Cooperativa sociale che offre servizi di ascolto, orientamento, formazione, accoglienza rivolti a detenuti/e, ex detenuti/e e persone che vivono in condizione di disagio sociale.

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Reato universale – altri modi di dire alle donne come gestire il proprio corpo

Presupponendo qualche potere trascendentale sui corpi e sulle vite delle persone con utero, ecco che in Italia, la tanto attesa mano di ferro portatrice di ordine e sicurezza – schierata contro “l’ideologia gender” in nome di un caotico ginepraio che sarebbero “i valori de ‘na volta” – arriva a definire i termini per i quali la gestazione per altri sarebbe un reato universale.

Fa un po’ ridere il pensare le cose in termini universalistici quando, perfino in questo paese di conservatori, esiste una buona parte della popolazione che grida l’esigenza di uno sguardo intersezionale sulle cose del mondo.

NB. Guardare all’intersezionalità è una pratica promossa dai movimenti femministi e transfemministi che presuppone la consapevolezza della complessità della realtà, costruita su relazioni di potere e di subordinazione che producono le marginalità le quali hanno TUTTE necessità di essere considerate, ascoltate, viste, ecc. Questo, molto in breve, vi rimando alle parole di Sabrina Marchetti per una riflessione:

«Nel momento in cui ci accingiamo a parlare di “diversità”, siamo immediatamente obbligati a confrontarci col fatto che di “diversità”, ogni persona, rispetto alle altre e rispetto alla società nel suo complesso, non ne ha una sola.»

Fa un po’ meno ridere la pretesa dello stato di diritto di criminalizzare bambine, bambini, genitori e intere famiglie che hanno la loro quotidianità, esistono e continueranno a farlo nonostante il reato sia da mercoledì ufficiale. E per quelli che verranno?

Che poi c’è da ingegnarsi per capire quale problema rappresenterebbe per l’Italia se una persona mette a disposizione la propria capacità gestazionale per un’altra che non può ma vuole avere figli o figlie. Reato di cosa? Sarà forse che siamo spaventati dalla complessità del mondo? Notiziona, complesso lo è sempre stato il mondo.

«La frammentazione dei ruoli genitoriali accettati della paternità e della maternità (Parkin, 1997), che deriva dall’applicazione delle tecniche di riproduzione assistita, ha spinto in avanti la distinzione, ben nota nell’antropologia classica, tra genitore-genitrice e padre-madre sociali con la filiazione materna che può sdoppiarsi nelle sue due componenti costitutive, darsi separatamente come una maternità genetica oppure come una maternità gestante. Fino a cinque persone possono risultare coinvolte, nel caso in cui entrambi gli aspiranti genitori (genitori di intenzione) siano sostituiti nelle loro funzioni genetico-procreative da un donatore di spermatozoi, da una donatrice di ovuli e da una gestante incaricata di portare avanti la gravidanza, nella cosiddetta surrogacy gestazionale (gestational surrogacy).» – Antropologia delle famiglie contemporanee, Simonetta Grilli

Fa ancora più ridere l’ipocrisia insita nelle pratiche di governo dei corpi delle donne che le investe di un duplice fardello: da un lato macchine riproduttrici di lindi e pinti nuovi cittadini, dall’altra criminali che utilizzano le stesse funzioni biologiche richieste dalla società per essere considerate a tutti gli effetti delle “vere donne” per permettere ad altre vite di colorarsi con l’arrivo di nuove vite. Cioè detta molto semplicemente: le persone che vogliono figli ma non possono averli (per le motivazioni più disparate) continuano a non poterli avere MA le persone che non vogliono figli ma restano incinte (per le motivazioni più disparate) non possono interrompere la gravidanza. È caotico? Non ha molto senso? Sì, ma a quanto pare è così. E buona pace alla libertà di autodeterminarsi in un paese libero.

Oltre la solita polemica, cosa s’intende per reato universale?

Mercoledì 16 ottobre la proposta di legge FDI viene approvata. Ebbene la gestazione per altri, chiamata spesso e impropriamente “utero in affitto”, diventa reato universale: ergo, sarà perseguibile in Italia chi farà ricorso alla GPA anche se all’estero.

«Anche se ci sono forti dubbi sulla sua applicabilità, secondo diversi giuristi la legge avrà comunque ricadute concrete sulla vita delle persone che vorranno far ricorso alla GPA: potrebbero andare infatti incontro a un processo, accusati di un reato che comporta il carcere o una multa elevata.» – Il Post

È davvero frustrante dover leggere queste cose, pensarle reali, dover ribadire ancora una volta la libertà personale di scegliere come condurre la propria vita. Perché di questo parliamo, di vita.

Una vita donata diventa reato. 

“La morte nel mio lavoro arriva sempre per telefono”

Le riflessioni di Laura dopo la notizia del suicidio a Ponte Galeria di una donna con la quale aveva lavorato 

Penso che la morte sia una cosa della vita, una di quelle dolorose. Ogni volta che mi ci sono trovata a contatto ho sempre avuto la sensazione  che la notizia mi arrivasse  da lontano, come un’eco che ti risuona dentro nel vuoto che quelle parole creano, il vuoto che fa spazio alla sensazione di dolore che presto ti avvolgerà e riempirà quel tempo del corpo inizialmente ed apparentemente sconfinato. Di fronte alla scomparsa di persone più o meno importanti della mia vita ho saputo istintivamente come comportarmi, ho capito che dovevo  imparare a dare un senso alla morte, trovarle un perché e ancor più quando questa si è presentata in maniera inaspettata e violenta, ogni volta sono riuscita a  tirarne fuori qualcosa.

 

Ma cosa bisogna provare se una persona per cui hai lavorato, per cui  e con cui hai cercato di costruire una via d’uscita da una vita che non le appartiene più, cosa bisogna provare se ti telefonano e ti dicono che questa persona si è impiccata a Ponte Galeria per la paura e la vergogna di essere  rimpatriata in un paese che era il suo solo anagraficamente? Qualcuno  mi dica cosa devo sentire.

 

Leggere una notizia del genere sul giornale  e darle un volto, una storia, una voce, un modo di parlare, degli occhi, un sorriso, pensieri, paure. Ecco questo cambia tutto. Lentamente diventa un fatto di cronaca, e i giorni, il tempo allontanano l’inquietudine ma lasciano spazio alla rabbia  che ara con calma un largo terreno dove  a coltivare riflessioni, quello che germoglia in breve tempo è frustrazione.

La sensazione viscerale si sviluppa nel distacco emotivo, un distacco necessario a sopravvivere per chi lavora “materiale umano”, e diviene impotenza dirompente, non è né il primo nell’ultimo nome che leggerò sul giornale,  ma solo incrociando la vita di questa donna, mi sono realmente resa conto che non sono solo nomi quelli che leggo, non che prima non lo sapessi, ma realizzarlo è differente.

 

La vita della gente sulle pagine dei giornali. E ognuno pensa  ciò che vuole, ognuno ha una sua opinione, in molti non battono ciglio, la vita di una persona nera fa meno notizia dell’ultima gaffe del presidente del consiglio, altri si arrabbiano, ma quanti poi alla fine si rendono conto di quello che stanno leggendo? Parliamo di persone il cui destino è scritto. Non lo è  nello “scegliere” di essere migranti, perché nella maggior parte dei casi non si tratta di scelte e per capirlo basta cercare di vestire altri i panni ed immaginarci a lasciare casa, affetti, figli, cultura, tutto quello che ci dà stabilità e  sicurezza, le uniche cose che rimangono ferme, immaginiamoci a salire su un aereo con un passaporto, 500 euro e una valigia se va bene e se va male a salire su un’imbarcazione di notte, nascosti, stipati come bestie e domandiamoci è una scelta questa? Domandiamoci qual è l’alternativa ad una scelta del genere? Il destino di queste persone è scritto e per la maggior parte di loro in percorsi di illegalità che sono lì pronti ad accoglierli e non è un segreto.

La cosa peggiore non è però che ci siano strade segnate dal passaggio di migranti e molte simili tra loro fatte spesso di fughe, violenze, arresti, droga, spaccio, prostituzione, furti e spesso necessariamente tossicodipendenza, l’orrore è capire che non è una strada ma una gabbia senza via di uscita studiata nel dettaglio da una società che ha bisogno di queste storie di queste vite per sopravvivere e produrre controllo. E mentre da una parte porta avanti la vecchia vecchissima deportazione di schiavi in catene che servono alla manodopera fondamentale per ogni paese (che oramai è troppo bassa quasi per chiunque  altro), dall’altra alimenta il razzismo e i conflitti mentre si copre di cristiana pietà.

 

La morte nel mio lavoro arriva sempre per telefono. Ahimé, ho una memoria fotografica e non dimentico mai un viso. E mentre quelle parole arrivano come un’eco, quello che visualizzo sono gli occhi delle persone e subito dopo la scena, come se fossi stata io a trovarle. Spesso e volentieri appese a una corda, perché tra i disperati impiccarsi va per la maggiore. Immagino la disperazione e quell’attimo. Perché di un attimo si tratta, di oscurità dove pensi che non ci sia alternativa alcuna se non questa. Vorrei potermela prendere con qualcuno vorrei che i meccanismi subdoli del potere avessero solo un volto, ma anche la dittatura si è modificata e continua a farlo proprio come un virus creato in laboratorio che  muta continuamente forma per non essere neutralizzato. Ma oggi è diverso, il fascismo è diverso e probabilmente dovrebbe avere anche un altro nome. Quella che abbiamo intorno è una dittatura mediatica infida, frutto di un lavoro lungo anni, fatta di pubblicità, televisione, di giornalismo pornografico, fatta di supermercati e di “formule” usa e getta, fatta di sfruttamento e di consumo e competizione che serve a dividere. Non è un nemico che si palesa ed è dunque difficile da individuare e combattere. Dico combattere perché è della nostra vita che si parla, perché tutti i meccanismi perversi sono riusciti ad entrarci dentro, nelle relazioni private, nei contesti lavorativi, nelle famiglie dentro ognuno di noi, ma  ognuno di noi può scegliere di ignorare o di non farlo, può scegliere di ignorare il trafiletto sul giornale che dice “clandestina si impicca” o può cominciare a farsi delle domande…e sarebbe già un buon inizio.

IPM – 365 giorni dopo il decreto Caivano

Le prevedibili, perniciose conseguenze ne Il dossier di Antigone sull’emergenza negli IPM

Sugli IPM italianiIstituti penali per minori – e sulla tempesta che gli si è abbattuta contro con il decreto Caivano, avevamo già detto lo scorso febbraio delle terribili conseguenze che un certo tipo di approccio, punitivo, criminalizzante e oppressivo, avrebbero prodotto. Riportando le ricerche e le riflessioni dell’associazione Antigone nel rapporto “Prospettive minori”, avevamo messo in luce i punti maggiormente critici del decreto.

Nell’ottica di una dialettica causa-effetto osserviamo quali sono i mutamenti introdotti a settembre 2023 che hanno comportato e con tutte le probabilità continueranno a comportare la crescita delle presenze negli Istituti Penali per Minorenni: 

«La possibilità di disporre la custodia cautelare in particolare per i fatti di lieve entità legati alle sostanze stupefacenti». Secondo il rapporto di Antigone infatti, se nel 2023 le ragazze e i ragazzi in misura cautelare erano 243, a gennaio 2024 il numero sale a 340.   

«L’aumentata possibilità introdotta dal Decreto Caivano di trasferire i ragazzi maggiorenni dagli IPM alle carceri per adulti». Il rapporto ci informa che quasi il 60% delle persone detenute nelle carceri minorili sono minorenni, principalmente tra i 16 e i 17 anni. – Istituti penali per minorenni – gli effetti del Decreto Caivano secondo il Rapporto di Antigone 

Se a soli pochi mesi dalla sua promulgazione il decreto in questione aveva già fatto aumentare esponenzialmente il numero della popolazione detenuta minorenne in Italia, quali sono le condizioni degli IPM un anno dopo?

«Non avevamo mai visto nulla di simile. Nonostante la nostra lunga esperienza nel monitoraggio delle carceri italiane, è la prima volta che troviamo un sistema minorile così carico di problemi e denso di nubi. La nostra preoccupazione cresce di giorno in giorno. Non riusciamo a immaginare come potrà finire questa storia.» – Dossier di Antigone

Prima di tutto quindi, l’aumento delle presenze negli IPM (+16,4%): un fondamentale passo indietro rispetto al passato in cui gli istituti penali per minori italiani si facevano portavoce di un sistema educativo che prevedeva per ragazze e ragazzi azioni e misure alternative più efficaci rispetto ad esempio a quelle previste per il sistema penitenziario per adulti. Se nel 2019 la popolazione detenuta minorile contava 382 persone su tutto il territorio nazionale, nel 2024 abbiamo un numero di presenze superiore a 500: una vetta mai raggiunta e per giunta in crescita. In crescita, come non è invece il numero di denunce e segnalazioni nei confronti dei minori. Tra l’altro, è anche da considerare, come scrive Antigone, che:

«sarebbero ben di più i ragazzi oggi in IPM se non fosse che il decreto in questione ha permesso il trasferimento al sistema degli adulti di tanti ragazzi che, avendo commesso il reato da minorenni, avevano compiuto la maggiore età.» – Dossier di Antigone

A sorprenderci poco sono poi le problematiche legate all’aumento delle presenze che riguardano il sovraffollamento, le condizioni di precarietà e la gestione repressiva delle proteste che non vengono ascoltate. 

Metà settembre 2024, 569 presenze negli IPM, tasso di affollamento medio del 110%. A superare la capienza media sono 12 istituti su 17.  Ricordiamo che dietro i numeri ci sono le persone con le loro storie e in questo caso, ci sono ragazze e ragazzi.

La situazione fotografata da Antigone (che vi invitiamo ad approfondire) ci lascia un forte senso di ingiustizia perché ancora una volta, a fronte di un evidente e lampante disagio giovanile e sociale si preferisce «assumere, sui castighi, la prospettiva della tattica politica». (“Sorvegliare e punire. Nascita della prigione.” Michel Foucault.)

Vita in carcere

Fuori dal contesto di criminalità in cui è entrato da giovanissimo, dopo anni di reclusione e vicino come non mai alla libertà, C riflette sulle condizioni che hanno accompagnato la sua vita in carcere.
In un periodo storico in cui le pene aumentano a dismisura, la criminalizzazione delle marginalità si moltiplica e le vite recluse perdono continuamente fette fondamentali della dignità umana, ragionare sui contesti non è mai stato forse così importante, o forse lo è sempre stato ma non si è mai fatto abbastanza.
Ridurre tutto agli atti delinquenziali senza pensare ai vissuti delle persone che li hanno commessi è il rischio che conduce a pensare attraverso categorie escludenti che invece di combattere la violenza e la criminalità l’alimentano con sempre nuove e più subdole forme. Oggi guardiamo la realtà per quella che è attraverso le parole di C ma non solo, guardiamo a quella realtà nascosta del carcere, guardiamo alle sue contraddizioni e alle sue ipocrisie ripercorrendo alcuni ricordi di chi è uscito a fatica dal 41bis.   
LE PAROLE DI C

Scorcio di vita in carcere 

Quando mi hanno dato il permesso e quindi ero uscito dal 41bis, andavo a discutere una cosa che si chiama “Collaborazione impossibile”. Cioè questo giudice doveva prendere tutte le sentenze dei miei processi ed esaminarle. Per dire, io e Tizia andiamo a fare un omicidio, il giudice dice che se questo fatto è stato commesso da voi due ed è stato tutto chiarito tu puoi accedere al beneficio. Diciamo ad esempio che dopo l’omicidio vado a buttare la pistola e questa pistola non si trova, il giudice dice che non è tutto chiarito. A me era tutto chiarito perché avevamo un tot di collaboratori di giustizia di cui uno di questi stava con me notte e giorno. Allora mi hanno dato il permesso, nel senso che mi hanno dato accesso ai benefici. Da quel momento non sono più considerato un mafioso. Allora la prima cosa qual è? Quella di prendere un non mafioso e toglierlo da in mezzo ai mafiosi. O no? Il giorno prima del permesso un agente mi chiama ad alta voce – per far sentire a tutti – chiedendomi l’orario in cui sarei uscito. Sono stato sommerso dai bigliettini, chi voleva una cosa, chi un’altra. Mi arriva un bigliettino con un numero di telefono, chiedo all’agente cosa devo fare: buttarlo, consegnarlo o fare la telefonata? L’agente guarda il bigliettino e me lo ridà, affermando fosse solo un numero di telefono, quindi potevo tenerlo senza problemi. Dopo 10 minuti vengo chiamato dal comandante che voleva farmi rapporto! Ho capito che mi avevano incastrato e in seguito alla mia reazione un po’ violenta, mi sono fatto 11 giorni di isolamento. Dopo 6 mesi da un rapporto disciplinare si può accedere nuovamente ai permessi. Io sono uscito dopo 5 anni! Tra l’altro quando è successo questo fatto io stavo discutendo la semilibertà, quindi sarei potuto uscire molti anni fa.

 

Sono stato trasferito in un altro carcere. Quando sono arrivato l’educatore che ha fatto? Si è seduto con le mie carte davanti, mi ha guardato e mi ha detto: “Ma lei non sarebbe mai dovuto uscire dal carcere, ma chi l’ha autorizzato?”

“Come infatti mi è costato cinquanta mila euro il primo permesso”.

“Lei fa anche dell’ironia!”

“Il magistrato mi ha fatto uscire, mica sono uscito io…”

“Eh ma qua non funziona così”.

Dopo due giorni la direttrice mi chiama e mi dice: “Qua non succederà mai che lei possa uscire dal carcere senza il mio parere favorevole” io l’ho guardata e le ho detto “Va bene”. 

 

Per quel parere favorevole, 5 anni. Dopo che gli abbiamo allestito una bellissima pasticceria, pe’ 5 anni hanno mangiato dolci gratis…

L’incarcerazione come sport olimpico nazionale

Si scherza? Non saprei. Parliamo ancora di sovraffollamento, di un tasso di suicidi ormai ben più che allarmante (siamo oltre i 70), un’emergenza carceri continua, che peggiora, si dilata a macchia d’olio e che svela le ipocrisie del sistema penitenziario italiano. Chiamarla ancora “emergenza” è quella moda che non passa mai, un po’ come quando si parla, nel pieno del fenomeno del cambiamento climatico, di emergenza ambientale e c*z*i vari. Ne parliamo ancora con tutto il rischio di sembrare monotematici: le problematiche delle carceri italiane sono strutturali, fanno parte del sistema che alimentano e no, non sono risolvibili aumentando le possibilità di incarcerazione. 

«A dire il vero, quando si parla di sovraffollamento in carcere, non si può più definirla un’emergenza: il nostro sistema penitenziario è in sovraffollamento strutturale dall’inizio degli anni ‘90 del secolo scorso.» – Stefano Anastasia per La Notizia.

Vorremmo condividere quello che il Garante dei diritti delle persone private della libertà del Lazio ha affermato in questi giorni, non perché a dirlo è stata una figura istituzionale, ma perché siamo totalmente d’accordo con lui! 

A cosa serve costruire più istituti penitenziari e dare più opportunità di accesso alle misure alternative, se aumentano i reati e le magiche soluzioni detentive per le persone che non sono in linea della normatività sociale? Ci sembra veramente assurdo, eppure c’era da aspettarselo, quello che viene normato con il nuovo Decreto Sicurezza: l’introduzione del reato di protesta (quindi la resistenza non violenta) è un grandissimo attacco alla democrazia. Immaginiamo, anzi rendiamoci conto che a essere criminalizzate sono tutte quelle persone che si battono per esprimere un dissenso, un parere, un ideale sfavorevole o contrario nei confronti della classe politica dominante e del suo operato. Si scherza? Purtroppo, ancora no. E queste persone rischiano il carcere. 

Pensiamo alla classica chiacchierata da bar: le persone detenute vengono dipinte come il peggior male della società, le stesse che sono per la maggior parte rinchiuse per reati che non ledono la persona…

«[…] tra le cause del sovraffollamento possiamo escludere l’aumento dei gravi reati contro la persona o contro la sicurezza pubblica, che non ha traccia nelle statistiche ufficiali. Il sovraffollamento, dunque, è in senso proprio un abuso di incarcerazioni che non risponde a reali esigenze di sicurezza e che non riesce a essere fronteggiato dalla pur enorme crescita delle alternative alla detenzione. Se ne dovessi individuare due cause, le indicherei nella fragilità di un sistema politico-istituzionale privo di effettiva rappresentatività e dunque votato a politiche populiste, particolarmente propense a un uso simbolico della giustizia penale, e nella progressiva desertificazione dei servizi di sostegno e integrazione della marginalità sociale, inevitabilmente destinata a finire in carcere in assenza di qualsiasi altra politica degna di nota.» – Stefano Anastasia per La Notizia.

Viviamo in questo mondo qui, dove non basta l’incarcerazione illegittima dei migranti nei CPR, non basta dare la possibilità alle persone minorenni di essere recluse in attesa di giudizio, non basta che le proteste vengono sedate col sangue dai manganelli fomentati dello stato di polizia, non bastano le gesta disperate di chi sceglie di porre fine alla sua vita tutto questo non basta per ragionare sulle condizioni di una società che perisce sotto le promesse inattese di albe raggianti che non sorgono mai. 

«Il governo pensa di dare soddisfazione al personale penitenziario, legittimamente frustrato dalle proprie condizioni di lavoro in carenza di organico e in ambienti fatiscenti e sovraffollati, bastonando i detenuti, come propone con l’introduzione del nuovo reato di ‘rivolta in carcere’, che sarà attribuibile anche a tre detenuti che si rifiutino pacificamente di rientrare in cella perché vogliono rappresentare al direttore, al magistrato di sorveglianza o al garante qualcosa che non funziona in cella o nella loro sezione. In questo modo, però, non si fa altro che esacerbare gli animi e rendere più difficile il lavoro del personale penitenziario e, in particolare, degli agenti che lavorano in sezione, a diretto contatto con i detenuti. Servirebbe, invece, lavorare per rendere possibile l’azione rieducativa delle istituzioni penitenziarie, a partire dall’adeguamento delle risorse umane ai bisogni della popolazione detenuta. Quindi, certamente va riempito l’organico della polizia penitenziaria, come si è fatto con gli educatori e come si sta facendo con i dirigenti, ma poi vanno ridotte le presenze in carcere a quei detenuti la cui gravità della pena consente e necessita l’opera rieducativa di cui la polizia penitenziaria è gran parte, restituendo al territorio quella marginalità sociale che invece ha bisogno di servizi di sostegno per una vita autonoma e indipendente nella legalità». – Stefano Anastasia per La Notizia.

La tortura in carcere – fattore endemico e culturale?

Alessia

Stamattina ascoltavo in treno il podcast “Chiusi dentro” di Massimo Razzi e Gabriele Cruciata prodotto in collaborazione con l’Associazione Antigone nel 2021. Una questione in particolare mi ha stretto le viscere, ancora una volta, quella della tortura nelle carceri italiane.

Era il 2017, appena poco prima che diventassi maggiorenne, di carcere poco conoscevo anche se già molto mi interessava e per la prima volta, con la scuola, sono entrata in un istituto di pena, dalle mura grigie, spesse, infinitamente alte. Ero una “bambinetta” alle prime armi e non avrei mai pensato che effettivamente poi quelle persone che abitavano in quegli spazi fatiscenti, minuscoli, sospesi, sarebbero diventate le persone con le quali oggi mi trovo a confrontarmi spesso (e volentieri!).

 

Era quindi solo il 2017, solo così di recente e dopo appena 30 anni dalla ratifica ONU del ‘97 è stato inserito tra i reati in Italia quello di tortura. Ne avevamo parlato qualche tempo fa anche nell’articolo “È vietata la tortura: il XIX Rapporto di Antigone sulle condizioni di detenzione”, ricordando dapprima come il nostro Codice penale definisse la tortura: quella serie di azioni che producono una profonda sofferenza fisica e/o psichica alle persone già prive della propria libertà. Dunque violenze di ogni genere, intimidazioni continue e durature nel tempo considerate – a buona ragione – fattori di degrado per la dignità della persona che le subisce. 

 

Nella puntata del podcast dedicata proprio alla tortura, all’ergastolo ostativo e al 41bis, “Fine pena quando” – che vi invito ad ascoltare –  tra le varie voci che incontriamo c’è anche quella di  Lorenzo Sottile: “un dottorando in diritto pubblico specializzato in carcere e tortura” che ha svolto attività di volontario in varie carceri europee e sudamericane. La tortura negli istituti di pena italiani, dice, è una questione endemica e culturale, a differenza di altri paesi, la stessa formulazione del reato di tortura nel codice penale “si presta a molte critiche”. La vaghezza e la discrezionalità di cui parla Sottile sono la caratteristica peculiare non certo solo di questo tipo di testo calato dall’alto in Italia. Si conferma la presunta tortura, ad esempio,  dopo aver comprovato i traumi a livello psicologico della persona che l’avrebbe subita. Come? In che modo? Con quale criterio? 

«In altri Stati se si fa riferimento alla normativa nazionale ovviamente la regolamentazione è differente, quindi anche un certo tipo di atto o violenza  fisica intenzionale o anche non intenzionale può essere ritenuto un atto di tortura.» – Lorenzo Sottile

Endemico e culturale quindi, una cosa tutta all’italiana – anche se non credo sia proprio così – quella di concepire il carcere come vendetta, di punire e sorvegliare panotticamente le persone già private della loro libertà, di produrre un’istituzione in cui gli attori sociali principali, agent3 e detenut3, sono in relazione tra loro alla “gatto e topo”. Dove il gatto è legittimato a ridurre in poltiglia il topo, a costruire trappole, a farlo vivere nella paranoia, a ricordargli tutti i giorni, in ogni minuto che la sua vita non è più vita. Molti infatti, magari pure in attesa di quella visibilità dei traumi psichici necessaria per confermare l’avvenuto atto di tortura, la vita scelgono di abbandonarla. Siamo oggi a 69. 

 

A fronte delle evidenti problematiche strutturali degli istituti di pena italiani, le risposte sono violente e legittimate! Ce lo conferma ancora una volta la vaghezza con cui si parla del reato di tortura. Si sceglie la via della repressione delle rivolte senza ascoltarne le ragioni. Reprimere, punire e alimentare di conseguenza un ciclo di violenza che no, non si esaurisce nella “discarica sociale” dove nessuno pare voler guardare. 

Non volendo generalizzare, voglio ricordare una cosa secondo me fondamentale per capire meglio che ad essere fallimentare è proprio questo sistema carcere: a morire di carcere non sono solo le persone detenute, sono anche gli agenti che ci lavorano. Questo dovrebbe far riflettere.

Intimità e affetti in carcere

Nel Ventesimo rapporto sulle condizioni di detenzione “Nodo alla gola” dell’Associazione Antigone, uno dei focus su cui si fa luce ancora una volta è quello che riguarda la negazione degli affetti in carcere

«L’intimità degli affetti non può essere sacrificata dall’esecuzione penale oltre la misura del necessario, venendo altrimenti percepita la sanzione come esageratamente afflittiva, sì da non poter tendere all’obiettivo della risocializzazione.» – parte delle ragioni mosse a sostegno della sentenza n. 10 del 2024 della Corte costituzionale sulla legittimità dell’art. 18 della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà). 

Durante il mio percorso all’interno della Cooperativa PID ho avuto modo di conoscere in prima persona diverse storie di vita reclusa, riascoltando le loro voci o rileggendo le loro parole, tra le diverse esperienze, i differenti modi di affrontare il carcere e gestire gli effetti della prigionizzazione, uno degli elementi che torna sempre è quello del contatto con le persone care.

“Io sono fortunato perché ho avuto la mia famiglia sempre vicino”.

“La mia forza è stata la mia famiglia, mia moglie con i miei figli”. 

A dicembre il nostro L aveva scritto già qualcosa al riguardo, definendo il detenuto come un “adultolescente” anche a causa della negazione da parte dell’ordinamento penitenziario dell’affettività sessuale in carcere. Qualcosa che negando il diritto all’intimità incide sui processi di trasformazione della persona detenuta e del suo corpo nell’involucro depersonalizzato che il sistema carcere plasma. 

«Ti accorgi, con Io sguardo perso nel vuoto/che c’era un “prima” ma che forse non ci sarà un “dopo”. Si finisce con il dissipare un legame o quantomeno si rischia di ridurlo ad un guscio vuoto. C’è una regressione “adolescenziale” del detenuto che si rassegna alla “piattezza” della vita quotidiana dietro le sbarre.» (Leggi qui “Il detenuto adultolescente”)

Degno di nota certamente il fatto che la Corte abbia accolto la sentenza del Magistrato di sorveglianza di Spoleto che abbiamo accennato prima, in quanto si presuppone che dietro questo atto vi sia un cambiamento di prospettiva proprio nella concezione della pena detentiva, per la quale non si dovrebbe appunto essere spogliati di tutte le cose che rendono una persona umana. Come ricorda Antigone non è questa la prima sentenza che si pone la questione spinosa dell’affettività in carcere – oltre quella più strettamente relativa all’intimità sessuale, anche quella delle relazioni sociali delle persone detenute con i propri cari più in generale. Rispetto al passato, l’attuale Collegio ha saputo dare risposte più concrete tentando di suggerire alla legislatura come muoversi per garantire alle persone private della propria libertà l’affettività e l’intimità, pur tenendo conto delle logiche securitarie che governano il sistema carcerario. Nonostante questo, nessuna proposta è stata mossa fino ad oggi.

«Non possiamo infatti non osservare che il legislatore, inteso sia come Parlamento che come Governo, mantiene una sostanziale inerzia, non risultando alcuna iniziativa in atto. Le indicazioni puntualmente formulate nella senza della Corte in tal modo sembrano indirizzarsi solo alle amministrazioni, centrale e periferiche, ed alla magistratura di sorveglianza. Il che reca con sé il rischio che si possano avere risposta assai diverse da un luogo ad un altro, con disparità di trattamento ancor più odiose dopo la pronuncia della Consulta. Senza contare che occorrerebbero stanziamenti ad hoc, oggi neppure ipotizzati.»

– Antigone Onlus (Leggi qui per saperne di più)

Alla ricerca del tempo perduto

Osservazioni sulle riforme dell’Ordinamento Penitenziario in Italia

MULLI – 12 agosto 2024

Sono passati esattamente ad oggi undici anni dalla costituzione con DM 2 luglio 2013 della Commissione Giostra, dal nome del suo Presidente docente di Diritto Processuale Penale alla Sapienza di Roma, meglio denominata “Commissione di studio per elaborare una proposta di interventi in tema di ordinamento penitenziario e in particolare di misure alternative alla detenzione”.

Gli atti della Commissione sono rimasti lettera morta, e le sue numerose pagine, possono essere tuttalpiù utilizzate per “incartar sardelle” rubando il termine a Giannone in relazione alle leggi e alla interpretazioni di Giudici e Avvocati del Regno di Napoli rimaste inascoltate, meglio inapplicate.

L’unica riforma, quella riconducibile a Guardasigilli Orlando del Governo Renzi del 2018, volta a modificare il nostro sistema carcerario restò lettera morta e il progetto di legge fu affossato dagli esecutivi successivi, sia di destra che di sinistra, succedutesi negli anni. Per estrema viltà, o meglio per mancanza di coraggio nell’adottare soluzioni migliorative alla condizione di chi era ed è condannato a pena definitiva o detenuto, di fronte ad un’opinione pubblica che non avrebbe ben compreso le profonde ragioni degli interventi diretti a migliorare l’Ordinamento Penitenziario.

 

Né di riforma sostanziale si può scrivere riguardo alla cd Cartabia, che si è limitata a modificare ed ad attuare a distanza dalla Legge di Depenalizzazione, la 689 del 1981, il sistema delle pene alternative alla detenzione, con un ritardo di oltre quaranta anni, riconoscendo anche ai Giudici del Processo rispetto a quelli di Sorveglianza la facoltà di applicarle in casi ben determinati, con aggravio di attività da parte degli Uffici di Esecuzione Esterna (UEPE).

Una goccia nel mare. Né certamente si può scrivere di modifica del nostro Ordinamento Penitenziario, in riferimento al Progetto di Riforma cd Nordio, appena licenziato dalla Camera.

Anzi nel leggere il contenuto della norma, è evidente a tutti, che la soluzione del Problema Giustizia, non può, da parte mia aggiungerei non deve, risiedere solo ed esclusivamente nella previsione di un piano di intervento per la realizzazione di nuovi istituti carcerari, ma deve necessariamente comportare soluzioni immediate a migliorare l’attuale condizione personale di chi è detenuto o per pena definitiva o in alcuni casi, troppi per la verità, in attesa di giudizio.

Anche la possibilità per chi detenuto, di attivarsi il lavori di pubblica utilità, con nuovo comma introdotto nell’Art. 21 OP, non rappresenta una novità, limitandosi a riproporre quanto già disposto nell’Art. 20 ter, norma rimasta per lo più inattiva, se non in alcuni Istituti Carcerari per illuminata Volontà di chi li dirigeva, e non comportando benefici carcerari in relazione alla pena da scontare di chi usufruisce della misura.

Poco o nulla in breve, e non mi dilungherò ulteriormente, tranne che per rimarcare, se ce ne fosse ulteriore necessità, che nel frattempo chi è detenuto continua a patire condizioni indegne, con esperienze che definire devastanti è riduttivo e che di conseguenza, chi non riesce a venirne fuori, non trova altra soluzione che porre fine alla propria esistenza in questa torrida estate del 2024, nell’assoluto silenzio della politica, che non è in grado, o meglio non vuole, mettere fine a questa situazione che rappresenta, prima che una vergogna, un fallimento non solo per le Istituzioni, ma per tutta la società civile.

Alla “Ricerca del Tempo Perduto” dunque, o meglio “Adelante Pedro con judicio”.

La morte di unə, il dolore di tant3

LIVIA

Due settimane fa abbiamo scritto un articolo sul sovraffollamento, il caldo e i suicidi in carcere.

Il tempo di pubblicarlo ed è uscita la notizia di un nuovo suicidio e poi di un altro, e poi di un altro ancora.

Tenere questo conto comincia a diventare difficile sotto tutti i punti di vista, solamente chi dovrebbe farsene carico, lo stato e chi lo rappresenta, sembra non avere difficoltà in merito.

Perché questo è importante sottolineare, il carcere è un’istituzione statale, come le scuole e gli ospedali per intenderci.

Tutt3 dovremmo interrogarci sul perché, invece, è diventato e viene percepito come un mondo a parte dove tutto può succedere.

 

Se già più volte ci siamo soffermat3 sul lato politico e sociale dei numerosi suicidi che stanno avvenendo, ora il nostro pensiero si sofferma sul lato emotivo.

La morte di una persona provoca dolore e spiazzamento, la morte per suicidio provoca una miriade di altre sensazioni e riflessioni.

E dietro la morte di una persona c’è il dolore di tant3.

In questi casi c’è il trauma di chi ritrova un corpo senza più vita, che siano poliziott3 o altr3 detenuti; c’è il dolore e lo stupore di chi fino a qualche ora prima aveva condiviso tempi e spazi ristretti; c’è soprattutto il dolore e la disperazione di chi è fuori e a quel “detenutə suicida” voleva bene.

Dolore al quale si aggiungono rabbia, perché il carcere dovrebbe custodire e non uccidere; rimorso, per non aver capito quanto poteva succedere; rimpianto, per un’ultima carezza mancata.

Le persone detenute che si stanno togliendo la vita sono esseri umani non numeri, proviamo ad immaginare cosa significa la perdita di una persona cara, proviamo a ricordare cosa abbiamo provato quando ci è successo.

 

Purtroppo sappiamo tutt3 che ci saranno altre morti e altre rivolte, in un effetto domino potenzialmente infinito.

Purtroppo sappiamo tutt3 che continuerà il silenzio istituzionale, figlio di un disegno repressivo ampio e ramificato.

Purtroppo sappiamo che anche le nostre sono solo parole, lette da poch3 e condivise da pochissim3, ma continueremo a scrivere, a lavorare, a lottare e indignarci finché avremo fiato.

Il genere come categoria culturale e il transgenderismo ristretto

ALESSIA

In punta di piedi incontriamo il transgenderismo, un altro arido concetto, sì. Dietro il quale sono occultate vite reali di persone reali che abitano proprio come te nella quotidiana incertezza di questo mondo precario. E no, non è certo divenuto così perché in giro c’è troppa frociaggine o per le sfilate dell’orgoglio gay.

È sempre facile cedere alla tentazione di stigmatizzare, escludere, curare, correggere chi devia dalla norma. Si fa “da sempre”, almeno da come leggiamo sui polverosi libri di storia.

Perché il casino delle categorie culturali è che appunto ci sembrano naturali, hanno la capacità di entrare nei nostri modi di fare, di parlare, di pensare e restarci, se non facciamo attenzione, anche per la nostra intera esistenza. E tu mi dirai, cosa me ne frega a me, ci vivo bene nella mia pelle di persona socializzata in conformità della norma. E sono qui per dirti che sbagli, sbagli a non vedere o a non voler vedere che dietro una categoria ci sono persone reali, fatte di carne come la tua e di esperienze di vita che richiedono scelte, affermano gusti, si accoccolano tra gli affetti, si pigliano il raffreddore e le botte di un bastone di giudizi che quando sono diretti alla propria identità, in quanto tale, possono uccidere oltre che fare male. E ancora ti dirò che pure l’identità è un concetto costruito e che come categoria, insieme a quella di corpo è sempre relazionale e mai naturale: l’io cioè ha bisogno dell’incontro con l’altro per definirsi altro da esso. 

 

Pillole antropologiche sul genere come categoria culturale

Questo sproloquio quasi romantico vuole servire per introdurre un’altra importante verità: il genere è una categoria culturale socialmente costruita, il dualismo di genere quindi – vedere il mondo diviso in due tra il maschile e il femminile – non è parte della natura della specie umana. Prendiamo ad esempio il concetto maussiano di tecniche del corpo, rimodellato poi da quello di incorporazione:  il genere è una tecnica del corpo. Un modo di muoversi, camminare, gesticolare, parlare, esserci nel mondo specifico di un gruppo di persone. Come noi ci serviamo del corpo nel mondo uniformandoci alla tradizione.

Mauss ha scritto del diverso modo di camminare degli anni venti delle donne tra i Maori della Nuova Zelanda. Onioi è come le madri insegnano alle figlie a camminare, tecnica di camminare in un “ondulamento staccato” che forse a un occhio occidentale può sembrare sgraziato, mentre “i Maori lo ammirano moltissimo”.

Bourdieu invece ha parlato del “senso dell’onore” e della “virilità” associati all’essere corpo maschio tra i Calibi d’Algeria. Queste espressività si costruiscono per opposizione a quelle forme e tecniche incorporate alla figura femminile che ancora nei modi di camminare manifestano le loro differenze.

«Il passo dell’uomo d’onore è deciso e risoluto in contrapposizione all’andatura esitante […] che denuncia l’irresolutezza, […] la paura di mettersi in gioco e l’incapacità dì mantenere propri impegni […]. AI contrario, dalla donna ci si aspetta che avanzi leggermente curva, con gli occhi bassi, evitando di guardare qualsiasi altro punto che non sia dove metterà il piede» (Bourdieu)

* Fonte: “Antropologia medica. Saperi, pratiche e politiche del corpo.” Giovanni Pizza.

Se il genere e la sua definizione binaria è una costruzione sociale, incorporata e naturalizzata dai nostri corpi che si muovono e sono nel mondo come hanno appreso di dover essere, allora chi ci dice che i generi non possano essere di più? O che le separazioni non siano poi così nette? Se essere umani significa produrre significati, perché arrestarci ora e non produrne di nuovi?

Transgenderismo ristretto

Osservare la società contemporanea e poi il carcere come specchio della stessa ci chiarisce subito l’elemento pregiudiziale ed escludente che ingabbia il concetto-persona in un’identità di cui si tracciano minuziosamente bordi netti.

Senza dar conto della fluidità del vivere, fuori come dentro, le persone transgender e più in generale gli appartenenti alla comunità queer sono invisibilizzati, stigmatizzati e sempre a rischio di insulti, percosse e violenze di alcun tipo. 

Se invisibile è spesso la persona reale dietro il concetto di transgenderismo, immagina la persona transgender ristretta in carcere, un mondo già invisibile di suo. 

Abbiamo più volte affermato riguardo all’istituzione penitenziaria come essa si strutturi secondo dialettiche e normative che tengono conto principalmente delle condizioni di vita della popolazione al maschile che costituisce la maggioranza della popolazione detenuta totale. In una netta scissione abitativa maschio/femmina dove si collocano le persone transgender? 

Di base succede che se si arresta una persona che pur avendo iniziato il percorso di transizione non ha ancora compiuto “la riassegnazione di sesso e genere anagrafico” – quindi se sui documenti risulta il sesso con il quale si è nati e non l’identità di genere dell’individuo – una donna trans (M to F) viene collocata negli istituti maschili e un uomo trans (F to M) è collocato negli istituti femminili. 

* La riassegnazione di sesso e genere anagrafico viene regolamentizzata in Italia con la Legge 14 aprile 1982, n. 164: “Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso”.

 

Aldilà delle iniziative dei singoli istituti penitenziari che prevedono in genere la creazione di una sezione apposita di contenimento delle persone trans, le normative penitenziarie non tengono conto delle soggettività plurali che abitano le condizioni ristrette del carcere.

È lampante la criticità delle persone che oltre ad essere dentro, chiuse e isolate dalla realtà sociale legale, sono ancor più ristrette nella riproduzione di un’esclusione sociale che le segrega in spazi altri, diversi e separati dall’altro lato della popolazione detenuta. A ragione di questo tipo di soluzione che gli istituti si trovano a dover mettere in atto c’è come si può immaginare un’attenzione particolare sull’incolumità della persona trans che può essere soggetta, nel contatto con la popolazione detenuta cis, ad azioni di violenza psicologica, fisica e/o carnale.

Sono possibili soluzioni nuove che tengano conto della dignità e dei diritti della persona reclusa? Spogliamoci dalle categorie che limitano il nostro sguardo, tentiamo di decostruire secoli di saperi e conoscenze prodotte dalla cultura che portiamo addosso come pelle.

Spelliamoci, dunque. Facciamo la muta come i serpenti. Non senti quanto sia necessario?

L’Italia che resiste, la notte dei miracoli.

All’Italia, una riflessione per il 25 aprile. A un’Italia che resiste.

LE PAROLE DI L

Questa non è “la notte dei miracoli” di Lucio Dalla. No, è la “notte dei diritti”.

Si manganellano studenti inermi nelle piazze, si cerca di svuotare nei contenuti il reato di tortura, si tagliano i fondi a scuole e sanità, poco ci manca, ma se sei in visita in un ospedale quasi ti cacciano via se non hai i soldi o una carta di credito “american express”, per pagarti le cure (più  o meno come avviene negli Stati Uniti). E poi, tenetevi forte, sono considerati più pericolosi i rave party che non i reati di corruzione. Si inventano nuove norme per rendere la Magistratura subalterna al potere politico con buona pace della separazione dei poteri.  Si vuole colpire con leggi pretestuose la libertà di stampa per ridurre così i giornalisti a semplici “marchette”. Nel mondo del lavoro se  sei un operaio edile sottopagato “in nero” e  non muori (perché hai cvl0) mentre svolgi la tua attività lavorativa, rimarrai comunque precario quasi per tutta la vita. Questo perché il lavoro è considerato merce. E ancora, si attaccano i diritti delle donne a cominciare da quello  sull’aborto mentre in Francia l’interruzione di gravidanza è previsto in Costituzione.  

Fosse ardeatine, visita 25/04/2024

L’Italia e la condanna del ventennio fascista

Negli ultimi anni ha prevalso la rimozione storica della  tragica esperienza del FASCISMO. Storicizzare il “ventennio” sarebbe un errore perché il fascismo le sue scorie sono come un virus che cambia continuamente sia pure con posture, “faccine”  ammiccamenti ruffiani e modalità diverse rispetto a quel periodo. Ce ne accorgiamo tutti i giorni.Sui diritti sociali, la libertà di pensiero e di opinione delle persone sembra ormai abbattersi un “vento gelido” ovunque nel mondo: con Trump negli Stati Uniti, Milei in Argentina, Orban in Ungheria, Erdogan in Turchia e con Putin in Russia per il  quale le destre estreme di mezzo mondo subiscono una perversa fascinazione.

Fosse ardeatine, visita 25/04/2024

Nel nostro Paese brandendo la fiamma tricolore della repubblica sociale, dei tempi del duce  vogliono  promuovere una riforma costituzionale “per un governo del popolo” che nei fatti rischia di diventare  un’arma impropria nelle mani di una “capa” (meglio un “capo”perché pare non gradisca la declinazione al femminile). Nessuno degli appartenenti a questa classe dirigente ha proferito una sillaba di condanna del fascismo. Abbiamo visto soltanto odiosi “siparietti” istituzionali con discorsi pronunciati con un rivolo di bava alla bocca. Per dirla con Crozza, per loro la “Resistenza” è semplicemente il “filamento della lampadina”… Le  superc4zz0le poi sul pericolo a loro dire della “sostituzione etnica” (temi tanto cari a Mussolini e Hitler) sono peggio di una manganellata.

Fosse ardeatine, visita 25/04/2024

Oggi, 25 APRILE, in moltissime piazze del Paese studenti lavoratori, lavoratrici, precari disoccupati, immigrati privi di qualsiasi diritto, senzatetto, persone detenute, quasi tutti senza prospettive concrete di lavoro… Gli ultimi e le ultime insomma, hanno detto con un gesto iconico a questo governo:“Tiè!”   Le sezioni dei partiti sono quasi tutte chiuse o non esistono più,  ma le piazze, i teatri e i concerti sono stracolmi di gente. Si riparte da qui,  proprio dalle PIAZZE. Con le armi della cultura, dell’arte e della comunicazione, perché tutto è politica.

 

È L’ ITALIA DERUBATA E COLPITA AL CUORE, PRESA A TRADIMENTO. L’ITALIA CHE SI DISPERA, L’ITALIA CHE SI INNAMORA. L’ITALIA CHE RESISTE!

Era il 1979, F. De Gregori, “W L’Italia”. Sembra ieri..                                                                                  

M49 , l’Orso 

Fosse ardeatine, visita 25/04/2024

Ricordi di mestruazioni ristrette: gli assorbenti in carcere

Mestruazioni ristrette: come vivono le donne il ciclo mestruale in carcere? Abbiamo chiesto a Maria di raccontarci la sua esperienza, i suoi ricordi di dentro relativi proprio alle questione della fornitura di assorbenti e delle condizioni in cui si abita l’istituzione totale penitenziaria. 

La testimonianza qui trascritta si inserisce nel più ampio progetto della Cooperativa P.I.D. “Assorbire il cambiamento”. Un progetto che ha lo scopo di portare un beneficio concreto alle persone recluse grazie alla donazione di materiali sanitari, di accendere l’attenzione della società, delle istituzioni e della cittadinanza sulla condizione delle donne recluse, nonché di raggiungere un cambiamento sistemico della questione affrontata.

Per saperne di più clicca qui

MARIA

Entrare in carcere: la dotazione

Quando entri in carcere ti viene assegnata una cella, un letto, se nella cella ci sono più persone e ti viene data una “dotazione”: le lenzuola, una specie di asciugamano, un asciughino per i piatti, bicchieri e posate di plastica e una saponetta. Poi, non è detto che te li diano all’inizio, ma comunque puoi chiedere un pacco di assorbenti al mese. Ovviamente sono indecenti come assorbenti, come qualità e soprattutto sono pochi.

A. «Quindi non ci sono le marche che girano fuori?»

No, sono cose di quelle tipo materassino, magari stretti e lunghi che comunque non si trovano in commercio… Sono quelle sottomarche che non so da dove vengono fuori, sicuramente ci saranno dei fornitori che producono proprio per il carcere, insomma.

A. «Immagino che poi non ti danno i vari “modelli” tipo il salvaslip o l’assorbente per la notte, eccetera…»

Ti danno un pacchetto standard che ti deve durare. Chiaramente il problema sta nel fatto che quasi tutto quello che ti danno loro non ti può bastare. Una saponetta non ti può bastare un mese. Una spugnetta, per dire, la spugnetta dei piatti magari un mese non basta. Quelle spugnettine per pulire si sbriciolano facilmente. Poi se vanno a contatto con la varechina è finita, so’ morte subito, istantaneamente. Quindi lì il problema… In carcere è sempre un problema di status economico, se hai qualcuno che ti può dare i soldi da fuori puoi comprare al sopravvitto che ne so, il bagnoschiuma, lo shampoo, eccetera. 

Poi dipende dalle carceri, ci stanno posti dove ti portano la lista per la spesa una volta a settimana, posti dove te la portano due volte a settimana e tu da lì tu puoi richiedere tutte le cose che stanno là. Se volevi particolari prodotti, un tempo lo richiedevi tramite domandina, ma dipende sempre dagli istituti. Da quello che so io, per esempio, adesso ai maschili fornirsi con le domandine è diventato quasi impossibile. Questo perché il fornitore che prende l’appalto per il sopravvitto e per il vitto magari non ci spreca il tempo a cercare le cose che chiedi. Qualche volta è garantito l’acquisto dei libri, quello sì. Ci mettono tanto tempo però poi te lo portano il libro. Per quanto riguarda l’assorbente in sè per sè è una carenza cronica, cioè all’interno del carcere. Poi ogni donna c’ha le sue, no?

Mestruazioni ristrette: convivenze e strategie

Consideriamo che può sembrare che con la convivenza arrivi anche la sincronizzazione delle mestruazioni

Sappiamo che questo fatto non è scientificamente provato ma nonostante ciò è qualcosa che torna spesso nelle esperienze condivise delle donne. 

«Nessuno dice che la coordinazione dei cicli mestruali non esista, sia chiaro. Stiamo dicendo che fino ad ora non esistono studi riproducibili che abbiano fornito evidenze numeriche a supporto di questa tesi. L’unica cosa che spiega l’effetto, ad oggi, è una distorsione nella percezione del fenomeno.» Fonte: Missionescienza.it

Per quanto riguarda la convivenza tra mestruazioni ristrette, infatti, può succedere che il ciclo mestruale di alcune persone si sincronizzi. Magari non tutte nello stesso periodo, insomma dipende, però questa cosa è stata notata. Il problema è che se stai male durante l’inizio delle mestruazioni devi chiamare l’infermiere per farti dare un antidolorifico perché non lo puoi tenere e anche qui le tempistiche sono lunghe, gli infermieri ci possono impiegare ore perché non si muovono per una sola persona, devi attendere il momento in cui fanno il giro della sezione.

Cioè, intorno alle mestruazioni si gioca un periodo delicatissimo della donna. Io sono una persona un po’ tetragona, sotto il punto di vista di cercare di condizionare i propri bisogni, quindi riuscivo o ad anticiparle o a posticiparle in vista di un possibile trasferimento che mi aspettavo per un processo o per altro. Riuscivo a condizionare il mio corpo ad aspettare che avvenisse quell’evento per non trovarmi durante il viaggio con il problema delle mestruazioni, perché non ti fanno scendere dal furgone durante i trasferimenti. È vietatissimo, a meno che non devi fare viaggi lunghissimi. Mi ricordo a suo tempo, adesso non lo so, avevano istituito anche i trasferimenti con gli aerei, se ad esempio devi fare viaggi molto lunghi, per abbreviare anche il tempo di pagamento della scorta che deve andare e tornare. Devono essere tre persone durante i trasferimenti: c’è il capo scorta, c’è quello che guida, l’autista, e poi c’è quello che sta dietro con il detenuto che lo deve accompagnare. Se porti tre detenuti devi portare tre persone, capito? Quindi diventa complicato. E quindi intorno alle mestruazioni si gioca tutta questa ansia. Oppure l’assenza delle mestruazioni a causa dello stress, lo shock del carcere colpisce moltissime ragazze, le fa perdere. 

Salute mestruale e visite ginecologiche

A. «Per quanto riguarda le visite specialistiche ginecologiche, come funziona?»

Anche le visite ginecologiche passano attraverso il sistema di richiesta tramite il medico del carcere. Tu vai dal medico, gli esponi il tuo problema e se lui ti dice “va bene ti segno” allora fai la visita con uno specialista. Se gli va bene, sennò rimani e aspetti.

A. «Dipende dalla persona che ti trovi davanti?»

Sì, i medici del carcere ce ne stanno di tutti i tipi. Ci stanno quelli che ti danno ascolto e quelli che non ti si filano per niente. Poi oggi, con tutti “i mattarelli” che stanno in carcere, invece di stare in un luogo più adatto per i disagi mentali, i medici hanno ancora più lavoro da fare: è un grande problema.

Comunque a me non è mai capitato che sono andate via le mestruazioni. La mia esperienza personale è che proprio a un certo punto ho cominciato a stare così male che ho chiamato io da fuori una ginecologa che è stata fatta entrare su richiesta mia dal direttore. La ginecologa mi ha detto che dovevo farmi operare immediatamente e togliere l’utero. E così è stato. Mi hanno mandato a Pisa e lì mi hanno operato: è stata un’esperienza abbastanza bruttina.

E a quel punto sono diventata fornitrice di assorbenti perché li prendevo per le altre. Mi spettavano, quindi un mese  a una, un mese all’altra… la mia parte di assorbenti si dava. Quelli del carcere si usavano per la notte principalmente. Se non hai i soldi per comprarli ti devi arrangiare con la carta igienica, ad esempio o gli asciugamanetti. Anche perché di carta igienica te ne danno tre rotoli al mese, ma che ci fai?

 

È una legge de’ natura insomma, te devi protegge’, è una questione di adattamento… in tutti i sensi: nelle relazioni umane, nelle relazioni con la custodia. Ti adatti  comunque sia a un ambiente in cui sai quello che puoi esprimere, quello che non puoi esprimere, come lo devi esprimere… che spazio vitale c’hai, no? Devi crearti il tuo spazio vitale, eh.

Costruzioni di genere attraverso due piani della realtà: tra mito e storia

Il corpo della donna e l’utero infame

Nel pieno dell’iniziativa che muove il progetto “Assorbire il cambiamento”, sono impegnata a districarmi tra le parole da comunicare sul blog e le tante ascoltate all’università e sembra che il modo migliore per riuscirci sia lasciar che le due realtà si incontrino. Oggi cercherò di produrre una connessione e parlarvi di alcune prospettive antropologiche sulle categorie di genere, ma con leggerezza. O almeno con più leggerezza possibile, considerando che parleremo del mito teogonico di Esiodo

Perché partire da così lontano? Perché mi piace “fare il giro lungo”… o forse perché per quanto distante, il mito – ordinatore logico della realtà – ci fa quasi sorridere per la potente evidenza delle basi costitutive di alcune nostre, diciamo così, categorie socio-identitarie come, ad esempio, quelle di genere

Il mito può essere osservato dal punto di vista del ruolo che ricopre in una cultura data, quello del dispositivo collettivo attivo di ordinatore logico del caos, in senso sia cosmologico che sociale. Un cosmo che si organizza secondo un equilibrio tra il femminile e il maschile e che attraverso le narrazioni della meta realtà del mito, assolve alla funzione di mettere ordine tra generi e generazioni, disciplinando le relazioni e le identità, collettive e individuali. 

Il mito teogonico di Esiodo

Andiamo al principio. Esiodo racconta che al principio c’era il Caos, poi Gaia (Terra) che tutto mette al mondo. 

La narrazione del mito prende avvio da un’entità associata alle istanze del femminile che senza alcun bisogno di una seconda parte compie l’atto di generazione e dà alla vita dei figli, la prima generazione teogonica: Urano (il Cielo), Ponto (il Mare) e la Montagna. L’unione con Urano permette di osservare alla nascita – nel mito – di una figura controversa, quella del padre

Urano colto da un sentimento di odio nei confronti dei suoi figli, li costipa nel ventre materno: li costringe al suo interno senza farli nascere mai del tutto. A questo punto, Gaia complicizza con uno dei suoi figli, Crono (Tempo): gli consegna una falcetta con la quale il figlio evira il padre dal ventre della madre, liberando se stesso e i suoi fratelli (la seconda generazione teogonica). 

Crono e sua sorella Rea concepiscono la terza generazione teogonica che non ha avuto proprio modo di farsi venire i daddy issues perché divorati dal padre subito subito.

Per dirla meglio, Crono – che ha evirato il padre – in prima persona ha sperimentato il rischio di un padre “tradito” da suo figlio, quindi esorcizza quel pericolo (insito, iniziamo a notare, nel ventre femminile della madre). 

Dal canto suo, Rea anche aveva l’esempio di quel che un padre poteva fare ai suoi figli e riesce a nascondere dalla macabra abbuffata del fratello-sposo un figlio, Zeus. Ci sembra ora ovvio a questo punto il destino di Crono: evirazione da parte dell’unico figlio rimasto.

Diciamocelo, come poteva uscire Zeus da una storia famigliare così disastrata? 

Zeus fa di Era la sua sposa ufficiale e nel mentre va a spargere il suo seme un po’ ovunque, anche tra le figure di donne non divine, come Meti e Semele. Ed è qui che compie il reale passo di rottura con i tristi epiloghi delle storie dei padri divini: dopo aver concepito i suoi figli, Zeus li espianta dai ventri materni e li incista nel proprio corpo. 

Dall’unione con Metis e dal cranio di Zeus nasce Atena,  dea della saggezza e della memoria. Nata guerriera in difesa del padre e della polis, non conosce ventre materno ed è lontana della madre. Atena stessa non vuole avere figli. 

Dall’unione con Semele e dalla coscia di Zeus nasce Dioniso, dio del vino, dell’ebbrezza e dell’estasi. Divinità nella quale si annida il principio degli opposti e attraverso il quale si celebra il caos. 

L’equilibrio di genere non è definito attraverso le due figure di Atena e Dioniso, la prima femmina con caratteri esplicitamente maschili, l’altro “ibrido”, sia maschio che femmina.  

Entrambi rappresentativi di un gioco tra identità e alterità nel quale si legge la possibilità che l’io contenga in sé l’altro. I due ruoli inoltre concorrono ad assolvere alla funzione del mito dal momento in cui lasciano aperto uno spiraglio di caos nell’ordine dato. In tutti i modelli mitologici, ci dice l’antropologa Laura Faranda, la possibilità del caos resta in aperta per renderci pronti al suo eventuale ritorno, come a voler munirci delle strategie per disciplinarlo e mantenere l’ordine. 

Attualizzare il mito

Nel mito assistiamo, con il gesto di Zeus, a un passaggio di potere dal femminile al maschile. Perché è così importante l’atto di rottura del dio olimpico? Zeus di fatto, incistandosi i feti dei figli nel proprio corpo allarga il suo potere di maschio. Trasforma quello che per nonno e padre era stato un tentativo (fallito) di esercitare un controllo sul corpo del femminile e sulla natalità in conoscenza del mistero della nascita. Zeus si fa femmina, elimina dall’equazione il corpo della donna. Vuole essere maschio dominante, padre e signore degli dei e per farlo deve poter dominare il “mistero” della nascita

Se il mito come abbiamo detto nasconde la storia, in che punto della storia si inserisce questo mito? Secondo la lettura che stiamo seguendo, nel momento in cui le comunità umane della Grecia antica iniziano a rappresentarsi come poleis, si comincia ad affermare un sistema proto-agrario per il quale costruire culturalmente un equilibrio tra il maschile e il femminile diventa necessario. Perché? Cosa arriva con la sedentarietà? 

Il principio di proprietà che si lega quasi subito a quello di ereditarietà si intreccia con un dilemma che riconosciamo ancora oggi nei detti e proverbi comuni come “la madre è sempre certa!” e il padre? Bisogna essere sicuri dei propri figli e quindi esercitare un potere sulla loro nascita, sui corpi femminili che li ospitano. 

Guardiamo un momento ora al presente: Zeus nel mito si prende tutto il controllo possibile dell’atto di nascita, oggi a chi appartiene questo potere?  

 

Ci lasciamo questo interrogativo aperto con la consapevolezza che la risposta sia osservabile direttamente nel dato empirico del vivere quotidiano e che molte altre prospettive possano scaturirne. Prossimamente parleremo ancora di queste tematiche allontanandoci dal mito e guardando ai corpi femminili, alla loro costruzione sociale in diversi contesti e all’iper-medicalizzazione dell’atto della nascita. Pensi possa essere interessante? Faccelo sapere nei commenti!

Testo consigliato : Laura Faranda. “Viaggi di ritorno. Itinerari antropologici nella Grecia antica.” Armando Editore, 2009.

Vissuti di dentro: racconti di incontri, legami e domandine

Lo scorso febbraio, in seguito a un commento ricevuto sotto un nostro post, un ex detenuto e utente della cooperativa ha deciso di condividere con noi la sua voce che oggi raccontiamo qui. Domenico è uscito definitivamente dal carcere nel 2022, un passato non molto lontano, ma è oggi libero e sereno perché “ha pagato tutto” e “non ha più nulla da nascondere”. La nostra chiacchierata inizia più o meno così: 

A. «Posso registrare?»

D. «Sì va bene tanto io non ho niente da nascondere, non ho più niente da nascondere. ‘Na volta sì adesso no».

LE PAROLE DI DOMENICO

Io ho conosciuto il PID nel 2005 dopo l’ennesima domandina che ho fatto, perché ne ho fatte svariate per poter parlare con un’operatrice del PID, eh!

Nel 2008 sono uscito e mi sono affidato al PID perchè io tutte le volte che sono uscito prima me ritrovavo sempre in mezzo alla strada e dovevo sempre fa’ reati, come me tanti altri detenuti che non hanno nessuno, nessun riferimento, nessuna opportunità diciamo. 

E il PID mi ha aiutato. Mi ha inserito nelle borse lavoro e mi sono trovato bene, non ho fatto più reati. E non mi hanno mai abbandonato, neanche in queste altre occasioni perché lo sapevano che io ormai ero uscito da tutto il contesto di delinquenza. 

Poi ho avuto altre carcerazioni, nel 2015 e nel 2019 ma erano tutte cose vecchie, prima del 2005 che sono andate definitive perché come si sa i processi vanno per le lunghe. 

 

A.«La famosa giustizia lenta?»

D. «Ma non direi lenta, lentissima».

Mi sono affidato a loro e sono riuscito adesso nel 2022. Grazie al PID però, perché mi ha dato una grande mano facendomi conoscere un’avvocatessa seria e mi ha salvato perché sennò il mio fine pena era il 2034.

Un lungo percorso “dentro” 

Ho cominciato con Porta Portese da minorenne e l’ho chiusa diciamo nel ‘67/’68. L’ex carcere minorile sarebbe. Poi sono andato a Regina Coeli, Rebibbia, San Vittore. Perché andavo pure fuori a lavorà, tra parentesi. San Vittore, Livorno, Firenze (sempre da minorenne) in Via della Scala; Chieti, dopo la rivolta del ‘74 a Rebibbia. Perché stavo là io quando c’è stato tutto il casino e abbiamo distrutto tutto quanto.

A. «Hai partecipato alle rivolte?»

D. «Si, ho fatto un casino lì. Ancora ero un ragazzo che la testa non c’era».

Entravo, uscivo, entravo, uscivo. Mi ritenevo l’omo più bevuto d’Italia

Che poi quando uscivo mi ritrovavo un’altra volta per strada… Dovevo campare, dovevo mangiare. Non avevo famiglia, non avevo niente.

Le domandine in carcere

In carcere devi fare domandina per tutto, per tutto ci vuole la domandina: per poter parlare con l’assistente sociale, per poter parlare con la psicologa, per poter parlare con il direttore, con il “capo posto” (il capo del reparto). 

Per fare entrare dentro un paio di scarpe nuove ad esempio, perché le vecchie sono rotte, devi darle prima indietro (le vecchie) altrimenti non entrano (le nuove). 

 

E certe domandine si perdono, diciamo si perdono… Tante le cestinano e invece tante si perdono. La domandina è tutto, senza domandina in carcere non ci fai niente.

Molte però, forse la maggior parte vengono perse. Io per poter parlare col PID ho fatto innumerevoli domandine. Finalmente poi mi hanno chiamato “Domenico? Devi anna’ a parla’ col PID”. “Oddio che sta a succede!”

Gli affetti da dentro e le feste in carcere

Allora uno che fa quando non trova un aiuto e si ritrova per strada?

Questo è quello che dicevo io… 

 

E lì ho passato svariati Natali, Natali brutti. Natali dove ho visto tanta gente, “criminali per davvero”, che in quei giorni la soffrivano veramente la galera. La soffrivano proprio perchè la gente diceva “sì, so criminali e tutto quanto” ma dentro c’hanno sempre ‘ncore. Hanno i figli, le famiglie, le madri, i padri che hanno lasciato fuori.E per quanto delinquenti senti che ti mancano quando arrivano questi giorni particolari. 

Sono gli affetti che mancano, mancano.

Io ce ne avevo pochi di affetti in quei periodi. Dopo ce ne ho avuti tanti, nel 2005 i miei due figli. Nel 2019 mio figlio era in clinica, ricoverato che ora sta male e lo seguo io, viviamo insieme perché da solo non può stare. Stiamo io e lui, lo aiuto con le terapie e quello che deve fare. Stiamo tranquilli.

A. «Quindi hai trovato la tua serenità in qualche modo?»

D. «Sisi, adesso sì. E cerco di dargliela pure a lui».

Torneremo a Domenico e alla storia, ai suoi preziosi racconti e alle sue parole desiderose di una giustizia che non dimentichi nessuno.

A un anno dalla nascita del blog

Il 13 febbraio dello scorso anno abbiamo pubblicato “ufficialmente” questo blog. Dopo mesi di preparazione, di aspettative, di negoziazioni si è detto a un certo punto: «Ok, puoi andare».

 

Passo dopo Passo è nato con tanti obiettivi, tante speranze e prospettive che in un anno non hanno fatto altro che moltiplicarsi. Se inizialmente abbiamo dato quasi un taglio diaristico, con le voci delle persone detenute all’interno delle strutture di accoglienza gestite della cooperativa PID Onlus, con il tempo si sono aggiunti punti di vista e penne critiche che hanno determinato quel che a me piace chiamare “la rubrica del ricercatore spossato”. C’è chi scrive delle proprie esperienze di dentro, chi decide di dire la sua su un fatto di cronaca, chi vuole raccontare il proprio lavoro, chi ancora riorganizza tutte queste informazioni con la speranza di aprire riflessioni più ampie. Abbiamo utilizzato e continueremo a utilizzare questo blog per dire dei progetti o per informare sulle questioni del carcere in Italia. Scorrendo tutti i 60 articoli prodotti fin qui cresce dentro un senso di soddisfazione generativa che dà risposta alla domanda che tante volte mi sono ritrovata a pormi: «perché lo fai?». Per non parlare del fatto che mi è quasi impossibile selezionare “articoli preferiti”, tutti sono unici a loro modo per il semplice motivo per cui sono stati scritti. 

È travolgente la micro realtà in cui ti immergi.

Così l’abbracci.

Esseri umani: questa la parola che più ho sentito pronunciare durante le mie chiacchierate con le persone seguite dal PID.

Esseri umani in quanto partecipi del rapporto tra individui, persone.

Le dinamiche che si intrattengono in Carcere, l’immediatezza dei ruoli, la consapevolezza sbiadita: fuggevole, attrice, di protesta e sostanziosa – la voce che racconta la complessità della vita.

Questa la realtà, il motivo della nascita di Passo dopo Passo sorge spontaneo.

A un anno dalla nascita del blog abbiamo vissuto avventure di ogni tipo, dall’organizzazione dell’evento celebrativo del nostro lavoro come cooperativa-famiglia, ai primi passi oltre i cancelli del carcere. Ho avuto la fortuna di vedere le persone uscire, ricostruire nuove libertà e nuove opportunità, ho ascoltato la pienezza delle parole «ho finito, non ho più nulla da pagare, ho pagato tutto». Le persone hanno attraversato la casa famiglia, l’hanno vissuta imprimendo la propria traccia sui balconi colorati di un semplice appartamento romano, raccontando parte della loro storia al mio registratore e lasciando che quella storia arrivasse a voi, su questo blog. Un po’ custode di qualcosa che doveva essere detto, che voleva essere narrato. 

Ogni settimana, da quando abbiamo aperto il blog, mi metto a pensare a cosa pubblicare. Non è semplice perché vorrei scrivere robe super “accademiche”, dimenticando che l’obiettivo iniziale era far parlare chi il carcere l’ha vissuto (e magari lo vive ancora). Da quando ho incontrato O, nonostante le difficoltà iniziali, nonostante ancora oggi a volte la comunicazione sia tutt’altro che semplice, il giovedì ricevo puntualmente articoli di innegabile coinvolgimento emotivo. Mi ricorda perché non posso smettere anche se a leggerci siete in pochi, perché mi piace quello che ho scelto di fare, perché ho “bisogno” di continuare a formarmi. 
Quanto è bella la voglia di condividere la propria voce anche quando nessuno l’ascolta o anche quando magari non riceve prontamente risposta. 

A un anno dalla nascita del blog abbiamo visto il mondo chiudersi lentamente e con ferocia, abbiamo sentito stringere il nodo alla gola, la paura che professionalità, dedizione e pazienza non sarebbero più bastati a svolgere al meglio il nostro lavoro. Che le persone detenute, un po’ di più di tutte le altre, non avrebbero neanche più avuto quei pochi diritti che faticano a stringere nelle mani. E tutto sempre con la consapevolezza di quanto sia semplice essere fraintesi quando si parla di carcere, di detenzione, di persone che hanno leso altre persone o le loro proprietà. Ho scritto già da qualche parte che «Quando ci si ritrova in questi discorsi, il rischio è sempre quello di sembrare i grandi giustificatori degli atti criminali, in fondo quel che si cerca qui di sostenere è che il confine tra quel che si considera giusto e quel che si considera sbagliato è troppo labile per perderci in generalizzazioni di questo tipo». 

 

Questa è la società che abbiamo, durante questi lunghi e complessi secoli, costruito. Riconosco a volte con amarezza e disillusione che il desiderio di un mondo più giusto e sicuramente più umano nel pieno senso della parola è una visione utopistica. Forse lo è sempre stata, forse lo sarà sempre.  Sono sistemi complessi che hanno un’altrettanto complessa moltitudine di “ragioni”. Non possiamo negare che figli e figlie della nostra cultura siamo costantemente incazzate e incazzati, senza sapere precisamente il perché. Tutto è così confuso. 

Siamo complici nel guardare un mondo di conflitti, nel vomitevole impigliarsi di una storia feticista. E noi nel nostro piccolo, con il nostro lavoro e il nostro blog cerchiamo di non esserlo. Le domande restano aperte, continuiamo a leggere e a formarci. Continuiamo a sederci su quel divano rosso e ascoltare chiunque in un modo o nell’altro ha esperito la violenza di fuori e di dentro. 

Qual è il confine tra la violenza legittima e illegittima?

 

Sono questi discorsi che lasceremo aperti per altri momenti di riflessione, più approfondita forse, meno pessimista. Ricomponiamoci gli animi per gioire anche un poco di tutto il lavoro svolto fino a oggi e di tutto quello che abbiamo davanti. 

A un anno dalla nascita del blog, sono molto grata per tutte le persone che hanno scritto qui, per tutte quelle che hanno letto e leggeranno le nostre parole. 

ALESSIA

Quello di Ilaria Salis è un caso che non è possibile ignorare

È una detenuta come noi ma in condizioni peggiori

Ilaria Salis, una maestra italiana di 39 anni l’11 febbraio dello scorso anno è stata arrestata a Budapest durante il “giorno dell’onore”. Non è un segreto ormai per nessuno. Pochi giorni fa abbiamo assistito alle immagini di una donna col viso scarno, con i polsi e le caviglie legate strette, con le catene a limitarne i movimenti. L mi ha scritto che non può tacere di fronte a quelle immagini, di fronte a questi fatti, al “pozzo” in cui Ilaria – e altri come lei – è stata sbattuta ormai da quasi un anno.
Che cos’è il “giorno dell’onore”? Quali sono le accuse volte a Ilaria Salis? Lo riassumo brevemente prima di lasciare spazio alle parole di L che principiano in realtà già con il titolo di questo articolo. Dunque, l’11 febbraio si ricordano i soldati tedeschi caduti nel 1945 tentando di rompere l’assedio dell’esercito rosso. Gruppi di neonazisti europei quindi si incontrano e manifestano, celebrano i nazisti del passato. E con essi, le loro ideologie suprematiste. Insomma, uno dei raduni più importanti dei neonazisti d’Europa. 
Ilaria Salis è accusata di aggressione a due di questi personaggi, insieme a un altro antifascista tedesco. Vogliono condannarla a 16 anni di carcere, con due aggravanti che rendono il caso di Ilaria “un caso politico”. Puntuale e lucido come sempre, Zero Calcare ripercorre questo caso con un fumetto, pubblicato dall’Internazionale online e che consiglio di leggere.
Lo trovate qui: “Una storia di nazisti, di galera e di responsabilità”.
LE PAROLE DI L

“E poi e poi la notte che non passa…”: Dal “non ho sentito” al “non ho visto” – il caso di Ilaria Salis

La ferocia non gli difetta. È indelebile l’immagine di quell’esponente delle istituzioni che alla Scala di Milano, di fronte all’ urlo liberatorio di un cittadino “viva I’Italia antifascista”, con giravolte simili a quelle di un trapezista di un circo rispondeva ai giornalisti “non ho sentito”. Ma c’è di più, ora siamo al “non I’ho visto” di un senatore capotreno parente affine di un’alta carica governativa che con sprezzo del ridicolo e una sottile perfidia ha dichiarato con la velocità di un Frecciarossa che lui il video di Ilaria Sails trascinata alla maniera di un quadrupede davanti ad un Giudice del regno sovranista di Orban lui, quello schifo, proprio non l’aveva visto . Siamo al solito “garantismo strabico” trentennale di questi per così dire, rappresentanti istituzionali dentro e fuori questo Paese. Sono fatti così, per loro è normale. 

Verrebbe da dire che Lombroso sussurra al loro cuore (se un cuore ce I’hanno) di stare sempre dalla parte dei forti e dei privilegiati, rimanendo indifferenti quando non feroci con gli altri, quelli meno fortunati, che nelle carceri sono la maggioranza.

 

Tutti noi detenuti e detenute esprimiamo solidarietà a Ilaria Salis, costretta con le catene ai piedi in un Tribunale dopo quasi un anno di indicibili maltrattamenti subiti in un maledetto carcere ungherese. 

 

“E poi e poi.. a la notte che non passa mai”. Direbbe Giorgia. Giorgia la cantante, naturellement. Ma speriamo che passi, le auguriamo noi.

M49

Il detenuto “adultolescente”

Il detenuto, la sessualità e l’affettività in carcere. L ci scrive:

LE PAROLE DI L 

 

I carcerati sono ridotti alla stregua di adolescenti ma che dico ADULTOLESCENTI per dirla con un neologismo. Il vero danno non è “l’astinenza”, quanto la frantumazione della vita di coppia. Nessun luogo è lontano, neanche il carcere in una società. 

Eppure il legame affettivo è eroso dal carcere e con esso la sessualità, riconosciuta invece in altri Paesi europei.Quando se ne parla assistiamo sempre ad un vergognoso “girotondo” di pregiudizi, si crea attorno a questo “diritto negato” un ” humus ” favorevole a chi con pulsioni irrefrenabili, con un florilegio di insulti e con toni sbracati urla “chiedendo di buttare via Ia chiave”.

Tutto questo semplicemente per raccogliere uno squallido dividendo elettorale.

 

La sessualità è una componente essenziale in un rapporto di coppia, corrobora la relazione coniugale, ne scongiura il logoramento a vantaggio anche degli altri componenti di una famiglia

Con la negazione di questo diritto capisci che il tuo tempo, il tuo vissuto, la tua storia di coppia possono dissolversi. 

Ti accorgi, con Io sguardo perso nel vuoto/che c’era un “prima” ma che forse non ci sarà un “dopo”. Si finisce con il dissipare un legame o quantomeno si rischia di ridurlo ad un guscio vuoto. C’è una regressione “adolescenziale” del detenuto che si rassegna alla “piattezza” della vita quotidiana dietro le sbarre. 

 

Aspettiamo la Consulta, “Nessuna notte è infinita” direbbe Renato Zero.

 

ORSO M49

Riflessioni di L sull’attualità

LE PAROLE DI L

Quante volte

Quante volte con improvvidi “cazzeggi” giuridici ci scagliamo noi detenuti con improbabili certezze contro la cosiddetta ” discrezionalità” del Magistrato di fronte ad una sua ordinanza? Senza rendercene conto difendiamo interessi non nostri che non ci appartengono, interessi ” diciamolo pure ” apertis verbis” di “classe ” .

Pochi giorni fa la Giudice Valeria Ciampelli ha deciso di applicare la misura cautelare del solo divieto di dimora ad una donna , Zaira, di Tor Bella Monaca difesa dalla avvocata Manila Salvatori. Zaira era stata fermata dalla Polizia con alcune dosi di crack ed eroina. Non era la prima volta: una donna disperata con un marito morto in un incidente , con dei bambini senza futuro , prospettive di lavoro, nulla. La Giudice ben lungi dal sollevare in modo “lombrosiano”il sopracciglio e percependo il dramma di questa donna e la condizione di marginalità sua e dei suoi bambini che con un padre ormai deceduto ed una madre in galera chissà dove sarebbero finiti ha deciso di attenuare la misura.

Senza la discrezionalità , senza questo strumento di garanzia tanto inviso al garantismo di classe, quello a corrente alternata per intenderci dove si è deboli con i” colletti bianchi”e duri e puri con i “poveracci” tutto questo non sarebbe potuto accadere.

Quante volte anche noi detenuti ci lasciamo andare a supercazzole giuridiche il Giudice non è un” algoritmo” e non è ancora subalterno al potere politico.

Un atto di giustizia

Poche settimane fa un decreto del tribunale civile di Matera ha ordinato alla ASL di eseguire una risonanza magnetica ad una donna di 51 anni che da settimane a causa di alcuni noduli al fegato cercava di sottoporsi a questo accertamento. La donna non aveva i soldi era in uno stato di indigenza , un quadro disperante insomma, e non poteva per fare in fretta , attesa la gravità , rivolgersi ad un privato. Salvifico è stato il provvedimento di un Giudice ,il dott. Angelo Franco, il quale accogliendo il ricorso dell’avvocato Angela Maria Bitonti , Presidente dell’Associazione per la tutela dei diritti dell’ uomo I’ “ADU“, ha poi consentitola TAC.

Noi detenuti pervasi, è comprensibile, da un pregiudizio ideologico, (siamo o siamo stati pur sempre in carcere a seguito di una condanna emessa da un magistrato) ci saremmo aspettati tutto tranne che vedere un magistrato porre coraggiosamente rimedio questo singolo caso . Ciò che traspare in modo evidentissimo è la selvaggia privatizzazione ispirata da lobbies economiche che in nome del” profitto” e forti della loro presenza nei consigli di amministrazione, condiziona le scelte dei politici” sponsorizzandone” la loro elezione in Parlamento.

Un plauso a questo Giudice che potremmo dire ha dato coraggio alle paure di questa donna, alla sua disperazione, alla sua marginalità.

“Sconfiggere la povertà non è un atto di carità, è un atto di Giustizia”.
Nelson Mandela

Il passato che non passa

“A noi…II dovere di reprimere!” è la frase di un film …

La guerra agli ultimi, ai marginali ai migranti alle mamme detenute con figli minori ai detenuti quelli ristretti in carcere e quelli rinchiusi senza titolo nei C.P.R., la guerra nei loro confronti è già cominciata con l’inasprimento delle pene. Si creano nuove norme, si assimila la resistenza passiva del detenuto che disobbedisce a quella del detenuto violento, si fa la stessa cosa con i ragazzi ambientalisti considerati con le nuove norme alla stregua di terroristi.
Tutto questo con buona pace dei reati finanziari e fiscali ed anche quelli di mafia dove il “bottino” il mal tolto o chiamatela come credete la “refurtiva” è di gran lunga superiore.

Questa è la predicazione di chi ci governa, del “Presidente del Consiglio” (non ama le declinazioni al femminile e non la chiameremo” la Presidente” vittima com’è della sua concezione patriarcale) che si dice “orgogliosa” di questo pacchetto sicurezza.

Siamo ormai al balconismo recidivo non più a Piazza Venezia ma poche centinaia di metri più in là a Palazzo Chigi.

“La città è malata ad altri spetta il compito di educare e di curare, a noi il dovere di reprimere la repressione è il nostro vaccino!”

Sono le parole di Gianmaria Volontè nel panni di un funzionario di polizia nel celebre film del 1970 di Elio Petri “Un cittadino al di sopra di ogni sospetto”.

Il passato che non passa, bellezza.

 

ORSO M49

Il permesso premio: Noodles e Fat Moe

LE PAROLE DI L

Il permesso premio «consente al detenuto di “uscire temporaneamente” dal carcere, per periodi non superiori a quindici giorni, fino ad un massimo di quarantacinque giorni all’anno, per coltivare interessi affettivi, culturali e di lavoro» Dott.ssa Francesca Saveria Sofia

Provvidenziale fu la legge del 10 ottobre 1986 numero 663 ovvero la “legge Gozzini” del Senatore Comunista Mario Gozzini con la quale si introdussero le misure alternative al carcere e tra queste i permessi premio ai detenuti.

ll “permesso premio” è quel beneficio premiale che ti consente la riappropriazione del tempo perduto e la valorizzazione di quello presente e futuro.
Ci si relaziona con i propri cari, si riassaporano “frammenti di libertà”, anche quando banalmente da ” semiliberi” si sorseggia un caffè al bar, si fa una corsa al parco o si carezza un cane.
E poi … diciamola tutta … si stemperano le ” tempeste ormonali “. Le giornate tornano ad essere non più ripetitive, non c’è più l’automatismo temporale che si vive dietro le sbarre dove a sovrastarci è la “predazione” del nostro tempo.
Al netto dell’emergenza climatica e dell’inquinamento ambientale si respira comunque il “profumo della libertà”. Capita spesso che, al primo permesso premio, parenti amanti conoscenti amici veri o presunti ti chiedano “cosa hai fatto per tutto questo tempo”.

La risposta, quella vera, dolce e malinconica è “sono andato a letto presto”. Proprio come Noodles (De Niro) rispondeva a Fat Moe (Larry Rapp) nel capolavoro cinematografico “C’era una volta in America” del 1984 del regista Sergio Leone.

Noodles Fat Moe i permessi premio.

ORSO M49

Il caldo in carcere: estate ristretta e tattiche di sopravvivenza

ALESSIA

Come sopravvivere al caldo asfissiante di questi mesi in carcere? Già la scorsa estate, Antigone scriveva delle condizioni di inadeguatezza con le quali le strutture penitenziarie italiane si trovano a fare i conti. 

«Alla questione affollamento si accompagnano anche questioni strutturali che riguardano gli istituti. In alcuni l’acqua viene razionata, come ad Augusta, oppure manca del tutto, come a Santa Maria Capua Vetere, che nasce scollegata dalla rete idrica comunale. In questo istituto ai detenuti vengono forniti 4 litri di acqua potabile al giorno mentre per le altre necessità è utilizzabile l’acqua dei pozzi artesiani.»

Il sovraffollamento delle carceri italiani conduce inevitabilmente a una riduzione notevole degli spazi ostici e già ristretti delle celle, il cambiamento climatico in corso che fa parlare dell’Italia in tutto il mondo per le assurde temperature raggiunte in queste ultime settimane, non risparmia di certo neanche l’eterotopia del carcere. Con il termine “eterotopia” abbiamo voluto intendere il carcere, con Michel Foucault, come uno di quei “luoghi reali, riscontrabili in ogni cultura di ogni tempo, strutturati come spazi definiti, ma «assolutamente differenti» da tutti gli altri spazi sociali, dove questi ultimi vengono «al contempo rappresentati, contestati, rovesciati»” (Treccani). Guardando ai numeri, raccolti nel XIX Rapporto di Antigone sulle condizioni di detenzione, a fine aprile 2023 la popolazione detenuta si componeva di 56.674 presenze con un tasso di affollamento medio del 110,6%.

 

«Quanto costerebbe mette un condizionatore come questo pure sopra?» ha detto G osservando il condizionatore della stanza dei corsi in carcere. Abbiamo chiesto ai nostri amici di dentro come stanno affrontando questo periodo infernale tra le mura delle proprie celle. G in particolare sembra non riuscire a sopportare il caldo, chiede al suo compagno B di aiutarlo a rasare tutti i capelli e racconta della sua stanza: con il letto attaccato al muro, un muro spesso che racchiude il calore, percepibile al tatto.

 

La cosa che più mi stupisce dell’ambiente del carcere è sempre la semplicità con cui le persone che lo abitano si ingegnano per rendere le condizioni di vita di dentro più dignitose e il più possibile vicine alla “normalità”. Sono pratiche definibili come tattiche, tutte quelle azioni volte a r-esistere all’interno di un mondo costellato da rigide strategie di controllo e sorveglianza. Così, quando il nostro G si è lamentato per il caldo in carcere, l’amico D gli ha dato la soluzione: «apri la doccia del bagno, la punti sul ventilatore ed è come avere l’aria condizionata in cella. Dopo ti faccio entrare nella mia e ti faccio vedere». 

 

B anche ha affermato di aver utilizzato questa tattica, ma non a cuore leggero, perché «si spreca un botto di acqua così, infatti mi sento in colpa e dopo massimo mezz’ora spengo». Concordiamo con B sullo spreco dell’acqua che sappiamo essere preziosa risorsa a rischio, ma ci chiediamo quali potrebbero essere le alternative ecologiche di sopravvivenza al caldo del carcere? 

La magistratura dagli occhi di un condannato

La magistratura  secondo L

Noi carcerati (non io per la verità, la pena la sto scontando) vediamo sempre la figura del magistrato con un comprensibile livore, più esattamente con un pregiudizio ideologico.

Una riflessione ampia sulla magistratura: attenzione al giudizio più che al pregiudizio

Dopo Cutro e a seguito degli accadimenti a largo della Grecia, l’Associazione Nazionale dei Magistrati ha giustamente fatto notare che non è possibile accusare di un reato chi fugge da un paese perché privato della libertà. Nessuna norma, sostengono, potrà mai impedire l’obbligo di salvataggio in mare perché non è possibile impedire ad alcuno di fuggire da paesi dove non è riconosciuta la dignità umana. Sono principi bellissimi. 

Stiamo parlando della stessa associazione tanto invisa alla classe dirigente “garantista a corrente alternata”. Una classe politica severissima e feroce con gli ultimi, i marginali, gli “sfigati” insomma, un po’ meno con i “colletti bianchi”. Abolizione dell’abuso d’ufficio docet

Vorrebbero addirittura, questi “politicanti” portare le pene relative allo spaccio di droghe leggere da 3 a 5 anni. Come ha fatto notare qualcuno nei giorni scorsi (PalmaGarante nazionale privati libertà) nulla è stato fatto con la nuova riforma per migliorare le condizioni di vita dei detenuti. Questo è un paese dove se “sporchi” con la vernice lavabile qualche muro per sollevare il dibattito sull’emergenza climatica, rischi il carcere, ma se inquini il territorio con la cementificazione e i pesticidi ti premiano addirittura per aver contribuito ad alzare il PIL, come ha fatto notare qualcuno.

E poi perché crocifiggere sempre i magistrati, anziché il legislatore?

Proviamo soltanto ad immaginare cosa accadrebbe se il “disegno trentennale” del cavaliere, quello di rendere subalterna la magistratura al potere politico, si dovesse realizzare …

Gli ultimi, ed in carcere sono la maggioranza, marcirebbero in galera con buona pace dell’Articolo 27 della Costituzione che vorrebbe il reinserimento e la rieducazione del detenuto.

Non è forse questo l’auspicio di Salvini?

La magistratura sulla tortura

Ad onor del vero anche la magistratura ha le sue responsabilità: ricordiamo Enzo Tortora.

Non possiamo però non riconoscere altri magistrati che condannarono chi torturò Cucchi. Altri stanno indagando sulle torture ai danni di “fermati” poste in essere da alcuni poliziotti della questura di Verona. Abbiamo tutti visto con stupore le foto di quei maltrattamenti.

La riforma recentissima sulla Giustizia, oggi non consentirebbe più la pubblicazione di quelle foto. Per non parlare dei maltrattamenti a Santa Maria Capua Vetere, nessuno avrebbe saputo di quei misfatti se quel giorno un uomo nell’immediatezza di quei fatti non avesse preteso (a seguito di una segnalazione anonima) di entrare in quel carcere.

Quell’uomo era un magistrato!

 

Al di là di certe innegabili criticità, la magistratura è e deve restare un presidio di legalità. Siamo detenuti per le condotte illegali che poi un magistrato ha accertato. Non dimentichiamolo. Il “giudizio” sulla magistratura deve essere più forte del pregiudizio.

Per un detenuto è “impopolare” scrivere queste cose, ma vanno scritte e l’ho fatto!

M49 L’orso

Alla fine della fine – La crisi climatica secondo L

IL NOSTRO “RICERCATORE SPOSSATO” COMMENTA I TRAGICI EVENTI CHE STANNO VIVENDO LE PERSONE CHE ABITANO IN EMILIA ROMAGNA E LA CRISI CLIMATICA CHE  TROPPO SPESSO VIENE IGNORATA E SOTTOVALUTATA, PER PRIMA COSA NON CHIAMANDOLA CON IL SUO NOME.
LE PAROLE DI L

Vi è stato un gran parlare in questi mesi di ragazzi delinquenti che sporcavano i muri dei palazzi di potere con vernice lavabile. Erano e sono ragazzi che sia pure con “modalità discutibili” hanno voluto gettare un grido di  allarme sulla crisi ambientale in atto, sulla devastazione del nostro Pianeta.  Li hanno “demoralizzati” questi ragazzi, creando un “humus” favorevole a chi vorrebbe o potrebbe (già accade) considerarli addirittura criminali

Ognuno vede la realtà attraverso i propri pregiudizi, ma va bene così …

Che dico? Va male così!

Questa “glassa” demagogica e populista è vomitevole. 

Recentemente c’è stato anche chi ha ipotizzato nei compiti di alcuni esponenti di Fridays for Future “associazione a delinquere”. Siamo alla follia.

 

Le piogge tropicali e i fiumi che rompono gli argini in Emilia Romagna, i morti e le oltre 10.000 persone sfollate e senza più una casa sono l’evidenza della crisi climatica di cui si dovrebbe tener conto. Lasceremo alle generazioni future un Pianeta devastato. 

Non si capisce che le frasi di circostanza proferite in questi giorni non bastano, senza il coraggio di porre fine ai combustibili fossili. Non si capisce che alla fine della fine, c’è soltanto la fine. “E a culo tutto il resto” direbbe Guccini, nato da quelle parti.

 

Questi ragazzi che sporcano i muri e i monumenti sono inascoltati, protestano nell’indifferenza. Lo scorrere implacabile del tempo renderà più chiara la situazione, in tutta la sua drammaticità. Parafrasando Gramsci, è giusto dire che è odiosa questa indifferenza.

Ascoltiamoli!

 

Firmato, M49 (l’orso)

 

Gli assorbenti in carcere – Donne ristrette

Perchè parliamo di assorbenti in carcere? In che senso il carcere è pensato al maschile? 

Per prima cosa, dobbiamo necessariamente ricordare che la popolazione detenuta femminile in Italia rappresenta una piccola parte del totale (appena il 4%). Di conseguenza, gli spazi, i beni, le attività e le misure all’interno del penitenziario sono principalmente pensate per l’utenza maschile, la grande maggioranza.

 

Nel 2013 con Edizioni dell’asino abbiamo pubblicato un manualetto “leggero e disinvolto” che illustra le tecniche di riappropriazione degli oggetti della quotidianità femminile in carcere, dove la personalità dell’individuo viene lentamente compressa. 

In “Ricci, limoni e caffetterie. Piccoli stratagemmi per una vita ristretta” si leggono le ricette delle donne recluse che reinventano i prodotti di cura e di benessere per i propri corpi, che scelgono di imprimere la propria soggettività nel luogo in cui il tempo è dilatato, scandito dal movimento dell’istituzione, assoggettato a norme omologanti. 

 

A pagina 36 “Contro i dolori mestruali” le donne preparano un intruglio di acqua, cannella e noce moscata. “La noce moscata scioglie i grumi di sangue!”.

 

Oltre a rappresentare ancora un tabù, il ciclo mestruale è per molte persone percepito come un “privilegio”. A livello globale, sono ben 2,3 miliardi le persone che non hanno accesso a servizi igienico-sanitari di base, in molte aree povere solo il 27% della popolazione ha modo di lavarsi le mani con acqua e sapone nella propria abitazione e in diversi paesi non c’è disponibilità o facilità di accesso agli assorbenti. Per chi vive in queste condizioni l’igiene mestruale rappresenta un problema che comporta rischi per la salute e che può causare esclusione sociale, assenza da scuola e dal posto di lavoro, fino allo stigma.

Con Lucha y Siesta e Aidos, in risposta al successo dell’iniziativa dello scorso anno, abbiamo nuovamente proposto la campagna di raccolta assorbenti per le persone detenute in carcere. La campagna, iniziata nella giornata di ieri, giovedì 4 maggio, si concluderà domenica 28 maggio: Giornata mondiale dell’igiene mestruale. Gli assorbenti raccolti verranno consegnati in carcere e nelle strutture di accoglienza per persone detenute.

Gli assorbenti continuano ad essere una delle voci più pesanti nel pay gap tra uomini e donne, non sono considerati beni di prima necessità. Questo accade anche in carcere, istituzione totale pensata al maschile e mai pienamente adeguata nonostante regolamentazioni interne tese a “favorire l’espressione di quegli aspetti della personalità fondati sulla differenza di genere”

 

Gli assorbenti, così come altri prodotti consentiti, possono essere acquistati attraverso il cosiddetto “sopravvitto”, una sorta di negozio interno all’Istituto Penitenziario. Al sopravvitto però possono accedere solo coloro che hanno dei soldi sul conto corrente interno, chi non ha possibilità economica e di conseguenza non può acquistare, deve accontentarsi degli assorbenti forniti dall’Amministrazione Penitenziaria che, se non trascura questo aspetto, non garantisce però la scelta di un modello, di una marca o le quantità necessarie di assorbenti in base alle singole esigenze. 

Non avere accesso o avere limitate possibilità di scelta ai prodotti per l’igiene mestruale vuol dire violare il diritto umano alla dignità. Serve abbattere gli stereotipi e fare in modo che si abbia una gestione autonoma e sana del ciclo mestruale. 

 

Vuoi donare anche tu gli assorbenti?

Si possono donare assorbenti classici di qualsiasi marca e modello e gli slip assorbenti, mentre i tamponi in carcere non possono entrare

Da giovedì 4 maggio 2023 gli assorbenti sono raccolti presso la Casa delle Donne Lucha Y Siesta, in Via Lucio Sestio 10, che rimarrà aperta per la raccolta tutti i lunedì e giovedì dalle 9:30 alle 13:00 e durante gli eventi pomeridiani e serali.

25 Aprile: Anniversario della Liberazione d’Italia

LE PAROLE DI B

L’anniversario della Liberazione è una festa nazionale della nostra Repubblica, di cui quest’anno ricorre il 78° anniversario. Ma… c’è un “ma”! Però… c’è un “però”! E potremmo andare avanti così all’infinito, ma “le parole sono stanche” (Giorgia, la cantante!) “anche quando sono importanti” (Nanni Moretti).

Questo 25 aprile infatti è uno dei più controversi e discussi mai celebrati. Da mesi ormai, sgomenti ed increduli, assistiamo ad una serie di “intemperanze linguistiche”, infausti “tic lessicali” ed inciampi espressivi da parte di alcune alte cariche dello Stato Italiano, inimmaginabili soltanto qualche anno fa.
Il nostalgismo di un tempo si fermava ai “treni che arrivavano sempre in orario”, alle fantomatiche pensioni di anzianità concesse da Mussolini (grande bufala storica, in quanto il primo sistema previdenziale in Italia risale al 1895, istituito dal governo Crispi), alla bonifica delle paludi (in realtà in buona parte effettuate con i fondi del “piano Marshall” nel 1948-1952 e poi della Cassa del Mezzogiorno).

A preoccuparmi non sono più queste ricostruzioni fasulle e posticce tanto care ai nostalgici di un tempo, ma ciò che mi raggela il cuore e mi fa rabbrividire è la riproposizione nel 21° secolo di concetti per me aberranti come quello della cosiddetta “sostituzione etnica”, concetti relegati nelle cantine del nostro inconscio, rimasugli ideologici riemersi dallo scantinato di una certa destra, sotto forma di sostituzione etnica. Ma noi già viviamo in una società multietnica! Londra, Parigi, Amsterdam, Milano, Roma sono già città multietniche, dove lingue e culture diverse si incontrano e, quando questo non avviene, se ne pagano le conseguenze in termini di emarginazione, intolleranza e criminalità. 

Non ci sono muri e confini ideologici che tengano, quello della sostituzione etnica è un tema riportato nel “Mein Kampf” di Hitler (1925), fascismo e nazismo ed i reduci consapevoli o inconsapevoli di quelle ideologie, continuano a brandire un’idea di Nazione, e di identità, odiosa. Lo fanno in modo perfido e subdolo, reclamando addirittura la “purezza” non soltanto etnica ma addirittura linguistica. Ignorano che il concetto di identità nazionale che rivendicano in realtà non esiste più, in quanto l’identità oggi è frutto di incontro di culture e lingue diverse, in una ricomposizione che vede la contaminazione come elemento fondante.

Il 25 aprile deve essere la festa dei Diritti, che appartengono a tutti/e, senza distinzioni di alcun tipo come ricorda la nostra Costituzione. Non possiamo rimettere in discussione questo, se diamo spazio ai peggiori sovranismi, alle più feroci posture ideologiche, rischiamo un brusco ritorno a quello stato etico che pensavamo sostituito dallo stato di diritto.

Non dobbiamo mai più farci abbagliare dal nazionalismo, ma stare dalla parte degli ultimi, degli emarginati, dei detenuti (di cui, ahimè, faccio parte), ribadendo il valore fondamentale dell’antifascismo.

L’antifascismo è solidarietà, eguaglianza, libertà di scelte individuali, attivismo sociale, parità di genere, abbattimento di muri e pregiudizi. 

Il 25 aprile mi piace viverlo così: ribadendo l’antifascismo e un mondo senza muri né confini.

 

Lo sgaurdo di un ricercatore spossato

LE PAROLE DI B
B ci scrive riflettendo sulle questioni della contemporaneità. Alcune delle sue considerazioni sono riportate in questo articolo: oltre che ai recenti movimenti dei giovani ambientalisti, B pensa ai migranti, all’orso recentemente “scagionato” e ai diritti dei bambini figli delle coppie omogenitoriali. 
Dal primo incontro con B è emerso il suo desiderio di condividere il proprio pensiero rispetto a quello che accadeva nella nostra quotidianità, proprio perché, mi ha detto una volta «Vorrei che le persone non pensassero ai detenuti come completamente fuori dal mondo».

A volte mi sento come un “ricercatore” spossato, indebolito

Poi però, spingo lo sguardo oltre il mio stato attuale e allora mi ravvedo, mi correggo: torno in salute. Forse il mondo che verrà fuori di qui, contrariamente ad ogni sciagurata aspettativa non sarà il peggiore dei mondi possibili. 

Guardo la tv e pure nella sua drammaticità è bellissimo vedere le continue contestazioni di piazza del popolo iraniano. Sembravamo destinati al tramonto dei principi di eguaglianza e pari opportunità di fronte ai rigurgiti teocratici e sovranisti ed al “liberismo feroce” di questi anni. 

Forse qualche segnale nuovo c’è, anche se in Italia un po’ meno. 

Basti pensare alle persone che hanno deciso di prendersi a bastonate per “motivi calcistici” lungo il tratto di un’autostrada.

Ma in altre circostanze è andata diversamente.

Il riferimento è a quei ragazzi che con della vernice (peraltro lavabile) hanno imbrattato i muri del Senato e continuano in Italia e nel mondo a portare avanti la loro campagna di sensibilizzazione sulla questione del disastro ambientale.

Sia pure con metodi discutibili, questi ragazzi hanno sollevato una questione cruciale. Discutibile la modalità ma lodevole il fine.

Dalla parte dell’orso

La cronaca pullula di notizie. Ce n’è una in particolare che è impossibile sottacere. Oggi è il turno di chi ha ordinato l’abbattimento dell’orso che ha ucciso il giovane runner in Trentino, appena ritirato. 

Un episodio gravissimo, non v’è dubbio, anche al netto di una certa imperizia del malcapitato che se fosse rimasto “immobile”, probabilmente si sarebbe salvato.

Ma le responsabilità vanno cercate altrove. A cominciare da chi voleva che si facesse uso di quella zona del Trentino una sorta di “luna rara” abitata dagli animali.

All’origine dell’invasione dei cinghiali, dei lupi e degli orsi, non si può non rilevare che ci sia una responsabilità propria di noi umani.

Siamo la specie che ha distrutto il nostro Pianeta con deforestazioni, disboscamenti e un incessante “plastificazione” degli oceani.

Identità e discriminazioni

Basta con questa retorica identitaria sui migranti! Ognuno, purché non sovrasti l’altro, è libero di vivere dove vuole. L’identità è l’incontro tra culture, popoli ed etnie diverse. Null’altro, per dirla con Mandela «La pelle è di tanti colori ma il sangue è rosso per tutti».

Basta con le discriminazioni di ogni tipo, soprattutto quelle di genere. Mi ricordo una canzone di Dalla che diceva di fare l’amore ognuno come gli pare.

Mi piace pensare ad una vita degna di essere vissuta, senza veli e senza dogmi, con amore e parità sociale.

Égalité

Quello che vede è un mondo pieno di pregiudizi medievali.

Si sono voluti colpire, con argomentazioni fallaci e presuntuose, i diritti dei bambini delle coppie omosessuali, interrompendo le trascrizioni dei figli provenienti dalle cosiddette famiglie non tradizionali. Siamo di fronte ad una “pedagogia autoritaria” che ci allontana dai paesi più evoluti dell’Europa (di cui, sia pure con molte criticità, facevamo parte) avvicinandoci alle componenti più retrograde e residuali, ovvero i governi ungheresi o polacchi. Si negano i diritti ai bambini usando in modo demenziale il tema della maternità surrogata, una tecnica questa utilizzata anche e forse soprattutto dalle coppie eterosessuali. 

Tutto questo è assurdo e per non usare brutte parole, forse è meglio fermarci qui.