Cooperativa sociale che offre servizi di ascolto, orientamento, formazione, accoglienza rivolti a detenuti/e, ex detenuti/e e persone che vivono in condizione di disagio sociale.

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Gli effetti della detenzione sulla salute mentale

MATTEO

La vita in carcere è un’esperienza difficile e impegnativa che può avere effetti significativi sulla salute mentale dei detenuti. L’ambiente carcerario, caratterizzato dalla mancanza di privacy, sovraffollamento e isolamento sociale, può esacerbare problemi preesistenti o causare nuove sfide per la salute mentale dei detenuti. In questo articolo, esploreremo come la detenzione può influenzare la salute mentale dei detenuti e il ruolo vitale dei servizi di salute mentale nelle strutture carcerarie.

 

Equilibrio emotivo: l’ambiente carcerario è spesso ostile, con il costante rischio di conflitti, violenza e isolamento. Questi fattori possono portare a una varietà di problemi emotivi, come ansia, depressione, eccessiva irritabilità e disperazione. La mancanza di controllo sul proprio destino e la privazione di libertà possono causare una sensazione di impotenza, aggravando ulteriormente i disturbi dell’umore.

 

Sovraffollamento e stress: le carceri spesso affrontano il problema della sovraffollamento, con detenuti che condividono spazi ristretti e affollati. Questa situazione può portare a uno stato di stress cronico, influenzando negativamente la salute mentale dei detenuti. Il sovraffollamento può anche aumentare il rischio di conflitti e violenza tra i detenuti, creando un ambiente ancora più pericoloso per il benessere mentale.

 

Isolamento sociale e solitudine: la detenzione può portare a una sensazione di profonda solitudine, con i detenuti spesso separati dai loro cari e dalla società. L’isolamento sociale può contribuire a sentimenti di abbandono, depressione e ansia. La mancanza di sostegno sociale può rendere difficile affrontare le sfide quotidiane e i traumi associati alla vita in carcere.

 

Traumi e PTSD: alcuni detenuti possono essere stati esposti a esperienze traumatiche prima o durante la detenzione, come abusi, violenze o eventi drammatici. Questi traumi possono portare allo sviluppo di disturbi da stress post-traumatico (PTSD), che richiedono un’attenzione specifica per il trattamento all’interno dell’ambiente carcerario.

 

I servizi di salute mentale nelle strutture carcerarie possono svolgere un ruolo cruciale nel supportare i detenuti con problemi di salute mentale. Questi servizi includono valutazioni e screening per identificare tempestivamente i detenuti che necessitano di assistenza. Inoltre, offrono terapie individuali e di gruppo per aiutare i detenuti a gestire i problemi emotivi e a trovare supporto reciproco tra pari.

 

La formazione del personale carcerario è essenziale per riconoscere i segni di problemi nei detenuti e rispondere in modo adeguato alle emergenze mentali, favorendo un ambiente più comprensivo e empatico.

 

In conclusione, la detenzione può avere effetti significativi sulla salute mentale dei detenuti, creando sfide emotive e psicologiche. Tuttavia, investire nei servizi di salute mentale nelle strutture carcerarie può aiutare a mitigare tali effetti e promuovere una migliore qualità della vita all’interno del carcere. Ciò contribuisce anche a una maggiore possibilità di riabilitazione e di reintegrazione sociale dopo la scarcerazione, avvicinandoci a un sistema penitenziario “più umano”.

L’arte terapia negli istituti penitenziari: l’espressione creativa come mezzo di libertà

MATTEO

L’arte terapia nasce come disciplina nel corso del XX secolo, in particolare negli anni ’40 e ’50. Viene attribuita principalmente a due figure fondamentali: Adrian Hill e Margaret Naumburg .


Adrian Hill, un pittore britannico, è considerato uno dei pionieri dell’arte terapia. Durante la sua esperienza in un sanatorio per tubercolosi, Hill notò come il disegno e la pittura lo aiutassero a superare la malattia e a gestire il dolore e lo stress emotivo.

Attraverso il suo lavoro, Margaret Naumburg, una psicoanalista statunitense cercò di integrare il processo creativo con la psicoanalisi, permettendo ai pazienti di esprimere i loro conflitti interiori attraverso l’arte. Nel 1943, fondò la Walden School di New York, una scuola che integrava l’arte terapia nell’educazione dei bambini.

Negli anni successivi, l’arte terapia ha continuato a evolversi come disciplina, con il contributo di molti altri professionisti nel campo della psicologia, della psicoterapia e delle arti creative.

Oggi, l’arte terapia è riconosciuta come un approccio terapeutico valido e viene utilizzata in una vasta gamma di contesti clinici, inclusi gli istituti penitenziari, per promuovere l’empowerment personale e il benessere emotivo.

Cos’è l’Arte Terapia?

L’arte terapia è una forma di terapia che utilizza l’espressione artistica come mezzo di comunicazione e di guarigione. Attraverso vari mezzi espressivi come la pittura, il disegno, la scultura e l’artigianato, gli individui possono esplorare e rielaborare i propri sentimenti, pensieri ed esperienze attraverso il canale non verbale. Si viene a creare uno spazio sicuro e creativo in cui le persone possono esprimere se stesse liberamente, promuovendo l’autoriflessione e la relazione d’aiuto.

Le artiterapie negli Istituti Penitenziari:

Negli istituti penitenziari, i laboratori di artiterapie offrono una via percorribile per superare le difficoltà e le sfide emotive associate alla vita in detenzione. I detenuti possono sperimentare sensazioni di isolamento, rabbia, frustrazione e persino disperazione. Le arti terapie forniscono loro uno spazio dove possono liberare queste emozioni e cambiare il punto di vista da cui guardare, anche in un penitenziario.


L’arte terapia negli istituti penitenziari mira a migliorare il benessere emotivo dei detenuti, a riscoprire la propria identità e le proprie risorse. L’Arteterapia promuove la riabilitazione e la reintegrazione nella società. Attraverso l’espressione creativa, i detenuti possono sviluppare una maggiore consapevolezza di sé, una migliore gestione delle emozioni e una prospettiva positiva sul loro futuro.

 

In conclusione, l’arte terapia negli istituti penitenziari offre ai detenuti la possibilità di esplorare la loro creatività, trovare un canale emotivo innovativo e sviluppare competenze personali significative. Attraverso questa forma di terapia, i detenuti possono intraprendere un percorso trasformativo capace di aprire le porte alla riscoperta di sè, all’autostima, e al reinserimento sociale. Le arti terapie dimostrano come l’espressione artistico-creativa possa far contattare quel senso di libertà anche in una condizione di mancata libertà, come quella detentiva.

Il mio percorso in carcere

Partendo da un discorso generale sul rapporto di G con il mondo carcerario per intero, nasce un approfondimento sulla sua esperienza personale che vuole stimolare una riflessione sul valore che ha l’atteggiamento pregiudiziale nei confronti dei detenuti e delle detenute, in relazione all’inclusione sociale degli stessi. 

LE PAROLE DI G

Articolo 1 – Ordinamento Penitenziario

“Il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona.

Il trattamento è improntato ad assoluta imparzialità, senza discriminazioni in ordine a nazionalità, razza e condizioni economiche e sociali, a opinioni politiche e a credenze religiose.

Negli istituti devono essere mantenuti l’ordine e la disciplina. Non possono essere adottate restrizioni non giustificabili con le esigenze predette o, nei confronti degli imputati, non indispensabili ai fini giudiziari.

I detenuti e gli internati sono chiamati o indicati con il loro nome.

Il trattamento degli imputati deve essere rigorosamente informato al principio che essi non sono considerati colpevoli sino alla condanna definitiva.

Nei confronti dei condannati e degli internati deve essere attuato un trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso i contatti con l’ambiente esterno, al reinserimento sociale degli stessi. Il trattamento è attuato secondo un criterio di individualizzazione in rapporto alle specifiche condizioni dei soggetti.”

Il tempo per trasferire lo stipendio

G è in semilibertà, ha un lavoro e percepisce lo stipendio come ogni persona che svolge attività lavorativa. Come riceve il denaro un detenuto che lavora? Una cosa poco nota è che ogni detenuto ha diritto ad avere un conto all’interno dello stesso Istituto Penitenziario: per chi è assunto da terzi – pubblici o privati –  l’iter prevede che il pagamento dello stipendio passi per l’Istituto, il quale si occupa di girare successivamente il bonifico sul conto personale del detenuto. 

È possibile che lo stipendio arriva l’8 del mese all’Istituto e a me viene girato il 24? È possibile che mia moglie con la mia famiglia non ricevono soldi in tutto questo tempo? 

Io capisco che è l’iter ma qui si tratta di un bisogno vero, quanto ci vuole per girare la mensilità? Più di venti giorni? E poi il problema è che se provi a chiamare, con tutta la calma e il rispetto possibile loro ti rispondono pure male. Ti trattano come se li scocciassi, come se a me fa piacere stare attaccato al telefono per ricevere quello che è mio e mi guadagno

Loro aspettano che tu sbrocchi e parti con il cervello, questa è la sensazione che ti danno: aspettano per farti rapporto e rispedirti in carcere. Non voglio generalizzare troppo, perché non tutti sono così, non tutti abusano così della loro posizione, fortunatamente. I tempi sono lunghi per tutto, mica solo per ricevere lo stipendio, anche se questo mi preme di più perchè chiaramente va a discapito della mia famiglia. 

Il tempo per ottenere l’affidamento

Il 31 dicembre sono rientrato in carcere e per questo avevo fatto richiesta di Affidamento in prova ai servizi sociali prima (Capo VI dell’Ordinamento Penitenziario – Misure alternative alla detenzione e remissione del debito – Art. 47).

In questo modo dalla struttura in cui ero da circa due anni e mezzo, non sarei più tornato in carcere e avrei potuto finire gli ultimi anni di pena fuori, magari anche a casa con la mia famiglia. Avere la possibilità di non tornare più dentro rappresentava una gioia grande, il fatto che ci sono tornato psicologicamente mi uccide.

Il problema qual è? Anche qui c’è stato bisogno di un tempo infinito per avere una risposta e tanti, tantissimi solleciti al Tribunale di Sorveglianza. Di fatto si tratta di una firma, nel mio caso, perchè i requisiti per ottenere la misura ce li ho tutti però sembra che non ci sia nessuno dall’altra parte a metterla questa firma o anche a non metterla

Ad oggi ho una data per l’udienza, a maggio, dopo lunghi mesi di attesa.

Instaurare una relazione con i detenuti 

Quando si parla con una persona, soprattutto in vista di una rieducazione, devi essere gentile, paziente; non aggressivo. È normale che non deve essere così, perché immaginate di avere un cane chiuso in una gabbia – forse l’esempio è un po’ brutto però è così – se lo trattate male questo cane, non lo accarezzate, gli urlate e non gli date da mangiare, quando esce vi abbaia, vi morde: lo stesso succede per il detenuto.

Le persone che lavorano in carcere non trovano il tempo per ascoltarti, non vogliono o non possono: noi abbiamo mancanza di affetto e nessuno ci fa sentire ascoltati.

Quando è morto mio padre, ero nella mia cella e stavo nervoso, arrabbiato, frustrato. 

Stavo combinando un bel casino, però è arrivato un agente molto buono: una persona veramente umana che mi ha parlato, riferendosi a me per nome invece che con il mio cognome. Mi ha mostrato comprensione per il momento difficile che stavo affrontando e mi ha dato modo di ragionare sul comportamento che stavo avendo, che andava solo a mio discapito. Stavo sempre chiuso, non è che abbia fatto qualcosa di particolare: semplicemente una parola mi ha calmato e mi ha dato quello di cui avevo bisogno – calore ed affetto, infatti poi mi ricordo che sono crollato a dormire. 

In carcere le persone vivono per una lettera

Una lettera, un foglio di carta: la gente vive solo per quello in carcere, lo sapete? 

Fuori non si dà troppa importanza a certe cose.

Quando passa l’addetto alla posta a consegnare le lettere, le persone cambiano umore: dacché stanno tutti a muso lungo, a braccia conserte nelle celle a che si aprono dalla gioia, alla scoperta di cose nuove.

Quando io ricevevo la lettera, ad esempio di mia moglie, sapete che facevo?

Mi organizzavo come se fosse l’impegno più importante della giornata – il che era così effettivamente – mi preparavo la postazione e iniziavo a leggere molto molto lentamente: non volevo che finisse.  Finivo di leggere, la posavo. Dopo un’ora ricominciavo a leggerla. 

Abbiamo sbagliato e io ne sono consapevole, è giusto che paghiamo ma con dignità e umanità. 

Noi per l’opinione pubblica siamo lo scarto degli scarti.

Ma le statistiche parlano chiaro, le persone detenute che hanno avuto l’opportunità di lavorare non hanno più commesso reati. Quindi di che parliamo?

In questo modo tu vai a diminuire la delinquenza e a ricostruire una società diversa, migliore.

Gli educatori in carcere ci sono? 

Dove stavo io c’è solo un’educatrice per un carcere intero! Una sola che deve gestire tantissimi detenuti e molti anche con problematiche serie, come la tossicodipendenza. Come fa? 

Un giorno parlando, e le chiesi: “Dottorè ma come fa adesso con tutte queste persone? Le hanno lasciato un bel carico di lavoro!”. Lei mi rispose: “Dove arrivo metto il punto!”.

E chi paga per questo? I detenuti.

Giustamente lei non può fare altrimenti, quindi il problema è a monte: c’è bisogno di più educatori ed educatrici!

Riflessioni sul ruolo dell’educatorɘ: il burnout, un mostro sempre in agguato?

Nell’ambito della nostra attività quotidiana di educatorɘ ci troviamo spesso a fare i conti con situazioni di stress lavorativo che possono arrivare a minare il nostro equilibrio e la nostra produttività, fino ad arrivare a casi estremi in cui si manifesta quello che ormai l’OMS definisce come vera e propria sindrome: il burnout. L’operatorɘ in burnout arriva ad una sorta di esaurimento delle proprie risorse interiori, deteriorate da una condizione di disagio diffusa dovuta alla sovraesposizione al lavoro e alla ridotta capacità di far fronte alle criticità quotidiane. Questo esaurimento si manifesta con la disaffezione verso il lavoro, con un aumentato cinismo e distacco che mina alle basi qualsiasi intervento educativo.

L’argomento è quasi tabù, affrontarlo o ammettere di averci fatto i conti nella propria vita lavorativa può essere letto come mancanza di professionalità, come inidoneità allo svolgere una professione delicata che ha al centro una relazione di aiuto. In realtà per mantenere uno standard lavorativo alto e preservare il proprio equilibrio mentale è prioritario rendersi conto delle proprie debolezze e fragilità, trovare il modo per affrontarle sia individualmente che nel gruppo di lavoro.

Nella mia esperienza lavorativa nella Cooperativa PID mi sono trovato spesso in periodi e situazioni molto stressanti, dovute al sovraccarico lavorativo e alla particolare tipologia di utenti con cui mi sono trovato a confrontarmi negli anni. Il primo rifugio e approdo sicuro nei periodi più pesanti è stato senz’altro il confronto di gruppo, il poter contare sulle colleghe di lavoro e sul lavoro in equipe, l’aver avuto sempre persone vicine che mi hanno fornito sostegno e l’opportunità di confrontarmi e di esplicitare le criticità con cui mi sono trovato di volta in volta a fare i conti. La supervisione di uno specialista poi è stata un’arma in più, che mi ha permesso di avere un approccio più riflessivo e distaccato dalle dinamiche quotidiane, una chiave di lettura esterna che ha contribuito a farmi vedere i problemi da altri punti di vista, arricchendo la mia capacità di trovare soluzioni e di non farmi sovrastare dalle criticità quotidiane, applicando metodologie che mi hanno consentito nel tempo di tenere sotto controllo il lavoro e la sua incidenza sul mio equilibrio psichico.

Soprattutto una volta preso in carico un nuovo utente, e successivamente nel percorso di accompagnamento nella strada verso il reinserimento, si instaura un rapporto molto profondo e diretto con l’utenza, ed è quindi opportuno impostare il rapporto con le persone in carico in maniera chiara, senza lasciar spazio ad ambiguità, in modo da palesare e rendere chiaro il proprio ruolo di “accompagnatore” in un percorso di reinserimento nella società civile, percorso mai scontato ed immediato, che necessita di costante monitoraggio e sostegno da parte dell’educatorɘ professionale. Instaurare un rapporto troppo amicale, diretto, senza filtri e senza paletti con l’utenza può portare al rischio di creare confusione nell’ospite, che cercherà di colmare una serie di deprivazioni cui la sua condizione di detenzione passata o presente l’ha esposto, deprivazioni soprattutto affettive e relazionali, con un rapporto troppo stretto e scorretto con l’educatore, che viene quindi investito di aspettative e richieste crescenti cui non potrà far fronte nel medio-lungo periodo, generando frustrazione nel lavoratore e disaffezione nell’utente. 

Spesso mi sono trovato a dover ribadire, con la dovuta delicatezza per non compromettere il rapporto educativo costruito con l’utente, che il mio ruolo non è assimilabile a quello di un amico, di un confidente, ma appunto è quello di una persona che si pone degli obiettivi, professionali, in comune con l’utente, ovvero, in primis, il raggiungimento di una condizione di autonomia che porti la persona a riprendere le redini della propria vita. 

Nel rapporto che si instaura con le persone prese in carico a volte è necessario mettere degli argini, per evitare di dedicarsi h24 al lavoro, e di dare la falsa illusione all’utente di “esserci sempre”. Il corretto rapporto con l’utente, secondo me, si raggiunge quando entrambi gli attori del rapporto educativo hanno chiaro il reciproco ruolo, e in quell’ambito agiscono per raggiungere quelli che sono gli obiettivi comuni.

Penso che sia importante anche affrontare in maniera riflessiva il proprio lavoro, avere degli spazi e dei luoghi in cui si parli non dell’oggetto del lavoro, ma del lavoro in sé, mettendo al centro gli operatorɘ e dando il giusto spazio alle differenti individualità che compongono un’equipe che si occupa di interventi socio-assistenziali. 

Anche l’avere uno spazio per esprimere le proprie idee, riflessioni e valutazioni, come questo che sto utilizzando in questo momento nell’ambito del blog “Passo dopo passo”, è senza dubbio un elemento positivo che mi aiuta in tal senso.

Francesco

Tirocinio all’interno di una struttura di accoglienza per detenuti: in che senso?

È sempre divertente dire alle persone che ho svolto il tirocinio con la Cooperativa PID dentro una struttura di accoglienza per persone detenute e/o ex detenute. Le facce dei miei interlocutori si colorano spesso di domande che non riescono a essere formulate per paura di risultare insensibili o ignoranti: più o meno la stessa cosa di quando dico che studio antropologia.

Non è pericoloso? Ma quindi significa che stanno agli arresti? Vabbè ma mica hanno fatto cose gravi altrimenti non te li facevano vede’, no? Scusa eh, questi stanno dentro ‘na casa a fa’ che? E tu che fai, ma perchè?  

Il mio perché nasce da molto lontano, ero appena una teenager – potremmo dire – quando mia sorella che era alle scuole superiori torna a casa con il saggio di Beccaria “Dei delitti e delle pene” e inizia a spiegarmi quanto fosse ingiusta la pena di morte.

Negli anni, il mio interesse per le marginalità sociali, le ragioni che ne sono la base, le dinamiche culturali che le alimentano, le simbologie attraverso cui esse sono rappresentate nella quotidianità di tutti è andato costruendosi attorno alla mia persona: io ho fatto spazio a quella voce che ha iniziato a spingere sempre più forte una volta avvenuto il reale contatto con le persone prese in carico dalla Cooperativa.

Mi sembra quindi essenziale ripercorrere insieme i passi che ci hanno portato a scegliere di realizzare questo blog, introducendo con questo articolo un’esperienza totalmente soggettiva dell’incontro tra una studentessa, due educatori e sei persone che Passo dopo Passo si apprestano ad abbracciare una società nuova, diversa da come l’avevano lasciata. 

Gradualmente 

Quando per la prima volta ho aperto il portone di casa, la luce del sole mi ha accolto. Non è una costruzione meramente letteraria, perché effettivamente succede ogni volta: tutto il corridoio che attraversa orizzontalmente lo spazio che ti si presenta davanti si irradia. 

E all’inizio non senti neanche un rumore. 

Sono da subito entrata in una dimensione altra, l’ho sentita sulla pelle che lasciavo fuori da quella porta, abbandonando la persona che pensavo di dover essere, mettendo tutto il mio centro nelle mani di chi sapevo avrei presto incontrato.  

Il primo giorno non ho conosciuto nessuno degli ospiti: sono andata subito in ufficio da Francesco, l’educatore in turno con il quale ho iniziato il percorso dentro la struttura.

Un po’ alla volta, in base agli impegni di tutti e le disponibilità, ci siamo pian piano lasciati conoscere, più di quanto avrei mai potuto pensare. 

James Clifford ne “Scrivere le culture. Poetiche e politiche dell’etnografia.” presenta il lavoro di Richard Price del 1983 “First-Time: The Historical Vision of an Afro-American People.” per illustrare un parallelismo fondamentale tra la modalità di trasmissione del sapere orale attraverso i racconti saramaka e la conoscenza parziale dell’etnografo del campo. Il paradosso individuato da Price durante la sua ricerca sta nel fatto che ⟪qualsiasi racconto saramaka […] rivelerà solo una piccola parte di quello che il narratore sa dell’evento che narra.⟫  

Il motivo che muove questo principio del Primo-Tempo si ritrova in una più ampia concezione della conoscenza del tale evento o sapere, in quanto essa deve essere graduale, deve cioè crescere un po’ alla volta e dunque ⟪l’oratore rivela di proposito ai suoi uditori solo un po’ di più di quello che ritiene già sappiano.⟫

Questo tipo di gradualità nella conoscenza del sapere saramaka accompagna l’etnografo nella consapevolezza dell’impossibilità, sia sua che dei singoli individui appartenenti alla data cultura, di ottenere un corpus “completo” del sapere del Primo-Tempo.

Ed è questa consapevolezza che accompagna ogni giorno il mio stesso rapporto con i protagonisti delle storie che andremo a raccontare. 

A guidare inizialmente la mia conoscenza degli ospiti sono gli educatori, Francesco e Livia che come il narratore saramaka fanno da filtro permettendomi di addentrarmi nelle trame della struttura di accoglienza: intenzionalmente tracciando una scala immaginaria di conoscenza per non farmi travolgere dalla realtà per intero ma conducendomi verso una graduale consapevolezza delle parti che la componevano, delle loro storie e delle loro scelte che su un piano strettamente morale non rispecchiano il tipo comune di persona con cui si è soliti entrare in contatto. 

Gradualmente le persone incontrate in questo percorso hanno scelto di raccontarsi e proprio per questo ci è sembrato importante strutturare i tempi di condivisione con la stessa ottica del Primo-Tempo: narrazioni parziali del sapere completo, un passo dopo l’altro, un articolo per volta.

Una struttura di accoglienza socio-assistenziale in favore di persone condannate e/o ex detenute

Inoltre, il concetto della gradualità ai fini della reintegrazione nella società civile è stato uno dei primi che la Cooperativa mi ha insegnato, anche in relazione al lavoro stesso degli educatori e più in generale dei percorsi degli utenti del PID, in quanto volti entrambi al graduale reinserimento sociale dei secondi.

Voglio spiegarvi il senso di questo concetto come l’ha fatto con me Francesco: avete presente quando da ragazzini ad un certo punto si è deciso di darvi le chiavi di casa? Ecco questo perché, al di là della necessità del possedere quelle chiavi, prima è stata testata la vostra puntualità al rientro e la stessa costanza nell’essere puntuali e diciamo così, nel dimostrarvi affidabili avete ottenuto la responsabilità di custodire le chiavi di casa. 

Cosa succede in una casa famiglia per detenuti o ex detenuti?

Le prestazioni offerte all’interno delle strutture gestite dalla Cooperativa PID sono volte alla reintegrazione nella società civile della persona ristretta

Lo scopo dell’accoglienza è quello di aiutare le persone con disagio a superare problematiche ed emergenze; sostenere e costruire insieme a loro il percorso volto al recupero di autonomia, opportunità, socializzazione e competenze. Per questo, viene impostata attraverso una modalità olistica che prevede da una parte semplicità familiare, dall’altra la consapevolezza professionale degli operatori nel confronto quotidiano delle problematiche degli ospiti. 

Il rapporto educatore-ospite si legge nelle trame di un sostegno concreto e doppio, nel senso che è costantemente caratterizzato dalla piena disponibilità dei primi e del loro sempre alto grado di attenzione alla qualità degli interventi.

Alessia Massaroni

Le misure alternative raccontate da quattro vite differenti e molto simili 

«Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato».

Dall’art. 27 della Costituzione italiana

 

Nel 1975 in Italia sono state introdotte le misure alternative alla detenzione con l’obiettivo di introdurre nuove soluzioni per il raggiungimento del fine ultimo della pena previsto dalla nostra Costituzione, la rieducazione del condannato. Da definizione, le misure alternative alla detenzione o di comunità “consistono in modalità di esecuzione delle condanne diverse dalla tradizionale esecuzione della pena negli istituti penitenziari.” 

In questo articolo vogliamo ripercorrere brevemente alcune storie delle persone incontrate durante il mio percorso all’interno della Cooperativa PID, per tentare di spiegare le misure alternative da un punto di vista emico e iniziando a questo punto ad introdurre i protagonisti delle nostre narrazioni. 

Dalla strada alla casa famiglia – la detenzione domiciliare di V

I piedi del nostro V non toccano il pavimento del carcere neanche per un secondo. 

In seguito alla condanna riesce a ottenere la detenzione domiciliare e sconta la sua pena di circa due anni interamente all’interno di una struttura di accoglienza gestita da PID. Il carcere è brutto dice, è fortunato ad essere lì, nonostante passi le giornate a non fare niente e spesso non si trovi con i suoi “coinquilini”. Può uscire due ore a metà mattinata, con tutto il caldo dell’estate romana si concede delle lunghe passeggiate. Il suo problema resta il lavoro, è il suo obiettivo principale, perché chiaramente una volta uscito dalla struttura come potrà vivere? Dunque con gli educatori cerca di programmare un suo progetto di vita: dato che è vicino alla pensione, si decide che potrà rimanere per qualche mese all’interno della casa famiglia anche dopo aver ottenuto la libertà in modo da avere più tempo per trovare un lavoro, di qualsiasi tipo – afferma V – così che presto potrà badare a se stesso interamente e non restare più legato alle reti socio-assistenziali all’interno delle quali si muove già da molto tempo.

Dal carcere alla casa famiglia – la detenzione domiciliare di B

Dopo quasi venti anni di carcere, B accede alla detenzione domiciliare e sconta gli ultimi anni della sua pena all’interno di una struttura di accoglienza per persone detenute.

B percepisce la pensione ed è determinato a ricongiungersi con i suoi figli e sua moglie, la sua permanenza in casa famiglia è stata essenziale anche per questo motivo: infatti, ha avuto la possibilità di incontrare suo figlio in un ambiente diverso da quello del carcere e soprattutto ha potuto finalmente iniziare a pensare di ricostruire una vita fuori con sua moglie e sua figlia. B anche può uscire dalla struttura qualche ora la mattina e mi ha raccontato in più occasioni di aver trovato piacevoli compagnie nel quartiere con cui passare quei momenti di libertà. Uno dei suoi sogni più grandi è quello di comprare una barca a basso costo per poterla sistemare lui stesso e viaggiare con la sua famiglia nel mondo. 

Ora B è libero e sta vivendo la sua vita, spero, come lui stesso l’ha desiderata per molto.

Dal carcere alla semilibertà al carcere di nuovo

L ha passato una gran parte della sua vita in carcere, negli ultimi anni ha ottenuto la semilibertà e ha iniziato a lavorare fuori dalle mura dell’istituto per rientrarvi la sera. Con l’emergenza sanitaria Covid-19 ha avuto la possibilità di usufruire della licenza premio straordinaria che gli ha permesso di stare fuori sia giorno che notte anche se con delle misure di controllo; questa occasione per molti come lui ha rappresentato il concretarsi di un principio di vita “normale”. 

Per circa due anni è rimasto in una struttura di accoglienza gestita da PID, ma nel momento in cui – con la chiusura dell’anno 2022 – non è stata rinnovata la  misura contenuta nel decreto Cura Italia è tornato nella sua cella. Come L, sono in 700 i detenuti che sono tornati in carcere dopo aver vissuto fuori negli anni della pandemia. 

La storia di L è rappresentativa di una situazione contraddittoria e sicuramente controproducente, nel senso che porta a riflettere sul lavoro svolto da queste persone in questi anni, sulle sfide che hanno affrontato per costruirsi una realtà diversa da quella che hanno vissuto non solo in carcere, ma anche da quella della loro vita precedente alla detenzione stessa. Sfide vinte e passi avanti che inevitabilmente ora sembrano quasi vani, a chi è tornato a dormire nel buio della propria cella proprio quando sembrava riuscire a vedere la fine della sua condizione ristretta.

L continua a frequentare gli ambienti del PID nelle ore di reperibilità previste dal suo programma di trattamento, fortunatamente ha il continuo appoggio della sua famiglia e spera presto di ottenere l’affidamento in prova ai servizi sociali

Dal carcere alla semilibertà all’affidamento in prova

Ricordo quando A mi ha raccontato che dopo anni di reclusione gli è stata data l’opportunità di uscire per la prima volta in permesso premio, mi ha detto che da allora il suo percorso in carcere è cambiato molto. 

La fiducia che gli ha mostrato quel Magistrato è stato un dono prezioso, gli ha permesso di scegliere di voler vivere una vita diversa nonostante gli anni di detenzione che aveva ancora davanti. Mi ha detto che non dimenticherà mai quella persona e che per rispetto verso di lui e verso la sua fiducia ha iniziato a pensare di poter uscire un giorno e costruirsi una vita “normale”. 

Infatti A ha ottenuto la semilibertà e ha iniziato a lavorare fuori dal carcere; con l’emergenza sanitaria è riuscito ad ottenere la licenza straordinaria durante la quale ha alloggiato in una struttura di accoglienza gestita da PID. E ora è in affidamento in prova ai servizi sociali, tra meno di un anno sarà libero. 

A è riuscito ad andare al compleanno del nipote, a passare il Natale in famiglia, a riacquistare gli spazi affettivi che a lungo sono stati lontani. 

 

Le misure alternative alla detenzione possono metaforicamente rappresentare un ponte tra il dentro e il fuori. Gli individui che riescono ad accedere all’alternativa del carcere hanno modo di recuperare più in fretta e con più efficacia il rapporto con un ambiente saturo di stimoli, re-imparare a dargli significato e concretamente iniziare un nuovo percorso di vita.

Per conoscere nel dettaglio le misure alternative vi consigliamo di leggere direttamente il testo della Legge 26 luglio 1975 n. 354

 

Alessia Massaroni