Cooperativa sociale che offre servizi di ascolto, orientamento, formazione, accoglienza rivolti a detenuti/e, ex detenuti/e e persone che vivono in condizione di disagio sociale.

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Una vita stravagante: le relazioni del passato

Parlando con S è quasi impossibile non cadere nei dettagli più intimi della sua stravagante storia di vita, connotata da sofferenze intense che guarda oggi con uno sguardo più critico e consapevole. Nel rispetto delle sue emozioni, tenteremo di riportare le sue parole  attraverso la medesima finzione interpretativa che accompagna le narrazioni delle persone che avete letto finora, ma che sento ancor più imperativa per questo tipo di argomenti. 
LE PAROLE DI S

La mia vita è stata piena di belle esperienze ma ho fatto anche tanti sbagli. 

Da giovanissimo ho perso mio padre e mio fratello, mi sono avvicinato a tante persone che potevo evitare. Le disgrazie in famiglia mi hanno fatto cambiare. L’uso di droghe non ha poi aiutato, insieme ai lutti che ho subito: quando perdi una persona cara ti resta quella rabbia dentro che è difficile che vada via. 

La famiglia mi è mancata tanto, ora mi è rimasta solo mia sorella ma non siamo mai andati molto d’accordo. Ero ingestibile, quindi capisco perché in molti si sono allontanati da me, ero un pezzo di ferro chiuso nella mia rabbia.

Parlando d’amore, S una volta mi ha detto:«Amore è una parola troppo grande, non la usare». Lui racconta spesso le relazioni del passato, per cui abbiamo cercato insieme di condividere con voi, nel modo più coerente possibile, quella che è stata la sua “vita amorosa” giovanile, intrecciata in modo quasi inevitabile con la tossicodipendenza. Infatti, S racconta brevemente anche della sua disintossicazione solitaria. 

Con i rapporti non sono mai stato quieto. Come facevano le donne, anche quelle “giuste”, a starmi dietro? Non ho saputo mantenere relazioni stabili proprio per la mia vivacità, volevo sempre di più

Tutto è amore, la vita è amore

L’amore per me è una cosa seria, un conto sono i rapporti superficiali, altro conto è quando una persona ti piace veramente e in quel caso si soffre. Nella maggior parte delle situazioni quando finisce una storia, anche seria, la colpa è di entrambe le parti. Anche se c’è sempre quello che io chiamo “la metamorfosi dell’amore”, cioè quel momento in cui ci si addossano le colpe l’uno con l’altra. 

La gelosia è forse uno dei motivi per cui mi sono sempre trovato a discutere con le donne della mia vita, perché in modo totalmente sincero confesso di non essere sempre stato fedele. Però poi quando è successo a me, che sono stato tradito da una persona a cui volevo molto bene, è stato brutto. Ho trovato la persona che mi voleva mettere in riga. L’amore è rispetto ma il mio cervello quando ero giovane si era inchiodato “io posso e lei no”. Poi ci ho ragionato, ho smesso anche di drogarmi e le cose sono cambiate.

Arrivi a un certo punto che sei in un tunnel senza più luce

Ti spegni lentamente, sei solo perché la gente inizia ad evitarti perché ti considerano pericoloso o fuori di testa. Ho perso tante persone, anche le più importanti, quelle a cui interessavo meno erano quelle che restavano di più ma per la droga, per convenienza. 

E quando me ne sono reso conto, ho capito che mi ero stancato di queste situazioni e di questi rapporti fittizi.

Ho cambiato anche il modo di pensare, sono andato via da quegli ambienti che restano sempre uguali e all’interno dei quali le persone non dimenticano mai cosa hai fatto. Quindi quando ti sei fatto terra bruciata poi non c’è più  modo di ricostruirti una vita diversa.  Per quanto riguarda la mia disintossicazione, da cocaina soprattutto, posso dire che ho fatto tutto da solo ma gradualmente. Ho iniziato prima a togliere l’alcool e poi con calma le cose più pesanti, oltre che come ripeto, ad allontanarmi da determinate amicizie, da determinati ambienti e soprattutto da certe donne con cui uscivo che erano tossicodipendenti come me. Infatti, spesso mi usavano solo per quello, l’amore per loro era la droga

 

Guardavo le persone intorno a me che arrivavano a delle condizioni veramente assurde e io pensavo che non volevo arrivarci mai così. Mi piaceva ascoltare quello che raccontavano, i loro problemi e le loro storie anche più complicate delle mie.

Ho cercato di aiutare una mia compagna in particolare, o meglio pensavo di aiutarla ma in realtà lei aveva già dei problemi di depressione e continuando a drogarci non abbiamo migliorato la situazione. Mi dispiace ancora oggi, ma quando ho provato a togliere le droghe ho capito che lei stava con me solo per quello. Ho sofferto molto per lei, ma è passata anche questa.

Guardando indietro e facendo i conti con il suo passato, S ad oggi è sereno.

Prima sì, avevo rancore per la comprensione che mi veniva negata. Ad oggi è diverso, ho accettato molte cose, mi sono liberato di tutto il peso che avevo dentro, ma c’è voluto tempo. Quando finisco qui devo ricominciare da capo e la cosa non mi spaventa, ho ricominciato così tante volte come se avessi vissuto tantissime vite.

La piramide è l’immagine scelta da R per rappresentare la sua vita, o meglio la sua crescita: la costruzione, mattone dopo mattone, della sua persona e del suo carattere; il frutto delle sue esperienze, del suo girovagare, delle decisioni prese, le perdite subite e l’accettazione delle stesse.

Ora sono completo, sono arrivato alla cima e ho voglia di vivere una vita normale, stabile. Io penso che la vita non è facile per nessuno e certe ferite restano per sempre, però è una grande soddisfazione quella di poter dire di avercela fatta. 

Il balcone della serenità

Ogni volta che arrivo in struttura, se A. non è al lavoro è in balcone a impiastricciarsi di terra. Il basilico, i fiori, le piante grasse del piccolo orto sono motivo di orgoglio: A. ti porta sempre a far vedere tutto e cerca di spiegarti il suo progetto su come intende migliorare sempre un po’ di più la disposizione dei vasi, la loro dimensione e ogni minima cosa con attenzione minuziosa per i dettagli. E ogni volta mi ricorda della pianta di piccoli melograni che gli ho promesso da mesi! 
LE PAROLE DI A

Qualche mese fa abbiamo deciso di rendere più accogliente il nostro balcone, trasformandolo in un piccolo orto.

È un’attività ricreativa e anche un momento di socialità in quanto coinvolge tutti: operatori e ospiti. Le piante che abbiamo deciso di acquistare per lo più sono piante grasse, ma anche da fiori. Principalmente me ne occupo io perché mi piace avere cura delle piante, infatti sono perito agrario ma è una passione che ho da quando ero piccolo.

In un contesto urbano in cui effettivamente c’è poco verde, è importante costruire degli spazi, anche sui balconi di casa, in cui si ritrova un contatto con la natura.

Il contatto con la natura, un contatto che si perde tra le fredde mura di una cella o di un semplice palazzo di città e si ritrova in questo caso su un balcone dove A. passa il suo tempo libero. Grazie all’orto in balcone, si ritrova la gioia dell’aver cura di qualcosa e il tempo di riflettere sul proprio presente e futuro: un futuro ormai prossimo e pensato “agricolo”.

 

Da quando sono arrivato nella struttura mi sono sentito finalmente quasi libero.

Libero anche quando si ha voglia di un piatto di pasta,ma soprattutto sono felice di non rientrare nel carcere a dormire. Prendermi cura delle piante del nostro balcone mi fa stare bene, mi riesco a rilassare mettendomi di buono umore, poi mi piace perché amo la natura e poi il nostro balcone è un punto di questa casa molto particolare: di sera ci passo molto tempo da solo a riflettere, ecco perché lo chiamo il balcone della serenità.

Il nome che A. ha voluto dare a questo articolo mi ha fatto subito sorridere. È una scelta lessicale che riflette largamente la condizione di un luogo colorato che ci fa subito rasserenare, anche nelle giornate poco soleggiate. Un luogo che porti nel cuore e nel quale torni a riflettere a fine giornata, tutti ne abbiamo uno. Il mio è una panchina fuori casa, per A. è il balcone abitato dalle sue amate piante, per voi? 

Undici anni al 41 bis

LE PAROLE DI C

Vorrei parlare del 41bis che nasce come una misura emergenziale nell’estate del 1992 per contrastare gli attentati mafiosi nei confronti dello Stato italiano e fu emanato decreto emergenziale e introdotto nel codice penitenziario, motivato dall’emergenza del momento. 

Nell’estate del 2008 il decreto emergenziale è stato tramutato in Legge dello Stato.

Quindi cos’è il 41bis?

Le persone che al loro arresto vengono sottoposte a tale regime carcerario subiscono misure restrittive che quotidianamente vanno al di là del confine tra il lecito e l’illecito, superando i limiti della Costituzione italiana.

Il 41 bis nasce per controllare le comunicazioni di una minima parte di detenuti, circa 750.

All’interno di ogni carcere che dispone di una sezione 41 bis, c’è una zona che si chiama area riservata, dove vengono ristretti quelli che vengono ritenuti i capi mafia, come per esempio Raffaele Cutolo o Totò Riina.

Controllo della comunicazione del detenuto sottoposto al 41bis

Gli unici modi che il detenuto ha per comunicare sono il colloquio e le lettere.

Attraverso il colloquio di 1 ora ogni mese, quindi 12 colloqui l’anno, il detenuto può parlare con la propria famiglia da dietro un vetro blindato. Il detenuto che ha un figlio può vederlo senza vetro: viene chiuso in una stanza con il bambino, dopo essere stato perquisito a fondo, questo per i bambini fino a 12 anni ma possono stare solo 10 minuti. 

Ogni incontro è registrato, non è possibile neanche fare gesti, perché potrebbero essere segnali per ad esempio ordinare un colpo.

Poi si può scrivere alla propria famiglia e alle persone libere ma è vietato avere corrispondenza con altri detenuti.

Ogni lettera da inviare va consegnata aperta perché la posta è sottoposta a censura: per esempio, a volte,  io usavo scrivere proverbi e modi di dire… se l’agente che era preposto alla censura nel leggere la mia lettera notava un linguaggio criptico, la lettera veniva sequestrata e inviata al Magistrato di sorveglianza.

Il detenuto di quella lettera non saprà più nulla.

La mia esperienza personale

Durante la mia detenzione al 41 bis durata 11 anni fu discusso diverse volte se prorogare o revocare la misura. L’applicazione regime differenziato mi fu revocata: durante l’udienza il Pm fece riferimento a tutte le sanzioni disciplinari ricevute da me tra cui alcune denunce, ma il Giudice rispose: «Va bene procuratore, sappiamo come vengono trattati i detenuti nei reparti 41 bis,  quindi andiamo avanti non soffermiamoci su questo punto, giusto?»

Quindi in quel momento compresi che i giudici sono a conoscenza della realtà che si vive dentro. Non che cambiasse qualcosa, ma è stato importante sapere per certo che un Presidente di un tribunale durante l’udienza dove si discuteva se rinnovare o revocare un provvedimento di regime differenziato, fosse consapevole di come sono trattati i detenuti al 41bis, infatti mi fu revocato.

È vero forse che il 41 bis serve a controllare la comunicazione dei detenuti, almeno quella piccola parte, ma il resto di quelle regole del regime differenziato sono solo abusi volti a distruggere l’identità di una persona. Ad esempio, cosa c’entra l’imposizione degli indumenti intimi, delle calzature, del vestiario con la sicurezza? 

Attraverso il racconto di alcuni episodi vissuti, C spiega le particolari condizioni in cui il detenuto del 41bis vive la propria reclusione. Alcune misure possono risultare assurde e prive di significato, altre sembrano invece costruite appositamente per umiliare e spaventare la persona detenuta.

Al detenuto sottoposto a tale regime è stato quasi sempre vietato cucinare per motivi di sicurezza. Ci sono poi molte altre misure, come per esempio ogni volta che uscivo dalla cella dove ero ubicato dovevo sottopormi –  come tutti gli altri detenuti –  ad una perquisizione, che comprendeva denudazione e altre umiliazioni come fare flessioni e essere perquisito ovunque, perfino in bocca.

Quando devi parlare con il comandante, due o tre agenti ti scortano in ufficio, mentre dentro ad aspettarti ce ne sono degli altri. Una volta entrato, subito ti fanno fare due passi avanti perché devono entrare tutti, con gli agenti dietro le spalle ti ordinano di mettere le mani dietro la schiena. Mentre parli con il comandante sei consapevole di avere dietro di te altre quattro, cinque o sei persone che solo con la loro presenza incutono un senso di timore perché il detenuto in quelle situazioni è sempre in stato di minorità e al minimo errore può subire conseguenze, anche aggressive.

C riflette sul comportamento di alcuni degli agenti che ha incontrato durante il suo percorso, è questo il modo giusto di relazionarsi con il detenuto?

Allora quando succede questo, penso che loro non stanno lì per fare gli agenti ma per fare qualcos’altro. Chi ti autorizza a comportarti in questo modo? Cosa ti ho fatto? 

Ho commesso dei reati gravi? Sì, infatti sto in carcere.

Stare in carcere significa che si deve essere trattati da detenuti non che si debbano ricevere aggressioni o torture psicologiche. 

Mi privi dell’aria, mi privi di guardare il cielo, mi privi di un affetto, mi privi anche della gioia: è proprio così, per un ragazzo di ventiquattro o venticinque anni che dalla sera alla mattina si trova chiuso in quel regime.

E ricorda di quando è stato arrestato, le sensazioni che ha provato: oltre la paura, lo smarrimento di non conoscere il tempo della sua pena nel regime differenziato. 

Io personalmente non è che non ho avuto paura, dico la verità, quando mi hanno caricato sull’aereo per portarmi al 41bis, sapevo che esisteva chiaramente ma non ci ero mai stato. Non è che ho pianto ma dentro di me avevo un po’ di timore.

Quando sono stato arrestato, si è deciso che fossi pericoloso e quindi dovevo andare al 41bis ma neanche mi hanno detto per quanti anni ci sarei dovuto stare

È tutto senza regole. Mi danno il 41bis, prendo l’aereo e vado. All’epoca si discuteva ogni 6 mesi, cioè ogni 6 mesi in tribunale si discuteva la tua pratica: mi davano sempre 2 ore di colloquio al mese e 2 pacchi (con i vestiti e le cose che i miei famigliari potevano inviarmi). Poi hanno fatto un tribunale speciale per discutere il 41bis.

Il caso Cospito e l’abolizione del 41bis

Il caso Cospito secondo me è una battaglia persa perché è diventato uno strumento di propaganda politica (caso Donzelli).

Il 41bis non lo aboliranno mai, al massimo cambieranno delle minime cose interne per dare il contentino a chi non è d’accordo con questo tipo di regime.

Ad esempio abolendo alcuni divieti che riguardano l’alimentazione e tutti i generi che i detenuti del 41bis per circolare interna non possono avere.

Alla fine di tutto, penso che se il caso Cospito andrà così a fondo da portare il brigante o il politico di turno a entrare nel merito del regime, potrà al massimo “addolcire” internamente i detenuti e aumentare magari i colloqui con gli affetti e queste cose qua.

Per argomentare il suo discorso, C fa riferimento alle parole dell’ex magistrato e presidente della Commissione antimafia Luciano Violante in relazione ai detenuti mafiosi reclusi al 41 bis. Poi, esprime brevemente il suo pensiero riguardo alla mafia in generale e al sistema rieducativo del carcere in Italia, sempre riferendosi alla propria esperienza di vita. 

Io penso seriamente che pure il più spietato dei capi invecchia, dopo 40 anni di detenzione. Violante, che secondo me è un uomo che ha detto sempre la verità, ha affermato che i vecchi devono morire e i giovani devono farsi vecchi in carcere

I mafiosi sono il male dell’Italia, sono d’accordo, stanno bene dove stanno però trattateli da umani. Fateci vedere che lo Stato è meglio di loro. Perché io delinquente che mi alzo la mattina e vado a vendere la droga, vado a fare le estorsioni, sono una persona deviata. Posso essere recuperato o meno, è una scelta che devo fare. Se io mi recupero, devo far vedere agli “ex compagni miei” come sto meglio, spensierato che non ho più tutte le preoccupazioni che hanno loro, non devo più stare sempre attento a guardarmi le spalle per paura che in ogni momento possano uccidermi. Perché quello che fai ti viene fatto, non è che c’è tanta alternativa. 

Nel mio caso, credetemi, io avrei avuto bisogno tanto di educatori o psicologi. Sono sempre stato solo e in ogni colloquio che ho fatto non sono mai stato seguito veramente.

Allora mi sono reso conto che è proprio la struttura che non è fatta per farti recuperare, quindi che lo Stato non ti vuole recuperare. Io oggi sono qui, lo devo dire, per la mia famiglia che mi dà sostegno. Le altre persone come me? Ne conosco molti che hanno perso anche le mogli, perché nessuna donna s’imbarca dentro una storia del genere e se tu le vuoi bene le dici di non venire più a trovarti. Restano abbandonati, dalle famiglie e da chi li dovrebbe aiutare. Non c’è speranza, per questo dico che non ci credo. 

E lo dico io perché so molto bene la fortuna che ho avuto e continuo ad avere.

Il mio percorso in carcere

Partendo da un discorso generale sul rapporto di G con il mondo carcerario per intero, nasce un approfondimento sulla sua esperienza personale che vuole stimolare una riflessione sul valore che ha l’atteggiamento pregiudiziale nei confronti dei detenuti e delle detenute, in relazione all’inclusione sociale degli stessi. 

LE PAROLE DI G

Articolo 1 – Ordinamento Penitenziario

“Il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona.

Il trattamento è improntato ad assoluta imparzialità, senza discriminazioni in ordine a nazionalità, razza e condizioni economiche e sociali, a opinioni politiche e a credenze religiose.

Negli istituti devono essere mantenuti l’ordine e la disciplina. Non possono essere adottate restrizioni non giustificabili con le esigenze predette o, nei confronti degli imputati, non indispensabili ai fini giudiziari.

I detenuti e gli internati sono chiamati o indicati con il loro nome.

Il trattamento degli imputati deve essere rigorosamente informato al principio che essi non sono considerati colpevoli sino alla condanna definitiva.

Nei confronti dei condannati e degli internati deve essere attuato un trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso i contatti con l’ambiente esterno, al reinserimento sociale degli stessi. Il trattamento è attuato secondo un criterio di individualizzazione in rapporto alle specifiche condizioni dei soggetti.”

Il tempo per trasferire lo stipendio

G è in semilibertà, ha un lavoro e percepisce lo stipendio come ogni persona che svolge attività lavorativa. Come riceve il denaro un detenuto che lavora? Una cosa poco nota è che ogni detenuto ha diritto ad avere un conto all’interno dello stesso Istituto Penitenziario: per chi è assunto da terzi – pubblici o privati –  l’iter prevede che il pagamento dello stipendio passi per l’Istituto, il quale si occupa di girare successivamente il bonifico sul conto personale del detenuto. 

È possibile che lo stipendio arriva l’8 del mese all’Istituto e a me viene girato il 24? È possibile che mia moglie con la mia famiglia non ricevono soldi in tutto questo tempo? 

Io capisco che è l’iter ma qui si tratta di un bisogno vero, quanto ci vuole per girare la mensilità? Più di venti giorni? E poi il problema è che se provi a chiamare, con tutta la calma e il rispetto possibile loro ti rispondono pure male. Ti trattano come se li scocciassi, come se a me fa piacere stare attaccato al telefono per ricevere quello che è mio e mi guadagno

Loro aspettano che tu sbrocchi e parti con il cervello, questa è la sensazione che ti danno: aspettano per farti rapporto e rispedirti in carcere. Non voglio generalizzare troppo, perché non tutti sono così, non tutti abusano così della loro posizione, fortunatamente. I tempi sono lunghi per tutto, mica solo per ricevere lo stipendio, anche se questo mi preme di più perchè chiaramente va a discapito della mia famiglia. 

Il tempo per ottenere l’affidamento

Il 31 dicembre sono rientrato in carcere e per questo avevo fatto richiesta di Affidamento in prova ai servizi sociali prima (Capo VI dell’Ordinamento Penitenziario – Misure alternative alla detenzione e remissione del debito – Art. 47).

In questo modo dalla struttura in cui ero da circa due anni e mezzo, non sarei più tornato in carcere e avrei potuto finire gli ultimi anni di pena fuori, magari anche a casa con la mia famiglia. Avere la possibilità di non tornare più dentro rappresentava una gioia grande, il fatto che ci sono tornato psicologicamente mi uccide.

Il problema qual è? Anche qui c’è stato bisogno di un tempo infinito per avere una risposta e tanti, tantissimi solleciti al Tribunale di Sorveglianza. Di fatto si tratta di una firma, nel mio caso, perchè i requisiti per ottenere la misura ce li ho tutti però sembra che non ci sia nessuno dall’altra parte a metterla questa firma o anche a non metterla

Ad oggi ho una data per l’udienza, a maggio, dopo lunghi mesi di attesa.

Instaurare una relazione con i detenuti 

Quando si parla con una persona, soprattutto in vista di una rieducazione, devi essere gentile, paziente; non aggressivo. È normale che non deve essere così, perché immaginate di avere un cane chiuso in una gabbia – forse l’esempio è un po’ brutto però è così – se lo trattate male questo cane, non lo accarezzate, gli urlate e non gli date da mangiare, quando esce vi abbaia, vi morde: lo stesso succede per il detenuto.

Le persone che lavorano in carcere non trovano il tempo per ascoltarti, non vogliono o non possono: noi abbiamo mancanza di affetto e nessuno ci fa sentire ascoltati.

Quando è morto mio padre, ero nella mia cella e stavo nervoso, arrabbiato, frustrato. 

Stavo combinando un bel casino, però è arrivato un agente molto buono: una persona veramente umana che mi ha parlato, riferendosi a me per nome invece che con il mio cognome. Mi ha mostrato comprensione per il momento difficile che stavo affrontando e mi ha dato modo di ragionare sul comportamento che stavo avendo, che andava solo a mio discapito. Stavo sempre chiuso, non è che abbia fatto qualcosa di particolare: semplicemente una parola mi ha calmato e mi ha dato quello di cui avevo bisogno – calore ed affetto, infatti poi mi ricordo che sono crollato a dormire. 

In carcere le persone vivono per una lettera

Una lettera, un foglio di carta: la gente vive solo per quello in carcere, lo sapete? 

Fuori non si dà troppa importanza a certe cose.

Quando passa l’addetto alla posta a consegnare le lettere, le persone cambiano umore: dacché stanno tutti a muso lungo, a braccia conserte nelle celle a che si aprono dalla gioia, alla scoperta di cose nuove.

Quando io ricevevo la lettera, ad esempio di mia moglie, sapete che facevo?

Mi organizzavo come se fosse l’impegno più importante della giornata – il che era così effettivamente – mi preparavo la postazione e iniziavo a leggere molto molto lentamente: non volevo che finisse.  Finivo di leggere, la posavo. Dopo un’ora ricominciavo a leggerla. 

Abbiamo sbagliato e io ne sono consapevole, è giusto che paghiamo ma con dignità e umanità. 

Noi per l’opinione pubblica siamo lo scarto degli scarti.

Ma le statistiche parlano chiaro, le persone detenute che hanno avuto l’opportunità di lavorare non hanno più commesso reati. Quindi di che parliamo?

In questo modo tu vai a diminuire la delinquenza e a ricostruire una società diversa, migliore.

Gli educatori in carcere ci sono? 

Dove stavo io c’è solo un’educatrice per un carcere intero! Una sola che deve gestire tantissimi detenuti e molti anche con problematiche serie, come la tossicodipendenza. Come fa? 

Un giorno parlando, e le chiesi: “Dottorè ma come fa adesso con tutte queste persone? Le hanno lasciato un bel carico di lavoro!”. Lei mi rispose: “Dove arrivo metto il punto!”.

E chi paga per questo? I detenuti.

Giustamente lei non può fare altrimenti, quindi il problema è a monte: c’è bisogno di più educatori ed educatrici!

La tecnologia per gli over 60

Osservando insieme i risultati dello studio di Pro Senectute riguardo l’utilizzo di internet e della tecnologia per le persone over 60, Digital Seniors, nasce una riflessione con E che è l’ospite più anziano incontrato durante il mio percorso di tirocinio e allo stesso tempo quello più competente nel campo tecnologico.

LE PAROLE DI E

“Dal 2010 c’è stato addirittura un aumento del 50% delle persone anziane che si connettono in rete. […] Il crescente interesse per le tecnologie digitali da parte delle persone anziane si manifesta anche attraverso la partecipazione a corsi di computer, tablet e smartphone organizzati dagli enti che si occupano di anziani. Si tratta di avvicinare questi ultimi a un mondo, quello dei dispositivi digitali, in cui si possono creare nuove opportunità di comunicazione e competenze per l’accesso alle informazioni e ai servizi online.”

Tu cosa ne pensi?

L’elettronica è molto importante, c’è sicuramente da tener conto di una cosa: oggi la tecnologia è diventata parte della nostra vita e vuoi o non vuoi dobbiamo abituarci, è un passaggio obbligatorio di questa fase e diventa sempre più un imperativo.

Non è tanto una questione di età ma di obbligo, è un qualcosa di imposto dal contesto contemporaneo, dalla nostra quotidianità.  

Guardando la tecnologia dalla prospettiva della reclusione e dell’anzianità possiamo dire che è molto importante soprattutto perché aiuta  a mantenere sveglia la mente e a non vivere questa parte della vita in una condizione di apatia.

Si può cadere molto facilmente nell’apatia in carcere, ancora più facilmente quando si è anziani e questo è molto negativo. Ed è per questo motivo che la tecnologia per gli over 60 diventa un aiuto psicologico importante; può portare le persone a vedere le cose in modo diverso, ad allargare gli orizzonti che passivamente non guarderebbero. 

Questo aiuto però è contraddittorio, perché gli orizzonti possono essere molteplici e anche devianti. Deviante nel senso che se una persona non ha una consapevolezza salda ed equilibrata di se stesso e quello che vuole, per percepire in modo corretto l’informazione che riceve, può cadere nella possibilità di scegliere una direzione sbagliata piuttosto che un’altra.

Per questo si deve riuscire a costruire un’autonomia critica di pensiero e in questo internet può aiutare: sforza la mente. 

Cosa mi piace della tecnologia

Io ho iniziato da giovane ad interessarmi dell’elettronica, ho studiato questo perché mi è sempre piaciuto: l’elettricità, l’elettronica, la capacità di creare qualcosa da zero ti fa sentire reale, partecipe di quello che costruisci; l’informazione, la capacità di poter gestire un computer, essere padroni dell’informatica e in qualche modo dei tempi che corrono. Sono un radiotecnico elettricista specializzato con partita iva, ho lavorato in questo ambito per anni e quando posso lo faccio ancora. 

Quando ho iniziato esistevano ancora le radio a valvole! Questo è quello che più mi piace dell’elettronica, perché è un qualcosa in continuo sviluppo: quando pensi di aver imparato a conoscerla, già ti ha surclassato. Possiamo dire che è ancora giovane e in una fase di espansione, infatti è importante anche in ambito lavorativo. Tutto quanto oggi funziona attraverso il digitale, il consiglio che davo sempre ai miei figli era quello di studiare e lavorare in questo campo, dato che c’è una richiesta di lavoro importante nel mondo dell’elettronica.  

Il problema in questo senso è che manca la reale consapevolezza di ciò che si vuole, non solo oggi, capitava anche ai miei tempi. Oggi però c’è la possibilità di prendere tantissimi indirizzi differenti. Avere le idee chiare e sapere cosa si vuole fare è importantissimo ma allo stesso tempo bisogna guardare al mercato, a quello che richiede. Ci dobbiamo rendere conto che ormai in ogni lavoro che si vuole fare, c’è sempre un computer di mezzo

Pro e contro della digitalizzazione

Avete mai preso la metro? Io mi soffermo spesso a guardare le persone, non c’è una persona senza telefono in mano. Che significa questo? 

Noi diventiamo schiavi del telefonino e perdiamo la capacità di comunicare con l’altro. 

Facciamo un esempio molto semplice: io vivo a Milano, ho dei vicini. Li conosco? Mi interessa di conoscerli? No e molto probabilmente vale lo stesso per loro. La mia vita è veloce, frenetica. Appena metto piede fuori dalla porta di casa ho il telefono in mano, anzi, anche da dentro casa ho il mio cellulare con me. Parlo di comunicazione tra individui: con la digitalizzazione si creano nuove forme di comunicazione è vero, ma sono forme virtuali e non reali. Allora mi chiedo: è meglio una comunicazione reale o virtuale?

Anche nelle famiglie, è importante creare momenti di condivisione e riunione, ad esempio a tavola, senza telefono o televisore acceso. Se vogliamo guardare la cosa dal lato positivo, dobbiamo necessariamente guardare alla possibilità che ci dà la tecnologia di parlare anche con le persone che si trovano dall’altra parte del mondo.

Gli strumenti digitali poi sono molteplici come sappiamo.

Ad esempio, rispetto al telefono il computer è diverso: è principalmente un mezzo di lavoro, anche di comunicazione ma ha una funzione che non ti esula da quello che è il rapporto con gli altri. 

La condivisione dei momenti tramite i social, ad esempio, secondo me non ha alcun senso. Immaginate di andare in vacanza ad Atene e stare tutto il tempo a fare video per Facebook. Che senso ha? Solo per dire al mondo “io sono stato qui!”. Personalmente se faccio il video ai paesaggi e alle mille cose da vedere della città di Atene, lo mostro ai miei cari quando torno: e questo è il mio modo di pensare la condivisione.  Si perde troppo tempo a guardare video divertenti e inutili, sono distrazioni alienanti che ti fanno uscire fuori da te stesso e da quello che è la vita reale. Durante il lock down, è innegabile che lo smartphone sia stato utile perché ovviamente ha dato la possibilità alle persone di comunicare, quando tutti erano chiusi in casa.

Il telefono è uno strumento importantissimo ma non devo diventarne schiavo.

Per quanto riguarda invece la privacy di una persona, non possiamo non sapere che questa viene persa all’interno del circuito digitale: non si ha più diritto alla propria privacy e si vendono i propri dati al commercio. Questo, ad oggi, è inevitabile e tutti ne siamo consapevoli.

Il telefono è anche questo, una spia dei nostri movimenti che portiamo sempre con noi, ascolta e vede sempre – anche di notte. Avete mai ragionato sul fatto che ora non si può più togliere la batteria allo smartphone? 

In questo modo, il telefono non smette mai di lavorare e di fatto non può essere mai del tutto spento! Su questo c’è molto da ragionare.

E voi cosa ne pensate? 

Prendere la patente – riscoprire l’entusiasmo nelle azioni quotidiane

In uno dei primi incontri, G si mostra entusiasta come un bambino per la novità della patente: ha appena superato l’esame teorico dopo mesi di studio e ne è super orgoglioso.

  1. L’arresto – la questione dei documenti;
  2. Assente dalla vita per un po’ – la relazione con gli altri;
  3. Prendere la patente – il giorno dell’esame;

L’arresto – la questione dei documenti

Quando vieni arrestato ti tolgono tutto: pure i lacci delle scarpe. Nel momento in cui esci ti ridanno quello che avevi, ma dipende dai casi. Per esempio, a me la patente l’hanno bloccata perché la mia condanna non era una cosa semplicina. Quindi ho dovuto ricominciare da capo, ma prima di farlo ho dovuto fare tutte le carte e ripartire da zero: vita nuova, patente nuova.

In tanti hanno detto “ma quando se la prende la patente questo!”.

Perché effettivamente prendere la patente oggi è molto più difficile rispetto a quando la presi io. Quando sono andato a scuola guida, erano tutti ragazzi giovani e mi sentivo molto a disagio.

Assente dalla vita per un po’ – la relazione con gli altri

Solo una signora conosceva la mia situazione, a lezione mi mettevo sempre dietro e ascoltavo l’istruttore che però non sapeva il motivo per cui stavo prendendo la patente a quest’età. Infatti un giorno me l’ha chiesto e io gli ho risposto “per 18-19 anni sono stato assente dalla vita”. Fortunatamente è stato chiamato dalla suddetta signora che gli ha spiegato la situazione e gli ha detto di evitare di parlarne davanti a tutti, così ha fatto.

Mi sentivo molto  a disagio: non voglio che le persone, soprattutto ragazzi giovani, mi guardino con timore, io voglio essere una persona normale.

Poi con il tempo ho preso un po’ di confidenza, ero l’unico a fare sempre domande e infatti sono stato anche ripreso dai ragazzi che mi hanno detto che parlavo solo io!

Lì ci sono andato per imparare chiaramente e questo dovevo fare, se non capivo facevo domande, era importante per me.

Prendere la patente – il giorno dell’esame

Quando siamo andati a fare l’esame ero teso come non mai, che ansia! 

Mi ha accompagnato l’educatore e dopo neanche 5 minuti avevo già concluso. Ho combinato un po’ di casino dentro l’aula, perché non riuscivo ad accendere il computer e tutto ma nessuno voleva aiutarmi perché è vietato parlare, poi per fortuna una ragazza mi ha detto come dovevo fare. 

Tornato a Casa la sera mi chiama la scuola guida: tutti bocciati tranne me. Avevo imparato a memoria TUTTE le domande, ho fatto i quiz sul telefono per 4 mesi durante ogni momento libero che avevo:  a pausa pranzo a lavoro, sui mezzi, la sera prima di andare a dormire… sempre!  Con costanza e impegno ci sono riuscito ed è per me motivo di orgoglio. 

Sono felice di aver preso la patente perché mi sento sempre più vicino alla normalità della vita quotidiana.

LE PAROLE DI G

Guardare il mondo da un balcone

Il primo incontro con E sul balcone della struttura è stato decisivo per scegliere l’argomento di questo articolo. E ci racconta come, osservando le persone che passano per la strada, nascono le riflessioni più stimolanti. 

Osservare la vita degli altri dal balcone, è proprio vero, ti lascia delle riflessioni importanti: ti permette di vedere la vita da molti punti di vista. Ragionamenti che ti fanno vedere la vita in diverse dimensioni, le quali spesso ti fanno salire la rabbia per delle situazioni ingiuste che si osservano.

Vedo spesso qui sotto passare una donna, una signora anche molto anziana che rovista nella spazzatura. Penso ci voglia veramente una bella forza d’animo per scendere al gradino più basso della dignità a rovistare nella spazzatura per cercare del cibo.

Vedo anche gente giovane a rovistare nella spazzatura. Dov’è la realizzazione di una persona? Io non lo capisco. 

Le condizioni di lavoro e gli stipendi dei giovani sono abbastanza dignitosi per permettere a un giovane che non ha una famiglia di vivere, non di sopravvivere?

E per tutti quei giovani che passano gli anni a studiare, anche con risultati eccellenti, che si ritrovano poi a lavorare come camerieri? 

Si aprono dentro di me una serie infinita di pensieri sulle condizioni dell’uomo nella società contemporanea che spesso non trovano risvolti. 

La vita di per sé è un sacrificio continuo, il sacrificio serve sempre per modificare in meglio la propria vita. 

Oggi quando io sono sul balcone mi guardo intorno e vedo le case, le famiglie di persone benestanti e i ragazzini che si divertono per la strada la sera: vedo la spensieratezza, con poca consapevolezza delle realtà di disagio che esistono concretamente nella nostra società. Se mi sposto in un altro quartiere diverso però noto una realtà molto differente rispetto a questa. 

E allora quello che sul balcone mi fa riflettere principalmente sono le contraddizioni della vita sociale

Tutti siamo esseri umani però non è vero, noi abbiamo classificato le persone in base all’utile che rappresentano. 

Lasciare sempre aperta la porta della diffidenza nei confronti dell’altro mi sembra importante, è quello che consiglio spesso ai miei figli: un meccanismo di difesa fittizio perché pensi di proteggere te stesso in questo modo ma di fatto non succede.

Quando sei in una situazione di obbligo gli sforzi dovrebbero essere sempre più intensi per cercare di rendere meno pesanti le contraddizioni della vita sociale e per farlo è importante sempre la conversazione tra gli individui.

Diametralmente opposto all’episodio della vecchietta che raccoglieva la spazzatura, il quale va ad evidenziare una problematica radicata nel profondo del nostro paese, c’è l’espressione dell’umanità che si cura della propria comunità nella figura della “signora ecologica”.

Una donna che passa sotto il balcone della struttura e pulisce la strada dall’immondizia. Un gesto nobile che ti fa ragionare: una differenza sostanziale rispetto a molte altre persone che si vedono passare e buttare le cose in ogni posto, senza avere cura di nulla. 

Penso che la signora voglia giustamente mantenere un certo decoro urbano e potrebbe essere considerata proprio nel ruolo del buon cittadino, un ruolo marginale se si pensa al menefreghismo che regna nella società di oggi.

Quello che fa la signora ecologica dovrebbe rappresentare un esempio per tutti su come ci si deve comportare nelle città italiane, perché chiaramente in altri posti del mondo la situazione cambia e non poco, ma questa rimane un’utopia

Noi siamo consapevoli di ciò che ci circonda ma siamo abituati a questo: è una questione culturale. Non cambierà nulla dunque, finché non verranno predisposte delle strutture, messe in atto delle strategie per sensibilizzare ed educare le persone a vivere in società

LE PAROLE DI E

L’importanza del sostegno familiare in Carcere: la mia esperienza

La mia famiglia è molto numerosa, se guardiamo in grande. Io con mia moglie però abbiamo tre figli, di cui l’ultima che ha 20 anni è nata mentre io ero già in Carcere, per cui non l’ho vista crescere come avrei voluto. Ringraziando Dio mia moglie mi è sempre stata vicino e mi ha seguito passo dopo passo: ha mantenuto viva la mia presenza all’interno della famiglia.

Quello che mi ha portato avanti 20 anni in Carcere è stata proprio la mia famiglia, la forza più grande. Senza famiglia in carcere sei finito: penso a tutte quelle persone che si tolgono la vita, perché si sentono soli e abbandonati. Invece quando hai una famiglia che ti sostiene, fai i colloqui e ti carichi. 

Hai una speranza. 

  1. I colloqui familiari in Carcere;
  2. Quando esco vado subito dalla mia famiglia;
  3. La mia nuova vita.

I colloqui familiari in Carcere

Ogni 15 giorni avevo diritto a un colloquio. Quindi due volte al mese: uno lo facevo con mia moglie e mia figlia, l’altro con mia sorella. Anche la mia famiglia di appartenenza è stata fondamentale durante il mio percorso. Nonostante loro non siano mai stati d’accordo con le mie scelte di vita, mi hanno sempre seguito e mi sono sempre stati vicino in tutto.

All’inizio ho preso molti rapporti, non avevo accettato la mia condanna e quindi litigavo con tutti, soprattutto con gli agenti di Polizia Penitenziaria: il periodo più lungo che ho passato senza vedere la mia famiglia è stato di tre mesi. 

Sono stato tre mesi in isolamento in un Carcere in Sicilia, da dove volevo andare via, farmi spostare, proprio perchè troppo lontano da casa e mia moglie per venirmi a trovare si stancava tanto. Ho fatto  lo sciopero della fame per 15 giorni, perdendo 20 kg in un mese ma non ho ottenuto niente e per questo ho fatto un po’ di casino, così mi hanno chiuso in isolamento – dove sei solo tu e le pareti lisce

Piano piano mi sono fatto una ragione e ho iniziato a migliorare il mio comportamento, ottenendo anche il trasferimento. Ho girato un po’ di carceri: dalla Sicilia a Secondigliano, Napoli, Viterbo, Roma … 

Quando esco vado subito dalla mia famiglia

La mia condanna è di 29 anni e in pratica io la sto scontando tutta. Ora che sto sotto i 4 anni (cioè che mi mancano solo 4 anni alla fine della pena) posso fare richiesta per l’affidamento in prova ai servizi sociali.

Una volta ottenuta quella, si spera, cercherò di spostare l’affidamento da qui a casa mia: così potrò vedere mia nipote! Mia figlia più grande ha partorito ma non mi hanno dato permessi per andarla a trovare.

Gli equilibri dentro casa dovranno trovare nuovi incastri, è chiaro, una volta che potrò tornare. Non so immaginare come sarà, perché ovviamente sarà diverso rispetto a ora che magari mi vengono a trovare per massimo due, tre giorni. Allo stesso tempo dovremo tutti fare i conti con i cambiamenti che si sono vissuti in questi anni di lontananza. In primis io, sono cambiato molto. Soprattutto per quanto riguarda il rapporto con i soldi: rispetto a prima sono molto più serio e gestisco meglio i miei soldi, senza andare a spenderli per cose futili. 

La mia nuova vita

Se potessi tornare indietro non rifarei quello che ho fatto ma una cosa è sicura, andrei a lavorare. Questo perché fondamentalmente, il percorso delinquenziale che ho scelto io da giovane di intraprendere può portare solo a due cose: una vita in carcere o la morte

Questo è quello che penso io, sicuramente anche per la mia specifica esperienza. 

Ad oggi io preferisco lavorare e sarei pronto a farlo fino al giorno della mia morte. Lavorare mi dà tanta soddisfazione, mi piace per questo: perché sono orgoglioso di quello che faccio, non sono fiero per niente di quello che ero. Se ci ripenso, mi ricordo di una volta che mio fratello era venuto a casa mia per aiutarmi con un signore che lavorava al comune per offrirmi un lavoro. Io ero totalmente fuori di testa, ora mi taglierei una mano per quel lavoro, mentre al tempo li ho cacciati di casa.

Tutte le sere mi ripeto in testa le parole di mio padre quando gli dissi che io “volevo fare il boss” e lui mi rispose: il vero boss è quello che alle 6 la mattina si alza, si mette la colazione sotto braccio e va a lavorare.

Dentro di me pensavo fosse uno scemo, oggi invece dico parole sante! – la galera mi ha cambiato tanto.

La mia famiglia mi ha sempre insegnato cose diverse dal percorso che poi ho scelto: me se ‘mbriacato o cervello. Così in carcere, piano piano, ho iniziato a prendermi la responsabilità delle mie azioni, parlando con me stesso ho capito tutto e ho iniziato a fare quello che potevo per mantenermi attivo. Ho lavorato dentro il carcere: pulivo i pavimenti, i gabinetti; ho partecipato a tutti i corsi che c’erano, da quello di fumetti a quello di pasticceria.

Quando dai un lavoro o un’attività a un detenuto, lo salvi.  

Questo però non l’ho capito subito, anzi. 

Il primo periodo di carcere l’ho vissuto quando avevo quattordici anni e no, non sono “uscito migliore”. Sono entrato in un meccanismo particolare che mi faceva alzare l’asticella sempre un po’ di più: mi sentivo superiore agli altri, a tutti quanti. Pensavo di poter far tutti fessi facilmente e per questo commettevo crimini anche in modi così assurdi che ad oggi non saprei neanche spiegare come facevo. Una volta appena uscito, per tornare a casa, ho rubato una macchina: appena fuori dal cancello del carcere.

Sono stato arrestato 36 volte! 

Non sono fiero per niente di quello che ho fatto ma sono tanto fiero di quello che sono oggi. 

LE PAROLE DI G

Le contraddizioni del carcere

Le contraddizioni del carcere, secondo E

Il presupposto da cui vorrei iniziare il discorso è che per la sua funzione, il carcere è già di per sé una contraddizione.

Se partiamo da una prospettiva più lontana, dobbiamo dire che è inevitabile che un carcere in una società umana qualsiasi, diventi un posto di isolamento, un po’ come un ghetto. 

A chi serve il carcere oggi? Cos’è veramente il carcere oggi? 

Andando indietro con il tempo, penso alle persone che si ammalavano di malattie particolari e venivano messe da parte, chiuse nei ghetti e isolate dal mondo: poi non importava più a nessuno di loro, potevano vivere o morire ma una volta che venivano chiusi lì, veniva dimenticato il problema. 

Lo stesso accade per il criminale in carcere.

  1. Isolamento ai fini della rieducazione;
  2. L’atteggiamento delle persone che lavorano in carcere;
  3. Povertà e immigrazione;
  4. Le Case Famiglia;
  5. Quando la comunicazione funziona.

Isolamento ai fini della rieducazione

Il concetto di isolamento di ciò che è indesiderato mi fa porre la domanda: se il carcere non ha come fine ultimo quello dell’isolamento e la nostra Costituzione dice che deve essere portato ai fini di un recupero, perché non c’è il ragionamento, la comunicazione e la comprensione dietro al rapporto con il detenuto? 

L’articolo 27 della Costituzione italiana

《L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte.》

Questa è anche una contraddizione della condizione umana.

Ognuno di noi ha i suoi difetti e il suo modo di pensare, e tutto questo si ripercuote spesso sul mondo del lavoro, nei rapporti di famiglia e nella vita in generale: allora perchè non lo pensiamo anche all’interno dell’istituzione carceraria?

Ragionare, conoscere e dialogare – non c’è migliore forma per capire l’altro e per far sì che il detenuto ritorni a vivere all’interno di un equilibrio sociale.

La contraddizione sta nel dualismo delle figure interne al carcere: agente – detenuto, che si legge nel rapporto pregiudiziale instaurato tra “io, agente di Polizia Penitenziaria” persona onesta e “il criminale”, colpevole e disonesto. 

Se il carcere è solo una cella, una sbarra dove le persone ti dicono “puoi mangiare questo e non quello” ecc. il recupero, la rieducazione non avviene. Non lo vedo se guardo al nostro paese e ci sono persone che non arrivano a fine mese, che non hanno i soldi per mangiare e che dormono sui cartoni. Ed è questa la più grande contraddizione di una società che genera contraddizioni. Come si può pretendere da una persona che non ha nulla, che una volta uscita fuori dal carcere non commetta nuovamente un crimine? Come può fare a mangiare e a vivere dunque, senza lavoro né possibilità concrete di trovarlo? 

Se si ragiona da esseri umani, guardiamo al detenuto come una persona che sì, ha sbagliato e ha commesso un reato, ma perché l’ha fatto? Dobbiamo interrogarci sul come poter evitare che succeda in futuro o che succeda ad altre persone come lui. Dobbiamo capire cos’è che produce questo: se queste rimangono solo parole ai fini di buone intenzioni che non si traducono in azioni concrete, l’istituzione va a chiudersi e il carcere rimarrà tale.

Questa è la mia visione del carcere. 

L’atteggiamento delle persone che lavorano in carcere 

Voglio mettermi nei panni dell’altro prima di pensare dal mio punto di vista alle persone che lavorano in carcere e al loro atteggiamento di pregiudizio. 

Chi lavora nel carcere deve svolgere la sua attività lavorativa e non ha dunque il tempo di relazionarsi con i detenuti. Non dico che sia giusto ma è un dato di fatto che l’agente penitenziario mantenga un atteggiamento che pregiudica il detenuto. L’agente, o il secondino – come prima venivano chiamati (non che oggi vedo molta differenza tra i due ruoli) – deve sempre presupporre che l’altro voglia altro da lui e che abbia un secondo fine. Ripeto, non è giusto ma è così: perché così è la vita in generale, secondo il mio parere. 

La gente che viene dentro dice semplicemente “Quello è un criminale” e punto. 

Le cose cambiano solo attraverso la comunicazione, per cui si crea un rapporto interpersonale e comincia ad entrare l’umanità in carcere. Questo non avviene, o comunque non avviene per tutti e non sempre. 

Povertà e Immigrazione

La realtà del carcere è variopinta, le persone che incontri dentro sono veramente di tutti i tipi. Voglio guardare in particolare alla povertà che c’è – sia dentro che fuori – e alla situazione di disagio degli immigrati perché è pieno di gente così in carcere. 

Chiediamoci quindi perché?

Il Reddito di Cittadinanza sarebbe potuto essere un vantaggio in questo senso ma hanno creato delle condizioni negative: hanno prima messo dei paletti e poi li hanno calpestati. Alla fine è uscito fuori lo sporco e tutti si lamentano al riguardo e vogliono categoricamente abolire il sussidio, quando invece può ancora essere uno strumento utile, soprattutto per tutte quelle persone che ne hanno veramente bisogno per vivere. In questo senso potremmo ragionare su quanto il RdC potrebbe essere utile anche per impedire che persone in condizioni di estremo disagio economico commettano crimini. 

Per quanto riguarda la situazione degli immigrati in carcere, dobbiamo capire bene perché ce ne sono così tanti: cioè chiederci se l’accoglienza sia reale.

Sono ancora contraddizioni, perché se una persona viene accolta, deve essere accolta nel modo giusto. Sono persone che hanno bisogno di mangiare e di vivere nelle condizioni più dignitose possibili. Nel momento in cui questo non viene predisposto per loro, dallo Stato chiaramente, non ci si può stupire più di tanto se le carceri si riempiono con individui stranieri che vivono disagi reali. 

Ci sono tante questioni per le quali secondo le diverse sfaccettature da cui uno le può guardare, ti portano a vedere che dobbiamo essere noi stessi, o meglio la società per intero e soprattutto chi governa la società – chi fa muovere questa macchina umanitaria nel miglior modo possibile – ad essere umani e a praticare l’umanità. Dobbiamo riflettere bene sull’attenzione che diamo nel confronto con l’altro: alla sua condizione di vita e sentire empaticamente cosa prova e quale sia stato il percorso che l’ha condotto a prendere scelte sbagliate.

Le Case Famiglia

Le Case Famiglia o strutture di accoglienza per detenutə sono forme di assistenzialismo che secondo me, nei fatti muoiono lì. Lo scopo che sta alla base è nobile, ma ancora mi ritrovo a dire che le buone intenzioni non sono sufficienti

Dovrebbero secondo me creare delle strutture, come le Case Famiglia, che siano però convenzionate con le fabbriche: i detenuti per vivere fuori devono poter lavorare. 

Come si risolve il problema? Ci sono le possibilità tecniche ma fino a quando non vengono colte, le strutture di questo tipo restano un punto fermo: è necessario creare una rete in cui alle piccole e medie imprese risulta più conveniente assumere un pregiudicato. Ci deve essere una presa di posizione reale e consapevole dei problemi delle persone, a prescindere dalla destra o dalla sinistra. Fino a quando i nostri rappresentanti politici non inizieranno a pensare alle persone e per le persone, invece che a se stessi e ai loro soldi, le cose non cambieranno.

Quante Case Famiglia per detenutə ci sono a Roma? Non ce ne sono tante, diciamo che saranno una decina? Quante persone possono accogliere? Tre o Quattro. 

Gli spazi in cui si muovono queste strutture sono limitati ed effettivamente è negativo. Non voglio per questo attaccare la Casa Famiglia in sé, ma guardandola dal punto di vista della sua funzione – quella del reinserimento – non vedo quale sia il senso: vedo ancora troppe contraddizioni tra le condizioni reali delle situazioni e la teoria che c’è dietro. 

Quando la comunicazione funziona

Quando sono entrato in carcere avevo 22 anni – sono stato dentro negli anni Settanta: gli anni delle rivolte per i diritti dei detenuti e non solo. La mia pena, inizialmente, doveva essere breve perché ho commesso un piccolo reato, però sono evaso e ho commesso altri crimini all’interno del carcere, accumulando una pena lunga 20 anni.

Vorrei raccontare in particolare la mia esperienza nel Super Carcere dell’Isola ***.

Riparavo le televisioni all’interno di una stanza tutta per me, l’ho fatto per molto tempo ed ero molto felice perché in questo modo svolgevo il mio lavoro. 

Con gli agenti di polizia penitenziaria e i brigadieri è iniziato ad instaurarsi un vero rapporto confidenziale, naturalmente sempre nel rispetto dei ruoli. Dopo tre anni mi portano fuori, per la prima volta, dalle mura del carcere per illustrarmi che avevano bisogno di un tecnico alla centrale elettrica. Non potevo essere più felice: questo per dire che la relazione instaurata tra agente e detenuto è fondamentale per vivere meglio la reclusione e soprattutto ai fini della rieducazione.

La relazione e il dialogo portano alla comprensione e all’esercizio di una pura umanità. 

Non è facile perché le condizioni sono ostative della stessa struttura: va costruito all’interno di essa uno spazio in cui si renda possibile il confronto. 

Finché il sistema penitenziario non cambia struttura e meccanismi di coercizione, fino a quando ci saranno più agenti che educatori all’interno del carcere e il fine sottinteso resterà quello di isolare dalla società le persone che commettono reati e non di reinserirli nella stessa, non ci saranno miglioramenti di alcun tipo. 

Le parole di E

Lavorare nel terzo settore

Quando ci chiedono che lavoro facciamo e rispondiamo che siamo operatori di una cooperativa sociale che lavora nel terzo settore non sempre i nostri interlocutori sembrano capirci.

Proviamo allora a spiegare velocemente: con la definizioneterzo settore” si intende l’insieme di enti di carattere privato che operano con finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale; operano quindi al di fuori del settore pubblico e di quello commerciale ma si affiancano e interagiscono con entrambi per l’interesse delle comunità.

Nonostante il Terzo settore esista da decenni è stato riconosciuto giuridicamente in Italia solo nel 2016 ma a nostro avviso ancora non viene riconosciuta pienamente l’importanza che ricopre non solo in termini di impegno sociale ma anche in termini economici.

Le realtà del terzo settore sono portatrici di professionalità, esperienza, impegno e memoria ma spesso (quasi sempre anzi) vengono considerate dalle istituzioni come mere esecutrici di servizi. 

Al di là del settore di intervento che caratterizza il lavoro dei vari enti del terzo settore (disabilità, dipendenze, detenzione…) parliamo di un settore dinamico composto da persone con professionalità specifiche ed esperienza che converrebbe coinvolgere anche nella programmazione dei servizi e non solo nell’esecuzione in quanto gli operatori sociali sono sempre in prima linea e conoscono e presagiscono quelle che sono le emergenze sociali in continuo mutamento.

Inoltre capita frequentemente che i servizi non siano finanziati in maniera adeguata o che lo siano per periodi troppo brevi e di fatto queste cose impediscono di lavorare con sguardo ampio e strumenti adeguati e la continua precarietà influisce inevitabilmente e negativamente sugli operatori e ancor più sull’utenza finale.

Avere più strumenti permetterebbe di raggiungere risultati dal più ampio impatto sociale.

Quello che notiamo inoltre è che spesso non vengono riconosciute le professionalità, chi lavora nel sociale viene visto come un volontario, una persona di buona volontà che mette a disposizione il suo tempo libero. La buona volontà sicuramente c’è in chiunque scelga di fare questo lavoro ma oltre a quella vengono messe in gioco competenze specifiche ed esperienze che andrebbero non solo riconosciute ma anche valorizzate.

In questi ultimi anni finalmente è stato trovato lo strumento della “coprogettazione” che prevede la progettazione e la successiva realizzazione di uno specifico intervento sociale attraverso l’integrazione tra enti pubblici e enti del terzo settore che scelgono di lavorare in modo sinergico avendo come obiettivo condiviso la risposta ad uno specifico bisogno sociale: una nuova sfida e un nuovo percorso che siamo pronti ad intraprendere!

Livia

Il cibo in giro per il mondo

Viaggio da quando avevo tre anni: sono venuto dalle Marche qui a Roma perché avevamo un forno di famiglia, ma non ho coltivato negli anni questa professione, quindi effettivamente è come se non avessi mai lavorato come panettiere, non sarei in grado oggi di fare il pane; certe cose le dimentichi, non è “come andare in bicicletta”.

 

Questo articolo nasce dalla curiosità di chiedere a R in che senso non mangia “all’italiana”, come ripete spesso. Nella sua vita piena di viaggi e nuove esperienze, quali sono le cose più strane che ha mangiato? 

 

Io ho viaggiato molto, credo di essere stato in più di 100 posti e di aver preso più di 50 aerei nel corso della mia vita, mi spostavo in aereo da un posto all’altro anche perché era più economico. Ovviamente non mi spostavo solo con l’aereo, ad esempio prendevo spesso i bus. Uno dei ricordi più divertenti è sicuramente quello dei pullman in Sud America: i pullman pieni, le persone ammassate insieme ai polli, ai maiali, gli odori forti (tremendi) – non potete immaginare quante risate!

Per rispondere alla domanda a cui ruota attorno il discorso posso dire che avendo visto così tanti posti, molto diversi tra loro, mi sono abituato a mangiare di tutto.

Cina, Giappone, Thailandia, Cuba, Brasile, Santo Domingo, Venezuela, Isla Margarita, Finlandia, Romania, Germania, Argentina, Portogallo, Russia, Francia, Irlanda, Inghilterra …

 

  1. Dove ho mangiato meglio? Sempre in Italia;
  2. Consigli sul cibo nel mondo;
  3. La scelta di girovagare.

Dove ho mangiato meglio? Sempre in Italia! 

In Asia alla fine mangi sempre le stesse cose, il riso e il sushi, punto. La stessa cosa in Sud America: pollo e riso; in India, le spezie. 

Ero curioso, come lo sono tuttora, di conoscere sempre nuovi sapori e di entrare in contatto con la diversità ma non posso dire che ho mai assaggiato qualcosa, a gusto mio, migliore del cibo italiano. Cioè l’unica cucina che mi faceva sognare era quella italiana, su questo non ci piove!

Ho provato di tutto, certo, perfino il coccodrillo, la tartaruga, la pinna di squalo, il pesce palla in Giappone: quest’ultima in particolare era una carne molto costosa, prelibata. Non assaggiavo mica tutto, con gli occhi vedevo subito le cose che non mi piacevano per cui non so dirvi quale sia stata la cosa peggiore che abbia mangiato. Ad esempio, ancora in Giappone mangiano molto la carne di balena e io non l’ho mai provata. 

Alle bancarelle in Thailandia c’erano questi spiedini con gli scorpioni, le cavallette e gli scarafaggi: non mi ci sono mai neanche avvicinato!

Insomma le cavallette, magnatele tu!

Una cosa particolare che ho mangiato in Thailandia sono gli spaghetti di serpente: c’era questo serpente simile ad un anguilla, lo tagliavano e spellavano, poi lo sfilacciavano e ci facevano gli spaghetti ma non è che erano una specialità. Li ho mangiati solo per farmi vedere “forte”. Complessivamente l’Asia, a parte il riso, non ha buon cibo. La pasta non la mangiano, ci provano a farla ma non è niente in confronto alla nostra; idem la pizza. 

La cucina giapponese è buona, soprattutto il pesce e la carne ma mangiare la cucina italiana all’estero è una follia: insomma in molti ci provano ma sarebbe meglio che non lo facessero. 

Consigli sul cibo nel mondo

Se mai doveste andare in Sud America, mangiate la frutta! La frutta di lì non la trovate da nessuna parte, soprattutto non così buona; anche i granchi di mare sono ottimi, ma purtroppo pieni di colesterolo. In Sud America è tutto allevato a terra, come qui una volta, per cui il pollo ad esempio è molto molto buono. Se si parla di carne però mi viene in mente l’Argentina che è il posto forse migliore per la qualità della carne!

Uno dei miei posti preferiti che porterò sempre nel cuore resta la Nuova Zelanda, bellissima soprattutto perchè piena di vigneti, un paesaggio naturalistico veramente da mozzare il fiato – oltre alla bontà del vino. Ho visitato l’Isola di Pasqua e le sue famosissime statue, per me che non sono mai stato interessato a certe cose, è stata una piacevole sorpresa.

Non amo cucinare quindi non saprei consigliarvi vere e proprie ricette da provare: sono sempre stato viziato dalle persone che vivevano con me e cucinavano al posto mio. Certo che se ne ho bisogno cucino ma non ho una forte passione.

La scelta di girovagare

E se di passioni parliamo, devo dire che ne ho perse molte negli anni, per questo anche mi annoio parecchio ora che sono in detenzione domiciliare e non posso uscire liberamente. Prima mi piaceva dipingere e suonare il basso, credo fossi anche abbastanza bravo ma non ho coltivato nè l’una nè l’altra perciò ho perso manualità.

Di musica in giro per il mondo ne ho sentita tanta, sempre diversa: mi è piaciuta soprattutto quella del Sud America e anche quella africana ma non tutta, dipende dalle varie zone. La musica asiatica in generale non mi piace, in particolar modo quella indiana. 

Non ho coltivato amicizie nei vari posti perché effettivamente le persone che ho conosciuto erano per la maggior parte dei delinquenti peggio di me, però spesso per cultura o per le condizioni che la vita gli ha imposto.

Non mi fermavo praticamente mai ed è certo che per fare tutto questo ho commesso degli errori, sono ingordo di vita: non è una giustificazione. Amo la mia libertà e oggi non sono proprio felice della mia situazione. Una volta fuori vorrei riprendere a viaggiare, dopo aver rimesso a posto tutta la questione dei documenti. Non penso di andare troppo lontano però, a un certo punto ti stanchi di girare sempre e io penso che alla fine ogni età ha le sue fasi

Mica come una volta … Mia madre mi diceva “Ma non ti sei stufato di girare sempre? Non ti basta una vita e ne hai fatte già 3!”.

Il posto che consiglierei di visitare a fondo è in primis l’Italia, solo dopo il Sud America (tutto), ma anche la Finlandia, l’Irlanda: insomma, il mondo è tutto bello e viaggiare serve per sviluppare al meglio lo spirito di adattamento.

 Non è mica semplice confrontarsi con la diversità.

Riflessioni sul ruolo dell’educatorɘ: il burnout, un mostro sempre in agguato?

Nell’ambito della nostra attività quotidiana di educatorɘ ci troviamo spesso a fare i conti con situazioni di stress lavorativo che possono arrivare a minare il nostro equilibrio e la nostra produttività, fino ad arrivare a casi estremi in cui si manifesta quello che ormai l’OMS definisce come vera e propria sindrome: il burnout. L’operatorɘ in burnout arriva ad una sorta di esaurimento delle proprie risorse interiori, deteriorate da una condizione di disagio diffusa dovuta alla sovraesposizione al lavoro e alla ridotta capacità di far fronte alle criticità quotidiane. Questo esaurimento si manifesta con la disaffezione verso il lavoro, con un aumentato cinismo e distacco che mina alle basi qualsiasi intervento educativo.

L’argomento è quasi tabù, affrontarlo o ammettere di averci fatto i conti nella propria vita lavorativa può essere letto come mancanza di professionalità, come inidoneità allo svolgere una professione delicata che ha al centro una relazione di aiuto. In realtà per mantenere uno standard lavorativo alto e preservare il proprio equilibrio mentale è prioritario rendersi conto delle proprie debolezze e fragilità, trovare il modo per affrontarle sia individualmente che nel gruppo di lavoro.

Nella mia esperienza lavorativa nella Cooperativa PID mi sono trovato spesso in periodi e situazioni molto stressanti, dovute al sovraccarico lavorativo e alla particolare tipologia di utenti con cui mi sono trovato a confrontarmi negli anni. Il primo rifugio e approdo sicuro nei periodi più pesanti è stato senz’altro il confronto di gruppo, il poter contare sulle colleghe di lavoro e sul lavoro in equipe, l’aver avuto sempre persone vicine che mi hanno fornito sostegno e l’opportunità di confrontarmi e di esplicitare le criticità con cui mi sono trovato di volta in volta a fare i conti. La supervisione di uno specialista poi è stata un’arma in più, che mi ha permesso di avere un approccio più riflessivo e distaccato dalle dinamiche quotidiane, una chiave di lettura esterna che ha contribuito a farmi vedere i problemi da altri punti di vista, arricchendo la mia capacità di trovare soluzioni e di non farmi sovrastare dalle criticità quotidiane, applicando metodologie che mi hanno consentito nel tempo di tenere sotto controllo il lavoro e la sua incidenza sul mio equilibrio psichico.

Soprattutto una volta preso in carico un nuovo utente, e successivamente nel percorso di accompagnamento nella strada verso il reinserimento, si instaura un rapporto molto profondo e diretto con l’utenza, ed è quindi opportuno impostare il rapporto con le persone in carico in maniera chiara, senza lasciar spazio ad ambiguità, in modo da palesare e rendere chiaro il proprio ruolo di “accompagnatore” in un percorso di reinserimento nella società civile, percorso mai scontato ed immediato, che necessita di costante monitoraggio e sostegno da parte dell’educatorɘ professionale. Instaurare un rapporto troppo amicale, diretto, senza filtri e senza paletti con l’utenza può portare al rischio di creare confusione nell’ospite, che cercherà di colmare una serie di deprivazioni cui la sua condizione di detenzione passata o presente l’ha esposto, deprivazioni soprattutto affettive e relazionali, con un rapporto troppo stretto e scorretto con l’educatore, che viene quindi investito di aspettative e richieste crescenti cui non potrà far fronte nel medio-lungo periodo, generando frustrazione nel lavoratore e disaffezione nell’utente. 

Spesso mi sono trovato a dover ribadire, con la dovuta delicatezza per non compromettere il rapporto educativo costruito con l’utente, che il mio ruolo non è assimilabile a quello di un amico, di un confidente, ma appunto è quello di una persona che si pone degli obiettivi, professionali, in comune con l’utente, ovvero, in primis, il raggiungimento di una condizione di autonomia che porti la persona a riprendere le redini della propria vita. 

Nel rapporto che si instaura con le persone prese in carico a volte è necessario mettere degli argini, per evitare di dedicarsi h24 al lavoro, e di dare la falsa illusione all’utente di “esserci sempre”. Il corretto rapporto con l’utente, secondo me, si raggiunge quando entrambi gli attori del rapporto educativo hanno chiaro il reciproco ruolo, e in quell’ambito agiscono per raggiungere quelli che sono gli obiettivi comuni.

Penso che sia importante anche affrontare in maniera riflessiva il proprio lavoro, avere degli spazi e dei luoghi in cui si parli non dell’oggetto del lavoro, ma del lavoro in sé, mettendo al centro gli operatorɘ e dando il giusto spazio alle differenti individualità che compongono un’equipe che si occupa di interventi socio-assistenziali. 

Anche l’avere uno spazio per esprimere le proprie idee, riflessioni e valutazioni, come questo che sto utilizzando in questo momento nell’ambito del blog “Passo dopo passo”, è senza dubbio un elemento positivo che mi aiuta in tal senso.

Francesco

Dossier statistico immigrazione 2022 – i migranti nelle carceri italiane

Il 27 ottobre scorso ho avuto il piacere di ascoltare la presentazione del Dossier Statistico sull’immigrazione del 2022: il frutto del lavoro meticoloso svolto da IDOS in collaborazione con la rivista Confronti e l’Istituto di Studi Politici Pio V volto a fotografare la situazione dei migranti in Italia.  

Ad introdurre la discussione circa la trentaduesima edizione del Dossier, un pensiero rivolto a tutte le vittime del mare e delle frontiere, a tutte le sofferenze e il dolore di chi passa il confine: “A tutti i migranti reali che però sono assenti…”

In questo resoconto, vorremmo riportare i dati del Dossier per quanto riguarda la popolazione migrante detenuta dell’anno 2022. Numeri che rispecchiano una realtà diversa da quella narrata dal luogo comune per cui io non sono razzista ma questi vengono qua e ce stuprano ‘e figlie, ‘e mogli!”. Percentuali che fanno luce su l’evidente disagio socio-economico che vivono le persone che non-accogliamo tutti i giorni. 

Criminalità in Italia – il reale contributo delle persone straniere

Al fine di analizzare il “peso” delle persone straniere nel più ampio scenario criminale italiano, Gianfranco Valenti e Luca di Sciullo, ricordano l’assunzione preliminare di una serie di criteri oggettivi «senza i quali si rischia di fornire una interpretazione unilaterale, ingenua e scorretta» di una realtà che risulta essere più interconnessa di quanto non sembri.

Nel senso, è giusto porre un confine netto tra la criminalità straniera e quella autoctona? 

Lo studio qui presentato cerca di contestualizzare il fenomeno all’interno dell’ambiente sociale, culturale ed economico in cui si manifesta.

Quattro sono le riflessioni che aprono il discorso intorno alla questione contro cui invece si scontra l’opinione comune di molti italiani, condita con una «salsa razzista-lombrosiana – scrivono Sciullo e Valenti – per cui i caratteri somatici comuni a una “etnia” rivelerebbero tratti caratteriali propri di un’intera popolazione».  

  1. Non sempre il numero degli arresti o delle denunce sono corrispondenti alle persone effettivamente arrestate o denunciate, perché è possibile che una stessa persona sia arrestata o denunciata più volte nell’arco del tempo. 
  2. Le persone immigrate in Italia hanno un maggior numero di leggi a cui riferirsi e dunque un maggior numero di reati possibili rispetto agli italiani. Si parla in questo caso di tutte le leggi sull’immigrazione che regolano ingressi, permanenze e regolarità.
  3. Il prevalere dei reati commessi dai giovani, deve essere considerato alla luce di un confronto squilibrato in quanto gli individui giovani sono una forte rappresentanza della popolazione straniera in Italia, a differenza degli italiani più giovani. Dunque occorrerebbe proporre una comparazione della frequenza dei reati per fasce di età.
  4. Infine, non si può evitare di considerare «quanto il degrado del contesto urbano e sociale di vita, la condizione di emarginazione, l’assenza di misure e strutture di sostegno per un’effettiva partecipazione alla vita collettiva siano fattori che aumentano il rischio di scivolamento nell’illegalità…» e non solo per gli individui immigrati.

 

Dai dati messi a disposizione nel Dossier, tratti dall’archivio del Sistema Informativo Interforze si è assistito a un calo determinante delle denunce e degli arresti delle persone immigrate soprattutto nel periodo pandemico, quando in conseguenza alle restrizioni dovute al lockdown, è diminuita di fatto la possibilità di compiere reati “all’aperto”

Sebbene i numeri ad essi relativi siano saliti nuovamente in seguito alla graduale riapertura verso la mobilità sociale, questi sono comunque inferiori rispetto al periodo precedente la pandemia

Questione però secondo me fondamentale, riguarda l’incidenza percentuale sulla criminalità italiana dei reati accertati degli individui stranieri: per sequestri di persona (36,2%), violenze sessuali (41,0%) e omicidi preterintenzionali (42,6%) che in termini assoluti andrebbero a costituire rispettivamente lo 0,2%, lo 0,8% e meno dello 0,1% del totale

Flussi migranti in carcere 

Come abbiamo visto e possiamo dedurre di conseguenza, ad un calo di denunce e arresti delle persone immigrate in Italia, corrisponde il calare del numero dei detenuti in carcere: rispetto al 2008 – anno in cui si registra un numero di presenze migranti ristrette più alto rispetto agli ultimi 20 anni – quando la popolazione detenuta straniera costituiva il 37,1 % del totale; a giugno del 2022 si è scesi al 31,3 %. (Fonte: Associazione Antigone

Come illustrato da Carolina Antonucci, Francesco Biondi e Carla Cangeri, nonostante diminuisca il numero dei detenuti stranieri all’interno delle carceri italiane, è in aumento il numero dei suicidi. «Al 12 agosto – 2022 – erano morte suicide negli istituti penitenziari italiani 51 persone (già salite a 59 al 2 settembre), di cui 27 (più della metà!) erano detenuti stranieri». Come tristemente noto, il numero dei suicidi in carcere non è in diminuzione.

Accesso alle misure alternative 

Nell’articolo di lunedì abbiamo cercato di spiegare in chiave narrativa cosa siano le misure alternative alla detenzione, nel Dossier Statistico sull’immigrazione del 2022 è presente la quota dei detenuti stranieri in semilibertà (16,6% rispetto al totale dei detenuti in carcere). Il numero dei detenuti stranieri in semilibertà è in aumento, notano Antonucci, Biondi e Cangeri ma è comunque basso, sono 174 persone in tutto. 

Se la concessione della semilibertà viene valutata in base al percorso rieducativo e alle razionali possibilità di reinserimento sociale del detenuto e della detenuta, spiegano gli autori: «Evidentemente per gli stranieri sussistono condizioni soggettive – tra le quali anche la debolezza delle reti sociali di riferimento – che impediscono maggiormente l’avvio di questo percorso, con tutte le conseguenze negativo a livello individuale (sul piano pratico e psicologico) e collettivo (in termini di recupero dalla marginalità a una attiva e piena partecipazione al contesto sociale».

 

Quanto riportato è solo una parte dell’importante ricerca Idos, per conoscere nel dettaglio la situazione dei migranti in Italia nell’anno appena trascorso, vi consigliamo di acquistare il Dossier Statistico sull’immigrazione del 2022 qui.

Alessia

Tirocinio all’interno di una struttura di accoglienza per detenuti: in che senso?

È sempre divertente dire alle persone che ho svolto il tirocinio con la Cooperativa PID dentro una struttura di accoglienza per persone detenute e/o ex detenute. Le facce dei miei interlocutori si colorano spesso di domande che non riescono a essere formulate per paura di risultare insensibili o ignoranti: più o meno la stessa cosa di quando dico che studio antropologia.

Non è pericoloso? Ma quindi significa che stanno agli arresti? Vabbè ma mica hanno fatto cose gravi altrimenti non te li facevano vede’, no? Scusa eh, questi stanno dentro ‘na casa a fa’ che? E tu che fai, ma perchè?  

Il mio perché nasce da molto lontano, ero appena una teenager – potremmo dire – quando mia sorella che era alle scuole superiori torna a casa con il saggio di Beccaria “Dei delitti e delle pene” e inizia a spiegarmi quanto fosse ingiusta la pena di morte.

Negli anni, il mio interesse per le marginalità sociali, le ragioni che ne sono la base, le dinamiche culturali che le alimentano, le simbologie attraverso cui esse sono rappresentate nella quotidianità di tutti è andato costruendosi attorno alla mia persona: io ho fatto spazio a quella voce che ha iniziato a spingere sempre più forte una volta avvenuto il reale contatto con le persone prese in carico dalla Cooperativa.

Mi sembra quindi essenziale ripercorrere insieme i passi che ci hanno portato a scegliere di realizzare questo blog, introducendo con questo articolo un’esperienza totalmente soggettiva dell’incontro tra una studentessa, due educatori e sei persone che Passo dopo Passo si apprestano ad abbracciare una società nuova, diversa da come l’avevano lasciata. 

Gradualmente 

Quando per la prima volta ho aperto il portone di casa, la luce del sole mi ha accolto. Non è una costruzione meramente letteraria, perché effettivamente succede ogni volta: tutto il corridoio che attraversa orizzontalmente lo spazio che ti si presenta davanti si irradia. 

E all’inizio non senti neanche un rumore. 

Sono da subito entrata in una dimensione altra, l’ho sentita sulla pelle che lasciavo fuori da quella porta, abbandonando la persona che pensavo di dover essere, mettendo tutto il mio centro nelle mani di chi sapevo avrei presto incontrato.  

Il primo giorno non ho conosciuto nessuno degli ospiti: sono andata subito in ufficio da Francesco, l’educatore in turno con il quale ho iniziato il percorso dentro la struttura.

Un po’ alla volta, in base agli impegni di tutti e le disponibilità, ci siamo pian piano lasciati conoscere, più di quanto avrei mai potuto pensare. 

James Clifford ne “Scrivere le culture. Poetiche e politiche dell’etnografia.” presenta il lavoro di Richard Price del 1983 “First-Time: The Historical Vision of an Afro-American People.” per illustrare un parallelismo fondamentale tra la modalità di trasmissione del sapere orale attraverso i racconti saramaka e la conoscenza parziale dell’etnografo del campo. Il paradosso individuato da Price durante la sua ricerca sta nel fatto che ⟪qualsiasi racconto saramaka […] rivelerà solo una piccola parte di quello che il narratore sa dell’evento che narra.⟫  

Il motivo che muove questo principio del Primo-Tempo si ritrova in una più ampia concezione della conoscenza del tale evento o sapere, in quanto essa deve essere graduale, deve cioè crescere un po’ alla volta e dunque ⟪l’oratore rivela di proposito ai suoi uditori solo un po’ di più di quello che ritiene già sappiano.⟫

Questo tipo di gradualità nella conoscenza del sapere saramaka accompagna l’etnografo nella consapevolezza dell’impossibilità, sia sua che dei singoli individui appartenenti alla data cultura, di ottenere un corpus “completo” del sapere del Primo-Tempo.

Ed è questa consapevolezza che accompagna ogni giorno il mio stesso rapporto con i protagonisti delle storie che andremo a raccontare. 

A guidare inizialmente la mia conoscenza degli ospiti sono gli educatori, Francesco e Livia che come il narratore saramaka fanno da filtro permettendomi di addentrarmi nelle trame della struttura di accoglienza: intenzionalmente tracciando una scala immaginaria di conoscenza per non farmi travolgere dalla realtà per intero ma conducendomi verso una graduale consapevolezza delle parti che la componevano, delle loro storie e delle loro scelte che su un piano strettamente morale non rispecchiano il tipo comune di persona con cui si è soliti entrare in contatto. 

Gradualmente le persone incontrate in questo percorso hanno scelto di raccontarsi e proprio per questo ci è sembrato importante strutturare i tempi di condivisione con la stessa ottica del Primo-Tempo: narrazioni parziali del sapere completo, un passo dopo l’altro, un articolo per volta.

Una struttura di accoglienza socio-assistenziale in favore di persone condannate e/o ex detenute

Inoltre, il concetto della gradualità ai fini della reintegrazione nella società civile è stato uno dei primi che la Cooperativa mi ha insegnato, anche in relazione al lavoro stesso degli educatori e più in generale dei percorsi degli utenti del PID, in quanto volti entrambi al graduale reinserimento sociale dei secondi.

Voglio spiegarvi il senso di questo concetto come l’ha fatto con me Francesco: avete presente quando da ragazzini ad un certo punto si è deciso di darvi le chiavi di casa? Ecco questo perché, al di là della necessità del possedere quelle chiavi, prima è stata testata la vostra puntualità al rientro e la stessa costanza nell’essere puntuali e diciamo così, nel dimostrarvi affidabili avete ottenuto la responsabilità di custodire le chiavi di casa. 

Cosa succede in una casa famiglia per detenuti o ex detenuti?

Le prestazioni offerte all’interno delle strutture gestite dalla Cooperativa PID sono volte alla reintegrazione nella società civile della persona ristretta

Lo scopo dell’accoglienza è quello di aiutare le persone con disagio a superare problematiche ed emergenze; sostenere e costruire insieme a loro il percorso volto al recupero di autonomia, opportunità, socializzazione e competenze. Per questo, viene impostata attraverso una modalità olistica che prevede da una parte semplicità familiare, dall’altra la consapevolezza professionale degli operatori nel confronto quotidiano delle problematiche degli ospiti. 

Il rapporto educatore-ospite si legge nelle trame di un sostegno concreto e doppio, nel senso che è costantemente caratterizzato dalla piena disponibilità dei primi e del loro sempre alto grado di attenzione alla qualità degli interventi.

Alessia Massaroni

Le misure alternative raccontate da quattro vite differenti e molto simili 

«Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato».

Dall’art. 27 della Costituzione italiana

 

Nel 1975 in Italia sono state introdotte le misure alternative alla detenzione con l’obiettivo di introdurre nuove soluzioni per il raggiungimento del fine ultimo della pena previsto dalla nostra Costituzione, la rieducazione del condannato. Da definizione, le misure alternative alla detenzione o di comunità “consistono in modalità di esecuzione delle condanne diverse dalla tradizionale esecuzione della pena negli istituti penitenziari.” 

In questo articolo vogliamo ripercorrere brevemente alcune storie delle persone incontrate durante il mio percorso all’interno della Cooperativa PID, per tentare di spiegare le misure alternative da un punto di vista emico e iniziando a questo punto ad introdurre i protagonisti delle nostre narrazioni. 

Dalla strada alla casa famiglia – la detenzione domiciliare di V

I piedi del nostro V non toccano il pavimento del carcere neanche per un secondo. 

In seguito alla condanna riesce a ottenere la detenzione domiciliare e sconta la sua pena di circa due anni interamente all’interno di una struttura di accoglienza gestita da PID. Il carcere è brutto dice, è fortunato ad essere lì, nonostante passi le giornate a non fare niente e spesso non si trovi con i suoi “coinquilini”. Può uscire due ore a metà mattinata, con tutto il caldo dell’estate romana si concede delle lunghe passeggiate. Il suo problema resta il lavoro, è il suo obiettivo principale, perché chiaramente una volta uscito dalla struttura come potrà vivere? Dunque con gli educatori cerca di programmare un suo progetto di vita: dato che è vicino alla pensione, si decide che potrà rimanere per qualche mese all’interno della casa famiglia anche dopo aver ottenuto la libertà in modo da avere più tempo per trovare un lavoro, di qualsiasi tipo – afferma V – così che presto potrà badare a se stesso interamente e non restare più legato alle reti socio-assistenziali all’interno delle quali si muove già da molto tempo.

Dal carcere alla casa famiglia – la detenzione domiciliare di B

Dopo quasi venti anni di carcere, B accede alla detenzione domiciliare e sconta gli ultimi anni della sua pena all’interno di una struttura di accoglienza per persone detenute.

B percepisce la pensione ed è determinato a ricongiungersi con i suoi figli e sua moglie, la sua permanenza in casa famiglia è stata essenziale anche per questo motivo: infatti, ha avuto la possibilità di incontrare suo figlio in un ambiente diverso da quello del carcere e soprattutto ha potuto finalmente iniziare a pensare di ricostruire una vita fuori con sua moglie e sua figlia. B anche può uscire dalla struttura qualche ora la mattina e mi ha raccontato in più occasioni di aver trovato piacevoli compagnie nel quartiere con cui passare quei momenti di libertà. Uno dei suoi sogni più grandi è quello di comprare una barca a basso costo per poterla sistemare lui stesso e viaggiare con la sua famiglia nel mondo. 

Ora B è libero e sta vivendo la sua vita, spero, come lui stesso l’ha desiderata per molto.

Dal carcere alla semilibertà al carcere di nuovo

L ha passato una gran parte della sua vita in carcere, negli ultimi anni ha ottenuto la semilibertà e ha iniziato a lavorare fuori dalle mura dell’istituto per rientrarvi la sera. Con l’emergenza sanitaria Covid-19 ha avuto la possibilità di usufruire della licenza premio straordinaria che gli ha permesso di stare fuori sia giorno che notte anche se con delle misure di controllo; questa occasione per molti come lui ha rappresentato il concretarsi di un principio di vita “normale”. 

Per circa due anni è rimasto in una struttura di accoglienza gestita da PID, ma nel momento in cui – con la chiusura dell’anno 2022 – non è stata rinnovata la  misura contenuta nel decreto Cura Italia è tornato nella sua cella. Come L, sono in 700 i detenuti che sono tornati in carcere dopo aver vissuto fuori negli anni della pandemia. 

La storia di L è rappresentativa di una situazione contraddittoria e sicuramente controproducente, nel senso che porta a riflettere sul lavoro svolto da queste persone in questi anni, sulle sfide che hanno affrontato per costruirsi una realtà diversa da quella che hanno vissuto non solo in carcere, ma anche da quella della loro vita precedente alla detenzione stessa. Sfide vinte e passi avanti che inevitabilmente ora sembrano quasi vani, a chi è tornato a dormire nel buio della propria cella proprio quando sembrava riuscire a vedere la fine della sua condizione ristretta.

L continua a frequentare gli ambienti del PID nelle ore di reperibilità previste dal suo programma di trattamento, fortunatamente ha il continuo appoggio della sua famiglia e spera presto di ottenere l’affidamento in prova ai servizi sociali

Dal carcere alla semilibertà all’affidamento in prova

Ricordo quando A mi ha raccontato che dopo anni di reclusione gli è stata data l’opportunità di uscire per la prima volta in permesso premio, mi ha detto che da allora il suo percorso in carcere è cambiato molto. 

La fiducia che gli ha mostrato quel Magistrato è stato un dono prezioso, gli ha permesso di scegliere di voler vivere una vita diversa nonostante gli anni di detenzione che aveva ancora davanti. Mi ha detto che non dimenticherà mai quella persona e che per rispetto verso di lui e verso la sua fiducia ha iniziato a pensare di poter uscire un giorno e costruirsi una vita “normale”. 

Infatti A ha ottenuto la semilibertà e ha iniziato a lavorare fuori dal carcere; con l’emergenza sanitaria è riuscito ad ottenere la licenza straordinaria durante la quale ha alloggiato in una struttura di accoglienza gestita da PID. E ora è in affidamento in prova ai servizi sociali, tra meno di un anno sarà libero. 

A è riuscito ad andare al compleanno del nipote, a passare il Natale in famiglia, a riacquistare gli spazi affettivi che a lungo sono stati lontani. 

 

Le misure alternative alla detenzione possono metaforicamente rappresentare un ponte tra il dentro e il fuori. Gli individui che riescono ad accedere all’alternativa del carcere hanno modo di recuperare più in fretta e con più efficacia il rapporto con un ambiente saturo di stimoli, re-imparare a dargli significato e concretamente iniziare un nuovo percorso di vita.

Per conoscere nel dettaglio le misure alternative vi consigliamo di leggere direttamente il testo della Legge 26 luglio 1975 n. 354

 

Alessia Massaroni
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