con l’arte, invece che con le pillole!» 

Ha affermato L. durante la presentazione del corso di Arte Terapia che stiamo svolgendo all’interno della Terza Casa Circondariale di Rebibbia

«Questo servirebbe pure a noi, invece che gli pissicofarmarci. Io non li ho mai presi, ma veramente c’è gente che ci campa così dentro» 

Ha sostenuto S., commentando un incontro di antropologia medica, in cui si parlava dell’importanza anche di una carezza in un percorso di cura

 

Queste parole ci esprimono nel modo più semplice e immediato una consapevolezza generalizzata della normalizzazione dello psicofarmaco come strumento per affrontare il dolore del carcere.

Un dolore silenzioso che quasi non si vede e che si preferisce far tacere, ingoiando un antidoto che anestetizza e che insieme alla dipendenza assopisce e rende inermi: deboli di comunicare, scegliere e persino pensare.

Approfittando della recente lettura de “Il carcere invisibile. Etnografia dei saperi medici e psichiatrici nell’arcipelago carcerario.” di Luca Sterchele, ho deciso di dedicare al tema una breve e umile riflessione, allo scopo di portare alla luce una realtà generatrice di disagio che oltre lo sdegno immediato dei molti, ci lascia ancora una volta una sensazione di impotenza.

Quello che viene evidenziato dal sociologo è prima di tutto una diffusa sensazione “di allarme” per cui, in seguito al superamento degli OPG (Ospedali Psichiatrici Giudiziari) con la legge 81 del 2014 e alla conseguente istituzione delle strutture REMS (Residenze per l’Esecuzione della Misura di Sicurezza), sembra esserci nelle carceri italiane un aumento dei detenuti “psichiatrici”. Come se il carcere fosse diventato il nuovo manicomio

Per alcuni, lo stato di allarme risulta essere confermato dall’elevato numero degli psicofarmaci consumati in carcere ma come sottolineato all’interno del testo succitato, l’utilizzo dello psicofarmaco sembrerebbe rientrare anche tra le tecniche di governo del personale penitenziario al fine di tenere la popolazione detenuta in una condizione di calma e tranquillità, per non avere situazioni spiacevoli come reazioni violente o confusionarie. 

La ricerca di Sterchele suggerisce, attraverso la narrazione frutto dell’osservazione partecipante, l’esistenza di una sorta di regolazione interna della prescrizione dei farmaci a fronte della massiccia richiesta da parte dei detenuti. Alla carenza di personale, di spazi e misure per le “persone psichiatriche” recluse all’interno delle varie Case Circondariali italiane, si aggiunge il malessere fisico e psicologico degli stessi detenuti, i quali richiedono appunto qualcosa che “indebolisca” la sofferenza del vissuto ristretto (concernente la sfera relazionale, le vicende giudiziarie che li riguardano o semplicemente gli eventi della vita quotidiana) e di conseguenza le «capacità del soggetto sofferente di far fronte in maniera efficace a queste stesse contingenze».

Sembra che uno dei principali motivi per cui vengono richiesti gli psicofarmaci sia l’insonnia, infatti negli scaffali della farmacia di una delle strutture penitenziarie osservate dal sociologo nel 2018 vi sono principalmente ansiolitici con effetti calmanti: Valium, Xanax, Lormetazepam (Minias), Lorazepam (EM) ecc. Il carcere come luogo insonne è in realtà raccontato anche dai nostri autori che spesso, parlando delle notti in cella, mi hanno confermato che non si dorme

«Ad occhio – spiega la caporeparto al ricercatore – vengono consumati circa 120 flaconi di Diazepam a settimana, e, sempre ad occhio, sui 30/40 di EM. Al momento sono presenti circa 500 detenuti». Oltre questi dati approssimativi, ci si deve rendere conto che la questione psichiatrica in carcere è sicuramente molto più complessa e frammentata di quanto si possa credere. Da un lato, l’assenza di misure effettive per le persone che hanno patologie o che presentano gravi dipendenze dalle droghe già “da fuori”; dall’altro l’abitudine di assopire e rendere più facilmente governabile la popolazione ristretta.

 

Il discorso è senza dubbio da approfondire, oltre che con la lettura del libro qui brevemente illustrato, anche attraverso future narrazioni che tenteremo di formulare soprattutto per quello che concerne una sorta di razzismo patologizzante per cui si tende a prescrivere psicofarmaci più facilmente alle persone straniere recluse, a volte solo a causa di una difficoltà di comunicazione che si traduce in un banale “questi sono tutti matti”.  

ALESSIA

Il mio percorso in carcere

Partendo da un discorso generale sul rapporto di G con il mondo carcerario per intero, nasce un approfondimento sulla sua esperienza personale che vuole stimolare una riflessione sul valore che ha l’atteggiamento pregiudiziale nei confronti dei detenuti e delle detenute, in relazione all’inclusione sociale degli stessi. 

LE PAROLE DI G

Articolo 1 – Ordinamento Penitenziario

“Il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona.

Il trattamento è improntato ad assoluta imparzialità, senza discriminazioni in ordine a nazionalità, razza e condizioni economiche e sociali, a opinioni politiche e a credenze religiose.

Negli istituti devono essere mantenuti l’ordine e la disciplina. Non possono essere adottate restrizioni non giustificabili con le esigenze predette o, nei confronti degli imputati, non indispensabili ai fini giudiziari.

I detenuti e gli internati sono chiamati o indicati con il loro nome.

Il trattamento degli imputati deve essere rigorosamente informato al principio che essi non sono considerati colpevoli sino alla condanna definitiva.

Nei confronti dei condannati e degli internati deve essere attuato un trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso i contatti con l’ambiente esterno, al reinserimento sociale degli stessi. Il trattamento è attuato secondo un criterio di individualizzazione in rapporto alle specifiche condizioni dei soggetti.”

Il tempo per trasferire lo stipendio

G è in semilibertà, ha un lavoro e percepisce lo stipendio come ogni persona che svolge attività lavorativa. Come riceve il denaro un detenuto che lavora? Una cosa poco nota è che ogni detenuto ha diritto ad avere un conto all’interno dello stesso Istituto Penitenziario: per chi è assunto da terzi – pubblici o privati –  l’iter prevede che il pagamento dello stipendio passi per l’Istituto, il quale si occupa di girare successivamente il bonifico sul conto personale del detenuto. 

È possibile che lo stipendio arriva l’8 del mese all’Istituto e a me viene girato il 24? È possibile che mia moglie con la mia famiglia non ricevono soldi in tutto questo tempo? 

Io capisco che è l’iter ma qui si tratta di un bisogno vero, quanto ci vuole per girare la mensilità? Più di venti giorni? E poi il problema è che se provi a chiamare, con tutta la calma e il rispetto possibile loro ti rispondono pure male. Ti trattano come se li scocciassi, come se a me fa piacere stare attaccato al telefono per ricevere quello che è mio e mi guadagno

Loro aspettano che tu sbrocchi e parti con il cervello, questa è la sensazione che ti danno: aspettano per farti rapporto e rispedirti in carcere. Non voglio generalizzare troppo, perché non tutti sono così, non tutti abusano così della loro posizione, fortunatamente. I tempi sono lunghi per tutto, mica solo per ricevere lo stipendio, anche se questo mi preme di più perchè chiaramente va a discapito della mia famiglia. 

Il tempo per ottenere l’affidamento

Il 31 dicembre sono rientrato in carcere e per questo avevo fatto richiesta di Affidamento in prova ai servizi sociali prima (Capo VI dell’Ordinamento Penitenziario – Misure alternative alla detenzione e remissione del debito – Art. 47).

In questo modo dalla struttura in cui ero da circa due anni e mezzo, non sarei più tornato in carcere e avrei potuto finire gli ultimi anni di pena fuori, magari anche a casa con la mia famiglia. Avere la possibilità di non tornare più dentro rappresentava una gioia grande, il fatto che ci sono tornato psicologicamente mi uccide.

Il problema qual è? Anche qui c’è stato bisogno di un tempo infinito per avere una risposta e tanti, tantissimi solleciti al Tribunale di Sorveglianza. Di fatto si tratta di una firma, nel mio caso, perchè i requisiti per ottenere la misura ce li ho tutti però sembra che non ci sia nessuno dall’altra parte a metterla questa firma o anche a non metterla

Ad oggi ho una data per l’udienza, a maggio, dopo lunghi mesi di attesa.

Instaurare una relazione con i detenuti 

Quando si parla con una persona, soprattutto in vista di una rieducazione, devi essere gentile, paziente; non aggressivo. È normale che non deve essere così, perché immaginate di avere un cane chiuso in una gabbia – forse l’esempio è un po’ brutto però è così – se lo trattate male questo cane, non lo accarezzate, gli urlate e non gli date da mangiare, quando esce vi abbaia, vi morde: lo stesso succede per il detenuto.

Le persone che lavorano in carcere non trovano il tempo per ascoltarti, non vogliono o non possono: noi abbiamo mancanza di affetto e nessuno ci fa sentire ascoltati.

Quando è morto mio padre, ero nella mia cella e stavo nervoso, arrabbiato, frustrato. 

Stavo combinando un bel casino, però è arrivato un agente molto buono: una persona veramente umana che mi ha parlato, riferendosi a me per nome invece che con il mio cognome. Mi ha mostrato comprensione per il momento difficile che stavo affrontando e mi ha dato modo di ragionare sul comportamento che stavo avendo, che andava solo a mio discapito. Stavo sempre chiuso, non è che abbia fatto qualcosa di particolare: semplicemente una parola mi ha calmato e mi ha dato quello di cui avevo bisogno – calore ed affetto, infatti poi mi ricordo che sono crollato a dormire. 

In carcere le persone vivono per una lettera

Una lettera, un foglio di carta: la gente vive solo per quello in carcere, lo sapete? 

Fuori non si dà troppa importanza a certe cose.

Quando passa l’addetto alla posta a consegnare le lettere, le persone cambiano umore: dacché stanno tutti a muso lungo, a braccia conserte nelle celle a che si aprono dalla gioia, alla scoperta di cose nuove.

Quando io ricevevo la lettera, ad esempio di mia moglie, sapete che facevo?

Mi organizzavo come se fosse l’impegno più importante della giornata – il che era così effettivamente – mi preparavo la postazione e iniziavo a leggere molto molto lentamente: non volevo che finisse.  Finivo di leggere, la posavo. Dopo un’ora ricominciavo a leggerla. 

Abbiamo sbagliato e io ne sono consapevole, è giusto che paghiamo ma con dignità e umanità. 

Noi per l’opinione pubblica siamo lo scarto degli scarti.

Ma le statistiche parlano chiaro, le persone detenute che hanno avuto l’opportunità di lavorare non hanno più commesso reati. Quindi di che parliamo?

In questo modo tu vai a diminuire la delinquenza e a ricostruire una società diversa, migliore.

Gli educatori in carcere ci sono? 

Dove stavo io c’è solo un’educatrice per un carcere intero! Una sola che deve gestire tantissimi detenuti e molti anche con problematiche serie, come la tossicodipendenza. Come fa? 

Un giorno parlando, e le chiesi: “Dottorè ma come fa adesso con tutte queste persone? Le hanno lasciato un bel carico di lavoro!”. Lei mi rispose: “Dove arrivo metto il punto!”.

E chi paga per questo? I detenuti.

Giustamente lei non può fare altrimenti, quindi il problema è a monte: c’è bisogno di più educatori ed educatrici!

La tecnologia per gli over 60

Osservando insieme i risultati dello studio di Pro Senectute riguardo l’utilizzo di internet e della tecnologia per le persone over 60, Digital Seniors, nasce una riflessione con E che è l’ospite più anziano incontrato durante il mio percorso di tirocinio e allo stesso tempo quello più competente nel campo tecnologico.

LE PAROLE DI E

“Dal 2010 c’è stato addirittura un aumento del 50% delle persone anziane che si connettono in rete. […] Il crescente interesse per le tecnologie digitali da parte delle persone anziane si manifesta anche attraverso la partecipazione a corsi di computer, tablet e smartphone organizzati dagli enti che si occupano di anziani. Si tratta di avvicinare questi ultimi a un mondo, quello dei dispositivi digitali, in cui si possono creare nuove opportunità di comunicazione e competenze per l’accesso alle informazioni e ai servizi online.”

Tu cosa ne pensi?

L’elettronica è molto importante, c’è sicuramente da tener conto di una cosa: oggi la tecnologia è diventata parte della nostra vita e vuoi o non vuoi dobbiamo abituarci, è un passaggio obbligatorio di questa fase e diventa sempre più un imperativo.

Non è tanto una questione di età ma di obbligo, è un qualcosa di imposto dal contesto contemporaneo, dalla nostra quotidianità.  

Guardando la tecnologia dalla prospettiva della reclusione e dell’anzianità possiamo dire che è molto importante soprattutto perché aiuta  a mantenere sveglia la mente e a non vivere questa parte della vita in una condizione di apatia.

Si può cadere molto facilmente nell’apatia in carcere, ancora più facilmente quando si è anziani e questo è molto negativo. Ed è per questo motivo che la tecnologia per gli over 60 diventa un aiuto psicologico importante; può portare le persone a vedere le cose in modo diverso, ad allargare gli orizzonti che passivamente non guarderebbero. 

Questo aiuto però è contraddittorio, perché gli orizzonti possono essere molteplici e anche devianti. Deviante nel senso che se una persona non ha una consapevolezza salda ed equilibrata di se stesso e quello che vuole, per percepire in modo corretto l’informazione che riceve, può cadere nella possibilità di scegliere una direzione sbagliata piuttosto che un’altra.

Per questo si deve riuscire a costruire un’autonomia critica di pensiero e in questo internet può aiutare: sforza la mente. 

Cosa mi piace della tecnologia

Io ho iniziato da giovane ad interessarmi dell’elettronica, ho studiato questo perché mi è sempre piaciuto: l’elettricità, l’elettronica, la capacità di creare qualcosa da zero ti fa sentire reale, partecipe di quello che costruisci; l’informazione, la capacità di poter gestire un computer, essere padroni dell’informatica e in qualche modo dei tempi che corrono. Sono un radiotecnico elettricista specializzato con partita iva, ho lavorato in questo ambito per anni e quando posso lo faccio ancora. 

Quando ho iniziato esistevano ancora le radio a valvole! Questo è quello che più mi piace dell’elettronica, perché è un qualcosa in continuo sviluppo: quando pensi di aver imparato a conoscerla, già ti ha surclassato. Possiamo dire che è ancora giovane e in una fase di espansione, infatti è importante anche in ambito lavorativo. Tutto quanto oggi funziona attraverso il digitale, il consiglio che davo sempre ai miei figli era quello di studiare e lavorare in questo campo, dato che c’è una richiesta di lavoro importante nel mondo dell’elettronica.  

Il problema in questo senso è che manca la reale consapevolezza di ciò che si vuole, non solo oggi, capitava anche ai miei tempi. Oggi però c’è la possibilità di prendere tantissimi indirizzi differenti. Avere le idee chiare e sapere cosa si vuole fare è importantissimo ma allo stesso tempo bisogna guardare al mercato, a quello che richiede. Ci dobbiamo rendere conto che ormai in ogni lavoro che si vuole fare, c’è sempre un computer di mezzo

Pro e contro della digitalizzazione

Avete mai preso la metro? Io mi soffermo spesso a guardare le persone, non c’è una persona senza telefono in mano. Che significa questo? 

Noi diventiamo schiavi del telefonino e perdiamo la capacità di comunicare con l’altro. 

Facciamo un esempio molto semplice: io vivo a Milano, ho dei vicini. Li conosco? Mi interessa di conoscerli? No e molto probabilmente vale lo stesso per loro. La mia vita è veloce, frenetica. Appena metto piede fuori dalla porta di casa ho il telefono in mano, anzi, anche da dentro casa ho il mio cellulare con me. Parlo di comunicazione tra individui: con la digitalizzazione si creano nuove forme di comunicazione è vero, ma sono forme virtuali e non reali. Allora mi chiedo: è meglio una comunicazione reale o virtuale?

Anche nelle famiglie, è importante creare momenti di condivisione e riunione, ad esempio a tavola, senza telefono o televisore acceso. Se vogliamo guardare la cosa dal lato positivo, dobbiamo necessariamente guardare alla possibilità che ci dà la tecnologia di parlare anche con le persone che si trovano dall’altra parte del mondo.

Gli strumenti digitali poi sono molteplici come sappiamo.

Ad esempio, rispetto al telefono il computer è diverso: è principalmente un mezzo di lavoro, anche di comunicazione ma ha una funzione che non ti esula da quello che è il rapporto con gli altri. 

La condivisione dei momenti tramite i social, ad esempio, secondo me non ha alcun senso. Immaginate di andare in vacanza ad Atene e stare tutto il tempo a fare video per Facebook. Che senso ha? Solo per dire al mondo “io sono stato qui!”. Personalmente se faccio il video ai paesaggi e alle mille cose da vedere della città di Atene, lo mostro ai miei cari quando torno: e questo è il mio modo di pensare la condivisione.  Si perde troppo tempo a guardare video divertenti e inutili, sono distrazioni alienanti che ti fanno uscire fuori da te stesso e da quello che è la vita reale. Durante il lock down, è innegabile che lo smartphone sia stato utile perché ovviamente ha dato la possibilità alle persone di comunicare, quando tutti erano chiusi in casa.

Il telefono è uno strumento importantissimo ma non devo diventarne schiavo.

Per quanto riguarda invece la privacy di una persona, non possiamo non sapere che questa viene persa all’interno del circuito digitale: non si ha più diritto alla propria privacy e si vendono i propri dati al commercio. Questo, ad oggi, è inevitabile e tutti ne siamo consapevoli.

Il telefono è anche questo, una spia dei nostri movimenti che portiamo sempre con noi, ascolta e vede sempre – anche di notte. Avete mai ragionato sul fatto che ora non si può più togliere la batteria allo smartphone? 

In questo modo, il telefono non smette mai di lavorare e di fatto non può essere mai del tutto spento! Su questo c’è molto da ragionare.

E voi cosa ne pensate? 

Prendere la patente – riscoprire l’entusiasmo nelle azioni quotidiane

In uno dei primi incontri, G si mostra entusiasta come un bambino per la novità della patente: ha appena superato l’esame teorico dopo mesi di studio e ne è super orgoglioso.

  1. L’arresto – la questione dei documenti;
  2. Assente dalla vita per un po’ – la relazione con gli altri;
  3. Prendere la patente – il giorno dell’esame;

L’arresto – la questione dei documenti

Quando vieni arrestato ti tolgono tutto: pure i lacci delle scarpe. Nel momento in cui esci ti ridanno quello che avevi, ma dipende dai casi. Per esempio, a me la patente l’hanno bloccata perché la mia condanna non era una cosa semplicina. Quindi ho dovuto ricominciare da capo, ma prima di farlo ho dovuto fare tutte le carte e ripartire da zero: vita nuova, patente nuova.

In tanti hanno detto “ma quando se la prende la patente questo!”.

Perché effettivamente prendere la patente oggi è molto più difficile rispetto a quando la presi io. Quando sono andato a scuola guida, erano tutti ragazzi giovani e mi sentivo molto a disagio.

Assente dalla vita per un po’ – la relazione con gli altri

Solo una signora conosceva la mia situazione, a lezione mi mettevo sempre dietro e ascoltavo l’istruttore che però non sapeva il motivo per cui stavo prendendo la patente a quest’età. Infatti un giorno me l’ha chiesto e io gli ho risposto “per 18-19 anni sono stato assente dalla vita”. Fortunatamente è stato chiamato dalla suddetta signora che gli ha spiegato la situazione e gli ha detto di evitare di parlarne davanti a tutti, così ha fatto.

Mi sentivo molto  a disagio: non voglio che le persone, soprattutto ragazzi giovani, mi guardino con timore, io voglio essere una persona normale.

Poi con il tempo ho preso un po’ di confidenza, ero l’unico a fare sempre domande e infatti sono stato anche ripreso dai ragazzi che mi hanno detto che parlavo solo io!

Lì ci sono andato per imparare chiaramente e questo dovevo fare, se non capivo facevo domande, era importante per me.

Prendere la patente – il giorno dell’esame

Quando siamo andati a fare l’esame ero teso come non mai, che ansia! 

Mi ha accompagnato l’educatore e dopo neanche 5 minuti avevo già concluso. Ho combinato un po’ di casino dentro l’aula, perché non riuscivo ad accendere il computer e tutto ma nessuno voleva aiutarmi perché è vietato parlare, poi per fortuna una ragazza mi ha detto come dovevo fare. 

Tornato a Casa la sera mi chiama la scuola guida: tutti bocciati tranne me. Avevo imparato a memoria TUTTE le domande, ho fatto i quiz sul telefono per 4 mesi durante ogni momento libero che avevo:  a pausa pranzo a lavoro, sui mezzi, la sera prima di andare a dormire… sempre!  Con costanza e impegno ci sono riuscito ed è per me motivo di orgoglio. 

Sono felice di aver preso la patente perché mi sento sempre più vicino alla normalità della vita quotidiana.

LE PAROLE DI G

L’importanza del sostegno familiare in Carcere: la mia esperienza

La mia famiglia è molto numerosa, se guardiamo in grande. Io con mia moglie però abbiamo tre figli, di cui l’ultima che ha 20 anni è nata mentre io ero già in Carcere, per cui non l’ho vista crescere come avrei voluto. Ringraziando Dio mia moglie mi è sempre stata vicino e mi ha seguito passo dopo passo: ha mantenuto viva la mia presenza all’interno della famiglia.

Quello che mi ha portato avanti 20 anni in Carcere è stata proprio la mia famiglia, la forza più grande. Senza famiglia in carcere sei finito: penso a tutte quelle persone che si tolgono la vita, perché si sentono soli e abbandonati. Invece quando hai una famiglia che ti sostiene, fai i colloqui e ti carichi. 

Hai una speranza. 

  1. I colloqui familiari in Carcere;
  2. Quando esco vado subito dalla mia famiglia;
  3. La mia nuova vita.

I colloqui familiari in Carcere

Ogni 15 giorni avevo diritto a un colloquio. Quindi due volte al mese: uno lo facevo con mia moglie e mia figlia, l’altro con mia sorella. Anche la mia famiglia di appartenenza è stata fondamentale durante il mio percorso. Nonostante loro non siano mai stati d’accordo con le mie scelte di vita, mi hanno sempre seguito e mi sono sempre stati vicino in tutto.

All’inizio ho preso molti rapporti, non avevo accettato la mia condanna e quindi litigavo con tutti, soprattutto con gli agenti di Polizia Penitenziaria: il periodo più lungo che ho passato senza vedere la mia famiglia è stato di tre mesi. 

Sono stato tre mesi in isolamento in un Carcere in Sicilia, da dove volevo andare via, farmi spostare, proprio perchè troppo lontano da casa e mia moglie per venirmi a trovare si stancava tanto. Ho fatto  lo sciopero della fame per 15 giorni, perdendo 20 kg in un mese ma non ho ottenuto niente e per questo ho fatto un po’ di casino, così mi hanno chiuso in isolamento – dove sei solo tu e le pareti lisce

Piano piano mi sono fatto una ragione e ho iniziato a migliorare il mio comportamento, ottenendo anche il trasferimento. Ho girato un po’ di carceri: dalla Sicilia a Secondigliano, Napoli, Viterbo, Roma … 

Quando esco vado subito dalla mia famiglia

La mia condanna è di 29 anni e in pratica io la sto scontando tutta. Ora che sto sotto i 4 anni (cioè che mi mancano solo 4 anni alla fine della pena) posso fare richiesta per l’affidamento in prova ai servizi sociali.

Una volta ottenuta quella, si spera, cercherò di spostare l’affidamento da qui a casa mia: così potrò vedere mia nipote! Mia figlia più grande ha partorito ma non mi hanno dato permessi per andarla a trovare.

Gli equilibri dentro casa dovranno trovare nuovi incastri, è chiaro, una volta che potrò tornare. Non so immaginare come sarà, perché ovviamente sarà diverso rispetto a ora che magari mi vengono a trovare per massimo due, tre giorni. Allo stesso tempo dovremo tutti fare i conti con i cambiamenti che si sono vissuti in questi anni di lontananza. In primis io, sono cambiato molto. Soprattutto per quanto riguarda il rapporto con i soldi: rispetto a prima sono molto più serio e gestisco meglio i miei soldi, senza andare a spenderli per cose futili. 

La mia nuova vita

Se potessi tornare indietro non rifarei quello che ho fatto ma una cosa è sicura, andrei a lavorare. Questo perché fondamentalmente, il percorso delinquenziale che ho scelto io da giovane di intraprendere può portare solo a due cose: una vita in carcere o la morte

Questo è quello che penso io, sicuramente anche per la mia specifica esperienza. 

Ad oggi io preferisco lavorare e sarei pronto a farlo fino al giorno della mia morte. Lavorare mi dà tanta soddisfazione, mi piace per questo: perché sono orgoglioso di quello che faccio, non sono fiero per niente di quello che ero. Se ci ripenso, mi ricordo di una volta che mio fratello era venuto a casa mia per aiutarmi con un signore che lavorava al comune per offrirmi un lavoro. Io ero totalmente fuori di testa, ora mi taglierei una mano per quel lavoro, mentre al tempo li ho cacciati di casa.

Tutte le sere mi ripeto in testa le parole di mio padre quando gli dissi che io “volevo fare il boss” e lui mi rispose: il vero boss è quello che alle 6 la mattina si alza, si mette la colazione sotto braccio e va a lavorare.

Dentro di me pensavo fosse uno scemo, oggi invece dico parole sante! – la galera mi ha cambiato tanto.

La mia famiglia mi ha sempre insegnato cose diverse dal percorso che poi ho scelto: me se ‘mbriacato o cervello. Così in carcere, piano piano, ho iniziato a prendermi la responsabilità delle mie azioni, parlando con me stesso ho capito tutto e ho iniziato a fare quello che potevo per mantenermi attivo. Ho lavorato dentro il carcere: pulivo i pavimenti, i gabinetti; ho partecipato a tutti i corsi che c’erano, da quello di fumetti a quello di pasticceria.

Quando dai un lavoro o un’attività a un detenuto, lo salvi.  

Questo però non l’ho capito subito, anzi. 

Il primo periodo di carcere l’ho vissuto quando avevo quattordici anni e no, non sono “uscito migliore”. Sono entrato in un meccanismo particolare che mi faceva alzare l’asticella sempre un po’ di più: mi sentivo superiore agli altri, a tutti quanti. Pensavo di poter far tutti fessi facilmente e per questo commettevo crimini anche in modi così assurdi che ad oggi non saprei neanche spiegare come facevo. Una volta appena uscito, per tornare a casa, ho rubato una macchina: appena fuori dal cancello del carcere.

Sono stato arrestato 36 volte! 

Non sono fiero per niente di quello che ho fatto ma sono tanto fiero di quello che sono oggi. 

LE PAROLE DI G

Le contraddizioni del carcere

Le contraddizioni del carcere, secondo E

Il presupposto da cui vorrei iniziare il discorso è che per la sua funzione, il carcere è già di per sé una contraddizione.

Se partiamo da una prospettiva più lontana, dobbiamo dire che è inevitabile che un carcere in una società umana qualsiasi, diventi un posto di isolamento, un po’ come un ghetto. 

A chi serve il carcere oggi? Cos’è veramente il carcere oggi? 

Andando indietro con il tempo, penso alle persone che si ammalavano di malattie particolari e venivano messe da parte, chiuse nei ghetti e isolate dal mondo: poi non importava più a nessuno di loro, potevano vivere o morire ma una volta che venivano chiusi lì, veniva dimenticato il problema. 

Lo stesso accade per il criminale in carcere.

  1. Isolamento ai fini della rieducazione;
  2. L’atteggiamento delle persone che lavorano in carcere;
  3. Povertà e immigrazione;
  4. Le Case Famiglia;
  5. Quando la comunicazione funziona.

Isolamento ai fini della rieducazione

Il concetto di isolamento di ciò che è indesiderato mi fa porre la domanda: se il carcere non ha come fine ultimo quello dell’isolamento e la nostra Costituzione dice che deve essere portato ai fini di un recupero, perché non c’è il ragionamento, la comunicazione e la comprensione dietro al rapporto con il detenuto? 

L’articolo 27 della Costituzione italiana

《L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte.》

Questa è anche una contraddizione della condizione umana.

Ognuno di noi ha i suoi difetti e il suo modo di pensare, e tutto questo si ripercuote spesso sul mondo del lavoro, nei rapporti di famiglia e nella vita in generale: allora perchè non lo pensiamo anche all’interno dell’istituzione carceraria?

Ragionare, conoscere e dialogare – non c’è migliore forma per capire l’altro e per far sì che il detenuto ritorni a vivere all’interno di un equilibrio sociale.

La contraddizione sta nel dualismo delle figure interne al carcere: agente – detenuto, che si legge nel rapporto pregiudiziale instaurato tra “io, agente di Polizia Penitenziaria” persona onesta e “il criminale”, colpevole e disonesto. 

Se il carcere è solo una cella, una sbarra dove le persone ti dicono “puoi mangiare questo e non quello” ecc. il recupero, la rieducazione non avviene. Non lo vedo se guardo al nostro paese e ci sono persone che non arrivano a fine mese, che non hanno i soldi per mangiare e che dormono sui cartoni. Ed è questa la più grande contraddizione di una società che genera contraddizioni. Come si può pretendere da una persona che non ha nulla, che una volta uscita fuori dal carcere non commetta nuovamente un crimine? Come può fare a mangiare e a vivere dunque, senza lavoro né possibilità concrete di trovarlo? 

Se si ragiona da esseri umani, guardiamo al detenuto come una persona che sì, ha sbagliato e ha commesso un reato, ma perché l’ha fatto? Dobbiamo interrogarci sul come poter evitare che succeda in futuro o che succeda ad altre persone come lui. Dobbiamo capire cos’è che produce questo: se queste rimangono solo parole ai fini di buone intenzioni che non si traducono in azioni concrete, l’istituzione va a chiudersi e il carcere rimarrà tale.

Questa è la mia visione del carcere. 

L’atteggiamento delle persone che lavorano in carcere 

Voglio mettermi nei panni dell’altro prima di pensare dal mio punto di vista alle persone che lavorano in carcere e al loro atteggiamento di pregiudizio. 

Chi lavora nel carcere deve svolgere la sua attività lavorativa e non ha dunque il tempo di relazionarsi con i detenuti. Non dico che sia giusto ma è un dato di fatto che l’agente penitenziario mantenga un atteggiamento che pregiudica il detenuto. L’agente, o il secondino – come prima venivano chiamati (non che oggi vedo molta differenza tra i due ruoli) – deve sempre presupporre che l’altro voglia altro da lui e che abbia un secondo fine. Ripeto, non è giusto ma è così: perché così è la vita in generale, secondo il mio parere. 

La gente che viene dentro dice semplicemente “Quello è un criminale” e punto. 

Le cose cambiano solo attraverso la comunicazione, per cui si crea un rapporto interpersonale e comincia ad entrare l’umanità in carcere. Questo non avviene, o comunque non avviene per tutti e non sempre. 

Povertà e Immigrazione

La realtà del carcere è variopinta, le persone che incontri dentro sono veramente di tutti i tipi. Voglio guardare in particolare alla povertà che c’è – sia dentro che fuori – e alla situazione di disagio degli immigrati perché è pieno di gente così in carcere. 

Chiediamoci quindi perché?

Il Reddito di Cittadinanza sarebbe potuto essere un vantaggio in questo senso ma hanno creato delle condizioni negative: hanno prima messo dei paletti e poi li hanno calpestati. Alla fine è uscito fuori lo sporco e tutti si lamentano al riguardo e vogliono categoricamente abolire il sussidio, quando invece può ancora essere uno strumento utile, soprattutto per tutte quelle persone che ne hanno veramente bisogno per vivere. In questo senso potremmo ragionare su quanto il RdC potrebbe essere utile anche per impedire che persone in condizioni di estremo disagio economico commettano crimini. 

Per quanto riguarda la situazione degli immigrati in carcere, dobbiamo capire bene perché ce ne sono così tanti: cioè chiederci se l’accoglienza sia reale.

Sono ancora contraddizioni, perché se una persona viene accolta, deve essere accolta nel modo giusto. Sono persone che hanno bisogno di mangiare e di vivere nelle condizioni più dignitose possibili. Nel momento in cui questo non viene predisposto per loro, dallo Stato chiaramente, non ci si può stupire più di tanto se le carceri si riempiono con individui stranieri che vivono disagi reali. 

Ci sono tante questioni per le quali secondo le diverse sfaccettature da cui uno le può guardare, ti portano a vedere che dobbiamo essere noi stessi, o meglio la società per intero e soprattutto chi governa la società – chi fa muovere questa macchina umanitaria nel miglior modo possibile – ad essere umani e a praticare l’umanità. Dobbiamo riflettere bene sull’attenzione che diamo nel confronto con l’altro: alla sua condizione di vita e sentire empaticamente cosa prova e quale sia stato il percorso che l’ha condotto a prendere scelte sbagliate.

Le Case Famiglia

Le Case Famiglia o strutture di accoglienza per detenutə sono forme di assistenzialismo che secondo me, nei fatti muoiono lì. Lo scopo che sta alla base è nobile, ma ancora mi ritrovo a dire che le buone intenzioni non sono sufficienti

Dovrebbero secondo me creare delle strutture, come le Case Famiglia, che siano però convenzionate con le fabbriche: i detenuti per vivere fuori devono poter lavorare. 

Come si risolve il problema? Ci sono le possibilità tecniche ma fino a quando non vengono colte, le strutture di questo tipo restano un punto fermo: è necessario creare una rete in cui alle piccole e medie imprese risulta più conveniente assumere un pregiudicato. Ci deve essere una presa di posizione reale e consapevole dei problemi delle persone, a prescindere dalla destra o dalla sinistra. Fino a quando i nostri rappresentanti politici non inizieranno a pensare alle persone e per le persone, invece che a se stessi e ai loro soldi, le cose non cambieranno.

Quante Case Famiglia per detenutə ci sono a Roma? Non ce ne sono tante, diciamo che saranno una decina? Quante persone possono accogliere? Tre o Quattro. 

Gli spazi in cui si muovono queste strutture sono limitati ed effettivamente è negativo. Non voglio per questo attaccare la Casa Famiglia in sé, ma guardandola dal punto di vista della sua funzione – quella del reinserimento – non vedo quale sia il senso: vedo ancora troppe contraddizioni tra le condizioni reali delle situazioni e la teoria che c’è dietro. 

Quando la comunicazione funziona

Quando sono entrato in carcere avevo 22 anni – sono stato dentro negli anni Settanta: gli anni delle rivolte per i diritti dei detenuti e non solo. La mia pena, inizialmente, doveva essere breve perché ho commesso un piccolo reato, però sono evaso e ho commesso altri crimini all’interno del carcere, accumulando una pena lunga 20 anni.

Vorrei raccontare in particolare la mia esperienza nel Super Carcere dell’Isola ***.

Riparavo le televisioni all’interno di una stanza tutta per me, l’ho fatto per molto tempo ed ero molto felice perché in questo modo svolgevo il mio lavoro. 

Con gli agenti di polizia penitenziaria e i brigadieri è iniziato ad instaurarsi un vero rapporto confidenziale, naturalmente sempre nel rispetto dei ruoli. Dopo tre anni mi portano fuori, per la prima volta, dalle mura del carcere per illustrarmi che avevano bisogno di un tecnico alla centrale elettrica. Non potevo essere più felice: questo per dire che la relazione instaurata tra agente e detenuto è fondamentale per vivere meglio la reclusione e soprattutto ai fini della rieducazione.

La relazione e il dialogo portano alla comprensione e all’esercizio di una pura umanità. 

Non è facile perché le condizioni sono ostative della stessa struttura: va costruito all’interno di essa uno spazio in cui si renda possibile il confronto. 

Finché il sistema penitenziario non cambia struttura e meccanismi di coercizione, fino a quando ci saranno più agenti che educatori all’interno del carcere e il fine sottinteso resterà quello di isolare dalla società le persone che commettono reati e non di reinserirli nella stessa, non ci saranno miglioramenti di alcun tipo. 

Le parole di E

Il cibo in giro per il mondo

Viaggio da quando avevo tre anni: sono venuto dalle Marche qui a Roma perché avevamo un forno di famiglia, ma non ho coltivato negli anni questa professione, quindi effettivamente è come se non avessi mai lavorato come panettiere, non sarei in grado oggi di fare il pane; certe cose le dimentichi, non è “come andare in bicicletta”.

 

Questo articolo nasce dalla curiosità di chiedere a R in che senso non mangia “all’italiana”, come ripete spesso. Nella sua vita piena di viaggi e nuove esperienze, quali sono le cose più strane che ha mangiato? 

 

Io ho viaggiato molto, credo di essere stato in più di 100 posti e di aver preso più di 50 aerei nel corso della mia vita, mi spostavo in aereo da un posto all’altro anche perché era più economico. Ovviamente non mi spostavo solo con l’aereo, ad esempio prendevo spesso i bus. Uno dei ricordi più divertenti è sicuramente quello dei pullman in Sud America: i pullman pieni, le persone ammassate insieme ai polli, ai maiali, gli odori forti (tremendi) – non potete immaginare quante risate!

Per rispondere alla domanda a cui ruota attorno il discorso posso dire che avendo visto così tanti posti, molto diversi tra loro, mi sono abituato a mangiare di tutto.

Cina, Giappone, Thailandia, Cuba, Brasile, Santo Domingo, Venezuela, Isla Margarita, Finlandia, Romania, Germania, Argentina, Portogallo, Russia, Francia, Irlanda, Inghilterra …

 

  1. Dove ho mangiato meglio? Sempre in Italia;
  2. Consigli sul cibo nel mondo;
  3. La scelta di girovagare.

Dove ho mangiato meglio? Sempre in Italia! 

In Asia alla fine mangi sempre le stesse cose, il riso e il sushi, punto. La stessa cosa in Sud America: pollo e riso; in India, le spezie. 

Ero curioso, come lo sono tuttora, di conoscere sempre nuovi sapori e di entrare in contatto con la diversità ma non posso dire che ho mai assaggiato qualcosa, a gusto mio, migliore del cibo italiano. Cioè l’unica cucina che mi faceva sognare era quella italiana, su questo non ci piove!

Ho provato di tutto, certo, perfino il coccodrillo, la tartaruga, la pinna di squalo, il pesce palla in Giappone: quest’ultima in particolare era una carne molto costosa, prelibata. Non assaggiavo mica tutto, con gli occhi vedevo subito le cose che non mi piacevano per cui non so dirvi quale sia stata la cosa peggiore che abbia mangiato. Ad esempio, ancora in Giappone mangiano molto la carne di balena e io non l’ho mai provata. 

Alle bancarelle in Thailandia c’erano questi spiedini con gli scorpioni, le cavallette e gli scarafaggi: non mi ci sono mai neanche avvicinato!

Insomma le cavallette, magnatele tu!

Una cosa particolare che ho mangiato in Thailandia sono gli spaghetti di serpente: c’era questo serpente simile ad un anguilla, lo tagliavano e spellavano, poi lo sfilacciavano e ci facevano gli spaghetti ma non è che erano una specialità. Li ho mangiati solo per farmi vedere “forte”. Complessivamente l’Asia, a parte il riso, non ha buon cibo. La pasta non la mangiano, ci provano a farla ma non è niente in confronto alla nostra; idem la pizza. 

La cucina giapponese è buona, soprattutto il pesce e la carne ma mangiare la cucina italiana all’estero è una follia: insomma in molti ci provano ma sarebbe meglio che non lo facessero. 

Consigli sul cibo nel mondo

Se mai doveste andare in Sud America, mangiate la frutta! La frutta di lì non la trovate da nessuna parte, soprattutto non così buona; anche i granchi di mare sono ottimi, ma purtroppo pieni di colesterolo. In Sud America è tutto allevato a terra, come qui una volta, per cui il pollo ad esempio è molto molto buono. Se si parla di carne però mi viene in mente l’Argentina che è il posto forse migliore per la qualità della carne!

Uno dei miei posti preferiti che porterò sempre nel cuore resta la Nuova Zelanda, bellissima soprattutto perchè piena di vigneti, un paesaggio naturalistico veramente da mozzare il fiato – oltre alla bontà del vino. Ho visitato l’Isola di Pasqua e le sue famosissime statue, per me che non sono mai stato interessato a certe cose, è stata una piacevole sorpresa.

Non amo cucinare quindi non saprei consigliarvi vere e proprie ricette da provare: sono sempre stato viziato dalle persone che vivevano con me e cucinavano al posto mio. Certo che se ne ho bisogno cucino ma non ho una forte passione.

La scelta di girovagare

E se di passioni parliamo, devo dire che ne ho perse molte negli anni, per questo anche mi annoio parecchio ora che sono in detenzione domiciliare e non posso uscire liberamente. Prima mi piaceva dipingere e suonare il basso, credo fossi anche abbastanza bravo ma non ho coltivato nè l’una nè l’altra perciò ho perso manualità.

Di musica in giro per il mondo ne ho sentita tanta, sempre diversa: mi è piaciuta soprattutto quella del Sud America e anche quella africana ma non tutta, dipende dalle varie zone. La musica asiatica in generale non mi piace, in particolar modo quella indiana. 

Non ho coltivato amicizie nei vari posti perché effettivamente le persone che ho conosciuto erano per la maggior parte dei delinquenti peggio di me, però spesso per cultura o per le condizioni che la vita gli ha imposto.

Non mi fermavo praticamente mai ed è certo che per fare tutto questo ho commesso degli errori, sono ingordo di vita: non è una giustificazione. Amo la mia libertà e oggi non sono proprio felice della mia situazione. Una volta fuori vorrei riprendere a viaggiare, dopo aver rimesso a posto tutta la questione dei documenti. Non penso di andare troppo lontano però, a un certo punto ti stanchi di girare sempre e io penso che alla fine ogni età ha le sue fasi

Mica come una volta … Mia madre mi diceva “Ma non ti sei stufato di girare sempre? Non ti basta una vita e ne hai fatte già 3!”.

Il posto che consiglierei di visitare a fondo è in primis l’Italia, solo dopo il Sud America (tutto), ma anche la Finlandia, l’Irlanda: insomma, il mondo è tutto bello e viaggiare serve per sviluppare al meglio lo spirito di adattamento.

 Non è mica semplice confrontarsi con la diversità.

Riflessioni sul ruolo dell’educatorɘ: il burnout, un mostro sempre in agguato?

Nell’ambito della nostra attività quotidiana di educatorɘ ci troviamo spesso a fare i conti con situazioni di stress lavorativo che possono arrivare a minare il nostro equilibrio e la nostra produttività, fino ad arrivare a casi estremi in cui si manifesta quello che ormai l’OMS definisce come vera e propria sindrome: il burnout. L’operatorɘ in burnout arriva ad una sorta di esaurimento delle proprie risorse interiori, deteriorate da una condizione di disagio diffusa dovuta alla sovraesposizione al lavoro e alla ridotta capacità di far fronte alle criticità quotidiane. Questo esaurimento si manifesta con la disaffezione verso il lavoro, con un aumentato cinismo e distacco che mina alle basi qualsiasi intervento educativo.

L’argomento è quasi tabù, affrontarlo o ammettere di averci fatto i conti nella propria vita lavorativa può essere letto come mancanza di professionalità, come inidoneità allo svolgere una professione delicata che ha al centro una relazione di aiuto. In realtà per mantenere uno standard lavorativo alto e preservare il proprio equilibrio mentale è prioritario rendersi conto delle proprie debolezze e fragilità, trovare il modo per affrontarle sia individualmente che nel gruppo di lavoro.

Nella mia esperienza lavorativa nella Cooperativa PID mi sono trovato spesso in periodi e situazioni molto stressanti, dovute al sovraccarico lavorativo e alla particolare tipologia di utenti con cui mi sono trovato a confrontarmi negli anni. Il primo rifugio e approdo sicuro nei periodi più pesanti è stato senz’altro il confronto di gruppo, il poter contare sulle colleghe di lavoro e sul lavoro in equipe, l’aver avuto sempre persone vicine che mi hanno fornito sostegno e l’opportunità di confrontarmi e di esplicitare le criticità con cui mi sono trovato di volta in volta a fare i conti. La supervisione di uno specialista poi è stata un’arma in più, che mi ha permesso di avere un approccio più riflessivo e distaccato dalle dinamiche quotidiane, una chiave di lettura esterna che ha contribuito a farmi vedere i problemi da altri punti di vista, arricchendo la mia capacità di trovare soluzioni e di non farmi sovrastare dalle criticità quotidiane, applicando metodologie che mi hanno consentito nel tempo di tenere sotto controllo il lavoro e la sua incidenza sul mio equilibrio psichico.

Soprattutto una volta preso in carico un nuovo utente, e successivamente nel percorso di accompagnamento nella strada verso il reinserimento, si instaura un rapporto molto profondo e diretto con l’utenza, ed è quindi opportuno impostare il rapporto con le persone in carico in maniera chiara, senza lasciar spazio ad ambiguità, in modo da palesare e rendere chiaro il proprio ruolo di “accompagnatore” in un percorso di reinserimento nella società civile, percorso mai scontato ed immediato, che necessita di costante monitoraggio e sostegno da parte dell’educatorɘ professionale. Instaurare un rapporto troppo amicale, diretto, senza filtri e senza paletti con l’utenza può portare al rischio di creare confusione nell’ospite, che cercherà di colmare una serie di deprivazioni cui la sua condizione di detenzione passata o presente l’ha esposto, deprivazioni soprattutto affettive e relazionali, con un rapporto troppo stretto e scorretto con l’educatore, che viene quindi investito di aspettative e richieste crescenti cui non potrà far fronte nel medio-lungo periodo, generando frustrazione nel lavoratore e disaffezione nell’utente. 

Spesso mi sono trovato a dover ribadire, con la dovuta delicatezza per non compromettere il rapporto educativo costruito con l’utente, che il mio ruolo non è assimilabile a quello di un amico, di un confidente, ma appunto è quello di una persona che si pone degli obiettivi, professionali, in comune con l’utente, ovvero, in primis, il raggiungimento di una condizione di autonomia che porti la persona a riprendere le redini della propria vita. 

Nel rapporto che si instaura con le persone prese in carico a volte è necessario mettere degli argini, per evitare di dedicarsi h24 al lavoro, e di dare la falsa illusione all’utente di “esserci sempre”. Il corretto rapporto con l’utente, secondo me, si raggiunge quando entrambi gli attori del rapporto educativo hanno chiaro il reciproco ruolo, e in quell’ambito agiscono per raggiungere quelli che sono gli obiettivi comuni.

Penso che sia importante anche affrontare in maniera riflessiva il proprio lavoro, avere degli spazi e dei luoghi in cui si parli non dell’oggetto del lavoro, ma del lavoro in sé, mettendo al centro gli operatorɘ e dando il giusto spazio alle differenti individualità che compongono un’equipe che si occupa di interventi socio-assistenziali. 

Anche l’avere uno spazio per esprimere le proprie idee, riflessioni e valutazioni, come questo che sto utilizzando in questo momento nell’ambito del blog “Passo dopo passo”, è senza dubbio un elemento positivo che mi aiuta in tal senso.

Francesco

Dossier statistico immigrazione 2022 – i migranti nelle carceri italiane

Il 27 ottobre scorso ho avuto il piacere di ascoltare la presentazione del Dossier Statistico sull’immigrazione del 2022: il frutto del lavoro meticoloso svolto da IDOS in collaborazione con la rivista Confronti e l’Istituto di Studi Politici Pio V volto a fotografare la situazione dei migranti in Italia.  

Ad introdurre la discussione circa la trentaduesima edizione del Dossier, un pensiero rivolto a tutte le vittime del mare e delle frontiere, a tutte le sofferenze e il dolore di chi passa il confine: “A tutti i migranti reali che però sono assenti…”

In questo resoconto, vorremmo riportare i dati del Dossier per quanto riguarda la popolazione migrante detenuta dell’anno 2022. Numeri che rispecchiano una realtà diversa da quella narrata dal luogo comune per cui io non sono razzista ma questi vengono qua e ce stuprano ‘e figlie, ‘e mogli!”. Percentuali che fanno luce su l’evidente disagio socio-economico che vivono le persone che non-accogliamo tutti i giorni. 

Criminalità in Italia – il reale contributo delle persone straniere

Al fine di analizzare il “peso” delle persone straniere nel più ampio scenario criminale italiano, Gianfranco Valenti e Luca di Sciullo, ricordano l’assunzione preliminare di una serie di criteri oggettivi «senza i quali si rischia di fornire una interpretazione unilaterale, ingenua e scorretta» di una realtà che risulta essere più interconnessa di quanto non sembri.

Nel senso, è giusto porre un confine netto tra la criminalità straniera e quella autoctona? 

Lo studio qui presentato cerca di contestualizzare il fenomeno all’interno dell’ambiente sociale, culturale ed economico in cui si manifesta.

Quattro sono le riflessioni che aprono il discorso intorno alla questione contro cui invece si scontra l’opinione comune di molti italiani, condita con una «salsa razzista-lombrosiana – scrivono Sciullo e Valenti – per cui i caratteri somatici comuni a una “etnia” rivelerebbero tratti caratteriali propri di un’intera popolazione».  

  1. Non sempre il numero degli arresti o delle denunce sono corrispondenti alle persone effettivamente arrestate o denunciate, perché è possibile che una stessa persona sia arrestata o denunciata più volte nell’arco del tempo. 
  2. Le persone immigrate in Italia hanno un maggior numero di leggi a cui riferirsi e dunque un maggior numero di reati possibili rispetto agli italiani. Si parla in questo caso di tutte le leggi sull’immigrazione che regolano ingressi, permanenze e regolarità.
  3. Il prevalere dei reati commessi dai giovani, deve essere considerato alla luce di un confronto squilibrato in quanto gli individui giovani sono una forte rappresentanza della popolazione straniera in Italia, a differenza degli italiani più giovani. Dunque occorrerebbe proporre una comparazione della frequenza dei reati per fasce di età.
  4. Infine, non si può evitare di considerare «quanto il degrado del contesto urbano e sociale di vita, la condizione di emarginazione, l’assenza di misure e strutture di sostegno per un’effettiva partecipazione alla vita collettiva siano fattori che aumentano il rischio di scivolamento nell’illegalità…» e non solo per gli individui immigrati.

 

Dai dati messi a disposizione nel Dossier, tratti dall’archivio del Sistema Informativo Interforze si è assistito a un calo determinante delle denunce e degli arresti delle persone immigrate soprattutto nel periodo pandemico, quando in conseguenza alle restrizioni dovute al lockdown, è diminuita di fatto la possibilità di compiere reati “all’aperto”

Sebbene i numeri ad essi relativi siano saliti nuovamente in seguito alla graduale riapertura verso la mobilità sociale, questi sono comunque inferiori rispetto al periodo precedente la pandemia

Questione però secondo me fondamentale, riguarda l’incidenza percentuale sulla criminalità italiana dei reati accertati degli individui stranieri: per sequestri di persona (36,2%), violenze sessuali (41,0%) e omicidi preterintenzionali (42,6%) che in termini assoluti andrebbero a costituire rispettivamente lo 0,2%, lo 0,8% e meno dello 0,1% del totale

Flussi migranti in carcere 

Come abbiamo visto e possiamo dedurre di conseguenza, ad un calo di denunce e arresti delle persone immigrate in Italia, corrisponde il calare del numero dei detenuti in carcere: rispetto al 2008 – anno in cui si registra un numero di presenze migranti ristrette più alto rispetto agli ultimi 20 anni – quando la popolazione detenuta straniera costituiva il 37,1 % del totale; a giugno del 2022 si è scesi al 31,3 %. (Fonte: Associazione Antigone

Come illustrato da Carolina Antonucci, Francesco Biondi e Carla Cangeri, nonostante diminuisca il numero dei detenuti stranieri all’interno delle carceri italiane, è in aumento il numero dei suicidi. «Al 12 agosto – 2022 – erano morte suicide negli istituti penitenziari italiani 51 persone (già salite a 59 al 2 settembre), di cui 27 (più della metà!) erano detenuti stranieri». Come tristemente noto, il numero dei suicidi in carcere non è in diminuzione.

Accesso alle misure alternative 

Nell’articolo di lunedì abbiamo cercato di spiegare in chiave narrativa cosa siano le misure alternative alla detenzione, nel Dossier Statistico sull’immigrazione del 2022 è presente la quota dei detenuti stranieri in semilibertà (16,6% rispetto al totale dei detenuti in carcere). Il numero dei detenuti stranieri in semilibertà è in aumento, notano Antonucci, Biondi e Cangeri ma è comunque basso, sono 174 persone in tutto. 

Se la concessione della semilibertà viene valutata in base al percorso rieducativo e alle razionali possibilità di reinserimento sociale del detenuto e della detenuta, spiegano gli autori: «Evidentemente per gli stranieri sussistono condizioni soggettive – tra le quali anche la debolezza delle reti sociali di riferimento – che impediscono maggiormente l’avvio di questo percorso, con tutte le conseguenze negativo a livello individuale (sul piano pratico e psicologico) e collettivo (in termini di recupero dalla marginalità a una attiva e piena partecipazione al contesto sociale».

 

Quanto riportato è solo una parte dell’importante ricerca Idos, per conoscere nel dettaglio la situazione dei migranti in Italia nell’anno appena trascorso, vi consigliamo di acquistare il Dossier Statistico sull’immigrazione del 2022 qui.

Alessia
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