Cooperativa sociale che offre servizi di ascolto, orientamento, formazione, accoglienza rivolti a detenuti/e, ex detenuti/e e persone che vivono in condizione di disagio sociale.

Tag: abuso di potere

La banalità del male

ALESSIA

Il male è banale, è semplice, quotidiano. Seppur le sue ragioni, radicate nella realtà stessa della società, siano complesse, esso dilaga nel silenzio e nel tacito accordo che si stringe tra relazioni squilibrate di potere di pronunciare, agire e diffondere la violenza fino a quando questa arrivi a non lasciare più alcun stupore, fino all’indifferenza. Si tratta di sminuire, di ridurre, di semplificare un atto banale di male, come può essere quel ceffone dato a una compagna che “non sapeva comportarsi” di fronte a uomini che non erano il suo. Si tratta di semplici gesti quotidiani, di parole come “uccidere bambini” indirizzate a chi sceglie di interrompere una gravidanza. Si tratta, ancora, di un bombardamento di notizie, immagini e gossip sulle storie violente, sul male che incombe, sulle vite spezzate e quelle da rinchiudere, sulle ipocrite prese di posizione contro persone e popoli oppressi. 

NB. Questo male di cui parliamo non è un male tipo la parte oscura della moneta: retta via/peccato, bene divino/male infernale ecc. Ci siamo appropriat3 delle parole di Hannah Arendt proprio per questo. Magari è giusto citarne un passo per indirizzarci meglio al discorso. 

«Quel che ora penso veramente è che il male non è mai ‘radicale’, ma soltanto estremo, e che non possegga né profondità né una dimensione demoniaca. Esso può invadere e devastare il mondo intero, perché si espande sulla superficie come un fungo. Esso ‘sfida’ come ho detto, il pensiero, perché il pensiero cerca di raggiungere la profondità, di andare alle radici, e nel momento in cui cerca il male, è frustrato perché non trova nulla. Questa è la sua ‘banalità’. Solo il bene è profondo e può essere radicale.» – H. Arendt “La banalità del male, Eichmann a Gerusalemme (1963)

 

Quel tacito accordo, quell’accettare di vedere e ascoltare il male senza riconoscerlo, è stato intessuto fino a oggi per poterci permettere di avere tra le cariche del governo persone che dicono cose aberranti come:

«L’idea di veder sfilare questo potente mezzo che dà il prestigio, con il gruppo operativo mobile sopra. Far sapere ai cittadini chi sta dietro a quel vetro oscurato. Come noi sappiamo trattare chi sta dietro quel vetro oscurato. Come noi non lasciamo respirare chi sta dietro quel vetro oscurato. Credo sia una gioia, è sicuramente per il sottoscritto, un’intima gioia

A pronunciare queste parole, Andrea Delmastro Delle Vedove, Sottosegretario di Stato alla Giustizia. Parole che hanno indignato non poche persone, quelle almeno che tentano di resistere a questo dilagare violento smantellamento dei diritti umani. Nella nostra bolla, ci sembra a volte inverosimile. Tra di noi ci scriviamo preoccupati, amareggiati, disillusi. Condividiamo frustrazioni che non sappiamo come risolvere, lo sconforto è reale quanto l’impossibilità di smettere di credere che qualcosa cambi. Parlo del lavoro che svolgiamo ogni giorno, dell’impegno e la determinazione che gli educatori, le educatrici del PID e non solo investono in quelle attività che coinvolgono la loro vita per intero, senza momenti veramente liberi dalle responsabilità di accogliere, ascoltare e tentare di sfruttare qualsiasi mezzo a disposizione per permettere e rendere possibile alle persone che vivono le ristrette condizioni che il carcere gli ha lasciato addosso, di costruire una nuova vita. E ci vuole coraggio a farlo, non perché, come ai più potrebbe venire alla mente, si lavora con persone “pericolose”, ma perché si lavora per mettere toppe a un sistema che vacilla, che non funziona, che cade a pezzi negli intenti e nei valori che l’hanno messo in piedi. Parliamo di carcere come un’istituzione che non ha mai avuto, forse nella storia dell’umanità, un reale motivo di esistere se non quello della reclusione e della limitazione della libertà personale con il solo fine di punire chi ha rotto il “patto sociale”. Parole come “risocializzazione” abbiamo già sottolineato altrove, sono solo la base dell’ipocrisia insita nello stesso concetto di galera. 

«Parliamo di rieducazione e di risocializzazione come scopi ultimi delle pene, da un lato e di un’istituzione totale che separa – come prima e solenne ragion d’essere – le persone che commettono il reato dal resto della società nella quale è previsto il cosiddetto reinserimento.» – Dall’articolo “Donazione assorbenti per il carcere: cosa può significare il rifiuto di un dono da parte di un’istituzione?”

Perché il carcere è qualcosa che chiude e non apre alle possibilità, è un posto predisposto a eliminare l’umanità ad abbatterla. Non solo per chi la abita per “pagare” i suoi errori, ma anche per chi la vive per lavoro. Un’istituzione totale, come scriveva Erving Goffman, non è altro che «un luogo di residenza e di lavoro» dove agglomerati di persone sono tenute lontane dalla società per un significativo lasso di tempo. E sono, questi gruppi di persone, accomunati dalla medesima condizione di dover trascorrere porzioni di vita in «un regime chiuso e formalmente amministrato.» 

 

E se siamo poco indignati di fronte all’intima gioia di un umano di non far respirare un altro è perché il male è banale e ci ha sopraffatti, oltre che assuefatti. Perché è da tempo che sentiamo le notizie di chi si toglie la vita in carcere, del sovraffollamento, degli abusi di potere contro quei corpi rinchiusi. Siamo avvezzi a queste violenze continue e non ci stupiscono più. 

Pensiamo al potere delle parole, pensiamo alle reali conseguenze che generano: parliamo dei recentissimi casi emersi dal carcere di Trapani? Abbiamo letto le invettive, accompagnate dalle botte a secchiate di piscio di alcuni agenti penitenziari sui corpi indifesi, testimoni di ingiustizia, delle persone detenute. 

Male legittimato dall’essere compiuto verso quegli ultimi che ci hanno insegnato a disprezzare, a temere, a evitare, senza però conoscere. Si dipingono le persone che commettono reati come bestie senza cuore, ed è facile così cadere nell’errore che allora, nei loro confronti, tutto è lecito. La violenza, l’umiliazione, la crudeltà. Ed è in questa banalità che si arresta il pensiero, si riduce la complessità tutta umana di agire e sentire del mondo.

Stefano Cucchi – 27 ottobre 2024

LIVIA

Domenica 27 ci sarà il “memorial Stefano Cucchi“. 

È triste celebrare una morte, e lo è ancora di più quando questa è stata causata da abuso di potere prima e trascuratezza poi da parte delle forze dell’ordine e delle istituzioni.

Sono passati 15 anni da quando Stefano è stato ucciso a suon di botte e abbandono, 15 anni durante i quali si sono susseguiti processi, carte, solidarietà, ingiurie, cattiverie, abbracci, film, speranze, iniziative, parole, sconfitte e vittorie (per modo di dire, perché in questi casi non c’è vittoria che possa consolare).

 

Sarebbe bello potersi unire semplicemente per ricordare una persona che non c’è più, invece in questo caso è necessario farlo anche per sottolineare le cose che ancora non vanno nel sistema giustizia e nel sistema carcere.

Quotidianamente i diritti delle persone detenute vengono calpestati e troppo spesso la detenzione si trasforma in una punizione fine a se stessa, in trattamenti mortificanti, in corpi vessati dentro e fuori.

 

Più che mai quest’ anno è necessario esserci e partecipare perché ci troviamo di fronte ad un governo cieco e ottuso che pensa di risolvere i problemi sociali attraverso decreti fatti di controllo, punizione e repressione.

Zittire per non ascoltare il contraddittorio, punire per non riconoscere il disagio, reprimere per evitare il dissenso.

Tutte e tutti direttamente o indirettamente saremo colpiti da una delle tante regole contenute nel “pacchetto sicurezza” o dagli altri tentativi liberticidi che provano a smantellare diritti conquistati con fatica nel passato.

 

Partecipare è quindi importante, quest’ anno più del solito. Riunirsi nel nome di Stefano Cucchi è un modo per far sentire la propria voce, per guardarsi e riconoscersi, per dimostrare che riunirsi e dissentire non deve essere un pericolo.

 

Sarebbe bello immaginare che presto non serva più questo memorial, che il ricordo di Stefano possa finalmente tornare a una dimensione privata dove a ricordarlo sia chi lo ha conosciuto e vissuto nella sua totalità e non solo come vittima di un sistema barbaro.

Ma fino a quando quel giorno non arriverà bisogna continuare ad esserci e testimoniare, per questo domenica speriamo di vedere tanta gente, tanti volti diversi da quelli che incontriamo ogni anno e di respirare partecipazione e resistenza, sorridendo seppur nel dolore.