Cooperativa sociale che offre servizi di ascolto, orientamento, formazione, accoglienza rivolti a detenuti/e, ex detenuti/e e persone che vivono in condizione di disagio sociale.

Categoria: Informazione

L’uomo delinquente di Lombroso

ALESSIA
Da dove nasce l’uomo delinquente e le teorie sulla devianza? Qui osserveremo brevemente come alcuni tratti fisici per Cesare Lombroso, nella seconda metà dell’Ottocento, possano essere spiegazione dei comportamenti violenti di alcuni.

La componente positivistica dell’Ottocento, sotto l’influsso delle teorie darwiniane sull’Evoluzione delle specie, ha prodotto una letteratura che guarda all’uomo nella sua dimensione naturalistica e biologica, all’interno della quale si sono cercate le motivazioni e ragioni profonde delle differenze sociali ed economiche, culturali e comportamentali, osservabili tra gli abitanti del Pianeta. 

Così, insieme all’eugenetica e al darwinismo sociale, si sviluppa il pensiero per cui alcuni tipi di lineamenti o geni potevano condurre un dato individuo alla devianza. Devianza è un termine sintomo dell’incasellamento dei gruppi di persone che vivono all’interno di una società in categorie, per cui il deviato è la falla nel sistema; quella persona che devia dalla norma: il folle, il delinquente o entrambi. Oggi un tale retaggio culturale ci può far credere di riconoscere un delinquente anche solo dai vestiti che indossa. 

Se fossimo Cesare Lombroso, o suoi lettori e sostenitori, dovremmo riuscire a distinguere “l’uomo delinquente nato” dal resto,  attraverso l’osservazione dei medesimi caratteri che ritroviamo negli “uomini selvaggi” e nelle “razze colorate”. 

 

«Tali sarebbero: scarsezza dei peli, poca capacità cranica, fronte sfuggente, seni frontali molto sviluppati; semplicità delle suture, spessore maggiore delle ossa craniche; sviluppo enorme delle mandibole e degli zigomi, prognatismo; obliquità delle orbite, pelle più scura, orecchie voluminose; anomalie dell’orecchio, aumento di volume delle ossa facciali; ottusità tattile e dolorifica; buona acuità visiva, ottusità degli affetti, precocità ai piaceri venerei e al vino; facile superstizione, suscettibilità esagerata del proprio io, e perfino il concetto relativo della divinità e della morale.» (1876. Lombroso)

 

Il dettaglio anatomico particolare, diverso e primitivo rispecchia in qualche modo una propensione al vizio, un’indole suscettibile, credulona, senza ratio né morale. 

La ricerca delle correlazioni tra le caratteristiche fisiche, biologiche, naturali del deviante e il suo comportamento fuori-norma diventa quasi la ragione di vita del Lombroso.

La teoria dominante nella seconda metà dell’Ottocento presupponeva vi fosse, in alcuni soggetti, una recessione evolutiva: con «il termine Atavismo biologico si intende il ritorno alle caratteristiche degli antenati» . L’uomo torna indietro nella scala evolutiva e questo si traduce nel suo essere “animalesco e criminale”. Per gli studiosi del tempo, l’esempio più calzante e allo stesso modo dimostrabile empiricamente, era l’uomo selvaggio delle “razze colorate”. Com’è noto, insieme alle caratteristiche fisiche del pazzo o del criminale, si sono studiate per molto anche quelle degli abitanti delle colonie europee al fine di formulare delle ragioni valide alla bassezza evolutiva di questi ultimi, riscontrabile nei loro usi e costumi “primitivi”. 

Il deviante, che sia esso un folle o un delinquente, ha subito un arresto nel percorso evolutivo. Lombroso tenterà di dimostrare per tutta la sua carriera che il reato in sé non prescinde dalla volontà, bensì dalla peculiare caratteristica del corpo, una falla. 

Come se il corpo, nella sua fisicità, si facesse manifestazione della devianza

 

Dopo aver esaminato oltre duecento crani, Lombroso sostenne che vi fossero due tipologie di individui sottosviluppati: l’uomo alienato, il folle e l’uomo delinquente, il criminale. Quest’ultimo il più patologico del primo. 

Alle critiche rispose smussando gli angoli, complessificando il concetto ontologico dell’uomo delinquente e osservando i fattori sociali, culturali ed economici che determinavano il fenomeno criminale.

L’applicazione di un ragionamento che apparteneva alla dottrina medico-naturalistica a quella antropologica, racchiude quello che è stata la formazione di Cesare Lombroso, in qualche modo riprodotta fedelmente nell’opera: “L’uomo delinquente in rapporto all’antropologia, alla medicina legale ed alle discipline carcerarie” edita nel 1876. 

Così, all’uomo delinquente nato si affiancò  il “delinquente d’abitudine” che a differenza del primo doveva le proprie aspirazioni criminali all’ambiente in cui era cresciuto, alle condizioni culturali ed economiche di degrado. Il percorso del delinquente d’abitudine verso le più vicine somiglianze di quello nato si compiva crimine dopo crimine, giungendo ad uno stadio di depravazione sempre maggiore. Lombroso suddivide i criminali in vere e proprie categorie: delinquenti nati, pazzi morali, epilettici, criminali pazzi, rei per passione, abituali e d’occasione

 

Il pensiero che tutti i criminali possano essere folli, sottosviluppati o degenerati non ha retto per molto, nonostante la forte influenza lombrosiana sullo studio della devianza sia stato fondamentale per la nascita stessa della disciplina criminologica, l’atavismo biologico cade in disgrazia, insieme alle categorie di criminali appena sfiorate.

La sociologia e la criminologia contemporanea riconoscono il carattere estremamente flessibile del concetto di devianza. Come ha recentemente discusso Dal Lago ne “La produzione della devianza. Teoria sociale e meccanismi di controllo.” il termine esprime la contrapposizione tra chi si integra nella società e reagisce positivamente alle regole scritte e non scritte e chi invece queste regole le trasgredisce. 

 

«Ma i confini tra integrazione e devianza non sono quasi mai stabiliti, così che le aree dei comportamenti devianti vengono volta per volta allargate ai confini dell’intera società (come avviene nelle teoria dei conflitti, ad esempio), oppure ristrette a disfunzioni locali o individuali (come nelle teorie funzionaliste)»

Madri fuori – i diritti delle donne, dei bambini e delle bambine

Nella giornata di ieri si è conclusa la campagna di sensibilizzazione per la dignità e i diritti delle madri condannate, dei loro figli e delle loro figlie. Nonostante questo, non possiamo dire che sia conclusa l’ingiustizia di far crescere un bambino in carcere, né tantomeno che sia scomparsa la possibilità che a queste donne venga tolta la responsabilità genitoriale.

 

Dell’articolo 27 della Costituzione italiana, dobbiamo necessariamente evidenziare e ribadire che “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità”. Sappiamo che per arginare la possibilità che dei bambini e delle bambine crescano in carcere, esistono in Italia delle misure alternative che permettono alle persone condannate di vivere all’interno di strutture di accoglienza o nelle proprie case in detenzione domiciliare.

 

Il fine è duplice, da una parte mantenere integro il rapporto tra la madre e il proprio figlio o figlia, dunque garantire il diritto di essere madre alla persona condannata; dall’altra rispettare il diritto del bambino o della bambina di crescere con la propria madre e in un luogo che non sia quello insalubre del carcere.

 

Come leggiamo nel XIII Rapporto di Antigone:

La legge introduceva però anche delle condizioni di ammissione alle misure alternative, al fine di evitare – questa la preoccupazione nel dibattito che ha accompagnato l’iter di approvazione della legge – un utilizzo strategico della maternità in carcere: poteva essere ammessa ai benefici chi, in definitiva, non presentasse rischio di recidiva e dimostrasse la concreta possibilità di ripristinare la convivenza con i figli. Condizioni che hanno finito inevitabilmente per tagliar fuori le donne appartenenti alle frange più marginali della popolazione, magari detenute tossicodipendenti, incarcerate per reati relativi alla legge sulle droghe (di fatto, gran parte delle detenute). Altre grandi escluse erano le donne straniere che spesso prive di fissa dimora non potevano accedere agli arresti domiciliari.

Recentemente, durante un dibattito parlamentare volto al definitivo superamento della condizione del crescere “dietro le sbarre”, si è avanzata l’idea di togliere la patria potestà a tutte le donne condannate con sentenza definitiva.

In risposta alla politica violenta e aggressiva che si scaglia, nuovamente, nei confronti delle donne e dei loro diritti, si è mobilitata la campagna Madri fuori: dallo stigma del carcere, con i loro bambini e bambine

L’essere madre in carcere è da subito associato all’essere una “cattiva madre”: se hai commesso un reato significa che non sei in grado di crescere “bene” un bambino o una bambina. Francesca Bonassi di Antigone ha raccontato le esperienze di Sportello nelle carceri femminili, evidenziando come molte volte, alla base del reato di una donna vi è la necessità di “sfamare” i propri figli, di arrivare a fine mese e dare loro una possibilità di vita dignitosa. Le realtà di disagio socio-economico esistenti in Italia, certo, non possono essere una giustificazione al reato, ma devono essere considerate prima di assoggettare una persona a un giudizio morale negativo e ancor più di fronte alla necessaria separazione tra la persona e il proprio reato. 

Oltre a questo e al fatto che il carcere sembra essere ancora luogo pensato al maschile, come se alle donne non fosse consentito di sbagliare, “se hai dei figli, non sei nient’altro che madre; se sei madre e sei detenuta, devi necessariamente soffrire per avere sbagliato nei confronti dei tuoi figli; se sei madre, la maternità è il ricatto al quale sottoporti per rieducarti.”

Gli assorbenti in carcere – Donne ristrette

Perchè parliamo di assorbenti in carcere? In che senso il carcere è pensato al maschile? 

Per prima cosa, dobbiamo necessariamente ricordare che la popolazione detenuta femminile in Italia rappresenta una piccola parte del totale (appena il 4%). Di conseguenza, gli spazi, i beni, le attività e le misure all’interno del penitenziario sono principalmente pensate per l’utenza maschile, la grande maggioranza.

 

Nel 2013 con Edizioni dell’asino abbiamo pubblicato un manualetto “leggero e disinvolto” che illustra le tecniche di riappropriazione degli oggetti della quotidianità femminile in carcere, dove la personalità dell’individuo viene lentamente compressa. 

In “Ricci, limoni e caffetterie. Piccoli stratagemmi per una vita ristretta” si leggono le ricette delle donne recluse che reinventano i prodotti di cura e di benessere per i propri corpi, che scelgono di imprimere la propria soggettività nel luogo in cui il tempo è dilatato, scandito dal movimento dell’istituzione, assoggettato a norme omologanti. 

 

A pagina 36 “Contro i dolori mestruali” le donne preparano un intruglio di acqua, cannella e noce moscata. “La noce moscata scioglie i grumi di sangue!”.

 

Oltre a rappresentare ancora un tabù, il ciclo mestruale è per molte persone percepito come un “privilegio”. A livello globale, sono ben 2,3 miliardi le persone che non hanno accesso a servizi igienico-sanitari di base, in molte aree povere solo il 27% della popolazione ha modo di lavarsi le mani con acqua e sapone nella propria abitazione e in diversi paesi non c’è disponibilità o facilità di accesso agli assorbenti. Per chi vive in queste condizioni l’igiene mestruale rappresenta un problema che comporta rischi per la salute e che può causare esclusione sociale, assenza da scuola e dal posto di lavoro, fino allo stigma.

Con Lucha y Siesta e Aidos, in risposta al successo dell’iniziativa dello scorso anno, abbiamo nuovamente proposto la campagna di raccolta assorbenti per le persone detenute in carcere. La campagna, iniziata nella giornata di ieri, giovedì 4 maggio, si concluderà domenica 28 maggio: Giornata mondiale dell’igiene mestruale. Gli assorbenti raccolti verranno consegnati in carcere e nelle strutture di accoglienza per persone detenute.

Gli assorbenti continuano ad essere una delle voci più pesanti nel pay gap tra uomini e donne, non sono considerati beni di prima necessità. Questo accade anche in carcere, istituzione totale pensata al maschile e mai pienamente adeguata nonostante regolamentazioni interne tese a “favorire l’espressione di quegli aspetti della personalità fondati sulla differenza di genere”

 

Gli assorbenti, così come altri prodotti consentiti, possono essere acquistati attraverso il cosiddetto “sopravvitto”, una sorta di negozio interno all’Istituto Penitenziario. Al sopravvitto però possono accedere solo coloro che hanno dei soldi sul conto corrente interno, chi non ha possibilità economica e di conseguenza non può acquistare, deve accontentarsi degli assorbenti forniti dall’Amministrazione Penitenziaria che, se non trascura questo aspetto, non garantisce però la scelta di un modello, di una marca o le quantità necessarie di assorbenti in base alle singole esigenze. 

Non avere accesso o avere limitate possibilità di scelta ai prodotti per l’igiene mestruale vuol dire violare il diritto umano alla dignità. Serve abbattere gli stereotipi e fare in modo che si abbia una gestione autonoma e sana del ciclo mestruale. 

 

Vuoi donare anche tu gli assorbenti?

Si possono donare assorbenti classici di qualsiasi marca e modello e gli slip assorbenti, mentre i tamponi in carcere non possono entrare

Da giovedì 4 maggio 2023 gli assorbenti sono raccolti presso la Casa delle Donne Lucha Y Siesta, in Via Lucio Sestio 10, che rimarrà aperta per la raccolta tutti i lunedì e giovedì dalle 9:30 alle 13:00 e durante gli eventi pomeridiani e serali.

Uso o abuso? Gli psicofarmaci in carcere

L’utilizzo quasi regolamentare degli psicofarmaci in carcere è una verità di cui l’opinione pubblica è ormai consapevole, un tema affrontato dai media più volte dal quale emerge una realtà che ci lascia perplessi nella sua apparente immutabilità.

«C’è chi il carcere se lo fa dormendo»

Una frase che ho sentito dire spesso, sia dagli educatori che dalle stesse persone detenute, autori del nostro blog. 

«Una terapia con l’arte, invece che con le pillole!» 

Ha affermato L. durante la presentazione del corso di Arte Terapia che stiamo svolgendo all’interno della Terza Casa Circondariale di Rebibbia

«Questo servirebbe pure a noi, invece che gli pissicofarmarci. Io non li ho mai presi, ma veramente c’è gente che ci campa così dentro» 

Ha sostenuto S., commentando un incontro di antropologia medica, in cui si parlava dell’importanza anche di una carezza in un percorso di cura

 

Queste parole ci esprimono nel modo più semplice e immediato una consapevolezza generalizzata della normalizzazione dello psicofarmaco come strumento per affrontare il dolore del carcere.

Un dolore silenzioso che quasi non si vede e che si preferisce far tacere, ingoiando un antidoto che anestetizza e che insieme alla dipendenza assopisce e rende inermi: deboli di comunicare, scegliere e persino pensare.

Approfittando della recente lettura de “Il carcere invisibile. Etnografia dei saperi medici e psichiatrici nell’arcipelago carcerario.” di Luca Sterchele, ho deciso di dedicare al tema una breve e umile riflessione, allo scopo di portare alla luce una realtà generatrice di disagio che oltre lo sdegno immediato dei molti, ci lascia ancora una volta una sensazione di impotenza.

Quello che viene evidenziato dal sociologo è prima di tutto una diffusa sensazione “di allarme” per cui, in seguito al superamento degli OPG (Ospedali Psichiatrici Giudiziari) con la legge 81 del 2014 e alla conseguente istituzione delle strutture REMS (Residenze per l’Esecuzione della Misura di Sicurezza), sembra esserci nelle carceri italiane un aumento dei detenuti “psichiatrici”. Come se il carcere fosse diventato il nuovo manicomio

Per alcuni, lo stato di allarme risulta essere confermato dall’elevato numero degli psicofarmaci consumati in carcere ma come sottolineato all’interno del testo succitato, l’utilizzo dello psicofarmaco sembrerebbe rientrare anche tra le tecniche di governo del personale penitenziario al fine di tenere la popolazione detenuta in una condizione di calma e tranquillità, per non avere situazioni spiacevoli come reazioni violente o confusionarie. 

La ricerca di Sterchele suggerisce, attraverso la narrazione frutto dell’osservazione partecipante, l’esistenza di una sorta di regolazione interna della prescrizione dei farmaci a fronte della massiccia richiesta da parte dei detenuti. Alla carenza di personale, di spazi e misure per le “persone psichiatriche” recluse all’interno delle varie Case Circondariali italiane, si aggiunge il malessere fisico e psicologico degli stessi detenuti, i quali richiedono appunto qualcosa che “indebolisca” la sofferenza del vissuto ristretto (concernente la sfera relazionale, le vicende giudiziarie che li riguardano o semplicemente gli eventi della vita quotidiana) e di conseguenza le «capacità del soggetto sofferente di far fronte in maniera efficace a queste stesse contingenze».

Sembra che uno dei principali motivi per cui vengono richiesti gli psicofarmaci sia l’insonnia, infatti negli scaffali della farmacia di una delle strutture penitenziarie osservate dal sociologo nel 2018 vi sono principalmente ansiolitici con effetti calmanti: Valium, Xanax, Lormetazepam (Minias), Lorazepam (EM) ecc. Il carcere come luogo insonne è in realtà raccontato anche dai nostri autori che spesso, parlando delle notti in cella, mi hanno confermato che non si dorme

«Ad occhio – spiega la caporeparto al ricercatore – vengono consumati circa 120 flaconi di Diazepam a settimana, e, sempre ad occhio, sui 30/40 di EM. Al momento sono presenti circa 500 detenuti». Oltre questi dati approssimativi, ci si deve rendere conto che la questione psichiatrica in carcere è sicuramente molto più complessa e frammentata di quanto si possa credere. Da un lato, l’assenza di misure effettive per le persone che hanno patologie o che presentano gravi dipendenze dalle droghe già “da fuori”; dall’altro l’abitudine di assopire e rendere più facilmente governabile la popolazione ristretta.

 

Il discorso è senza dubbio da approfondire, oltre che con la lettura del libro qui brevemente illustrato, anche attraverso future narrazioni che tenteremo di formulare soprattutto per quello che concerne una sorta di razzismo patologizzante per cui si tende a prescrivere psicofarmaci più facilmente alle persone straniere recluse, a volte solo a causa di una difficoltà di comunicazione che si traduce in un banale “questi sono tutti matti”.  

ALESSIA

Lavorare nel terzo settore

Quando ci chiedono che lavoro facciamo e rispondiamo che siamo operatori di una cooperativa sociale che lavora nel terzo settore non sempre i nostri interlocutori sembrano capirci.

Proviamo allora a spiegare velocemente: con la definizioneterzo settore” si intende l’insieme di enti di carattere privato che operano con finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale; operano quindi al di fuori del settore pubblico e di quello commerciale ma si affiancano e interagiscono con entrambi per l’interesse delle comunità.

Nonostante il Terzo settore esista da decenni è stato riconosciuto giuridicamente in Italia solo nel 2016 ma a nostro avviso ancora non viene riconosciuta pienamente l’importanza che ricopre non solo in termini di impegno sociale ma anche in termini economici.

Le realtà del terzo settore sono portatrici di professionalità, esperienza, impegno e memoria ma spesso (quasi sempre anzi) vengono considerate dalle istituzioni come mere esecutrici di servizi. 

Al di là del settore di intervento che caratterizza il lavoro dei vari enti del terzo settore (disabilità, dipendenze, detenzione…) parliamo di un settore dinamico composto da persone con professionalità specifiche ed esperienza che converrebbe coinvolgere anche nella programmazione dei servizi e non solo nell’esecuzione in quanto gli operatori sociali sono sempre in prima linea e conoscono e presagiscono quelle che sono le emergenze sociali in continuo mutamento.

Inoltre capita frequentemente che i servizi non siano finanziati in maniera adeguata o che lo siano per periodi troppo brevi e di fatto queste cose impediscono di lavorare con sguardo ampio e strumenti adeguati e la continua precarietà influisce inevitabilmente e negativamente sugli operatori e ancor più sull’utenza finale.

Avere più strumenti permetterebbe di raggiungere risultati dal più ampio impatto sociale.

Quello che notiamo inoltre è che spesso non vengono riconosciute le professionalità, chi lavora nel sociale viene visto come un volontario, una persona di buona volontà che mette a disposizione il suo tempo libero. La buona volontà sicuramente c’è in chiunque scelga di fare questo lavoro ma oltre a quella vengono messe in gioco competenze specifiche ed esperienze che andrebbero non solo riconosciute ma anche valorizzate.

In questi ultimi anni finalmente è stato trovato lo strumento della “coprogettazione” che prevede la progettazione e la successiva realizzazione di uno specifico intervento sociale attraverso l’integrazione tra enti pubblici e enti del terzo settore che scelgono di lavorare in modo sinergico avendo come obiettivo condiviso la risposta ad uno specifico bisogno sociale: una nuova sfida e un nuovo percorso che siamo pronti ad intraprendere!

Livia

Riflessioni sul ruolo dell’educatorɘ: il burnout, un mostro sempre in agguato?

Nell’ambito della nostra attività quotidiana di educatorɘ ci troviamo spesso a fare i conti con situazioni di stress lavorativo che possono arrivare a minare il nostro equilibrio e la nostra produttività, fino ad arrivare a casi estremi in cui si manifesta quello che ormai l’OMS definisce come vera e propria sindrome: il burnout. L’operatorɘ in burnout arriva ad una sorta di esaurimento delle proprie risorse interiori, deteriorate da una condizione di disagio diffusa dovuta alla sovraesposizione al lavoro e alla ridotta capacità di far fronte alle criticità quotidiane. Questo esaurimento si manifesta con la disaffezione verso il lavoro, con un aumentato cinismo e distacco che mina alle basi qualsiasi intervento educativo.

L’argomento è quasi tabù, affrontarlo o ammettere di averci fatto i conti nella propria vita lavorativa può essere letto come mancanza di professionalità, come inidoneità allo svolgere una professione delicata che ha al centro una relazione di aiuto. In realtà per mantenere uno standard lavorativo alto e preservare il proprio equilibrio mentale è prioritario rendersi conto delle proprie debolezze e fragilità, trovare il modo per affrontarle sia individualmente che nel gruppo di lavoro.

Nella mia esperienza lavorativa nella Cooperativa PID mi sono trovato spesso in periodi e situazioni molto stressanti, dovute al sovraccarico lavorativo e alla particolare tipologia di utenti con cui mi sono trovato a confrontarmi negli anni. Il primo rifugio e approdo sicuro nei periodi più pesanti è stato senz’altro il confronto di gruppo, il poter contare sulle colleghe di lavoro e sul lavoro in equipe, l’aver avuto sempre persone vicine che mi hanno fornito sostegno e l’opportunità di confrontarmi e di esplicitare le criticità con cui mi sono trovato di volta in volta a fare i conti. La supervisione di uno specialista poi è stata un’arma in più, che mi ha permesso di avere un approccio più riflessivo e distaccato dalle dinamiche quotidiane, una chiave di lettura esterna che ha contribuito a farmi vedere i problemi da altri punti di vista, arricchendo la mia capacità di trovare soluzioni e di non farmi sovrastare dalle criticità quotidiane, applicando metodologie che mi hanno consentito nel tempo di tenere sotto controllo il lavoro e la sua incidenza sul mio equilibrio psichico.

Soprattutto una volta preso in carico un nuovo utente, e successivamente nel percorso di accompagnamento nella strada verso il reinserimento, si instaura un rapporto molto profondo e diretto con l’utenza, ed è quindi opportuno impostare il rapporto con le persone in carico in maniera chiara, senza lasciar spazio ad ambiguità, in modo da palesare e rendere chiaro il proprio ruolo di “accompagnatore” in un percorso di reinserimento nella società civile, percorso mai scontato ed immediato, che necessita di costante monitoraggio e sostegno da parte dell’educatorɘ professionale. Instaurare un rapporto troppo amicale, diretto, senza filtri e senza paletti con l’utenza può portare al rischio di creare confusione nell’ospite, che cercherà di colmare una serie di deprivazioni cui la sua condizione di detenzione passata o presente l’ha esposto, deprivazioni soprattutto affettive e relazionali, con un rapporto troppo stretto e scorretto con l’educatore, che viene quindi investito di aspettative e richieste crescenti cui non potrà far fronte nel medio-lungo periodo, generando frustrazione nel lavoratore e disaffezione nell’utente. 

Spesso mi sono trovato a dover ribadire, con la dovuta delicatezza per non compromettere il rapporto educativo costruito con l’utente, che il mio ruolo non è assimilabile a quello di un amico, di un confidente, ma appunto è quello di una persona che si pone degli obiettivi, professionali, in comune con l’utente, ovvero, in primis, il raggiungimento di una condizione di autonomia che porti la persona a riprendere le redini della propria vita. 

Nel rapporto che si instaura con le persone prese in carico a volte è necessario mettere degli argini, per evitare di dedicarsi h24 al lavoro, e di dare la falsa illusione all’utente di “esserci sempre”. Il corretto rapporto con l’utente, secondo me, si raggiunge quando entrambi gli attori del rapporto educativo hanno chiaro il reciproco ruolo, e in quell’ambito agiscono per raggiungere quelli che sono gli obiettivi comuni.

Penso che sia importante anche affrontare in maniera riflessiva il proprio lavoro, avere degli spazi e dei luoghi in cui si parli non dell’oggetto del lavoro, ma del lavoro in sé, mettendo al centro gli operatorɘ e dando il giusto spazio alle differenti individualità che compongono un’equipe che si occupa di interventi socio-assistenziali. 

Anche l’avere uno spazio per esprimere le proprie idee, riflessioni e valutazioni, come questo che sto utilizzando in questo momento nell’ambito del blog “Passo dopo passo”, è senza dubbio un elemento positivo che mi aiuta in tal senso.

Francesco

Dossier statistico immigrazione 2022 – i migranti nelle carceri italiane

Il 27 ottobre scorso ho avuto il piacere di ascoltare la presentazione del Dossier Statistico sull’immigrazione del 2022: il frutto del lavoro meticoloso svolto da IDOS in collaborazione con la rivista Confronti e l’Istituto di Studi Politici Pio V volto a fotografare la situazione dei migranti in Italia.  

Ad introdurre la discussione circa la trentaduesima edizione del Dossier, un pensiero rivolto a tutte le vittime del mare e delle frontiere, a tutte le sofferenze e il dolore di chi passa il confine: “A tutti i migranti reali che però sono assenti…”

In questo resoconto, vorremmo riportare i dati del Dossier per quanto riguarda la popolazione migrante detenuta dell’anno 2022. Numeri che rispecchiano una realtà diversa da quella narrata dal luogo comune per cui io non sono razzista ma questi vengono qua e ce stuprano ‘e figlie, ‘e mogli!”. Percentuali che fanno luce su l’evidente disagio socio-economico che vivono le persone che non-accogliamo tutti i giorni. 

Criminalità in Italia – il reale contributo delle persone straniere

Al fine di analizzare il “peso” delle persone straniere nel più ampio scenario criminale italiano, Gianfranco Valenti e Luca di Sciullo, ricordano l’assunzione preliminare di una serie di criteri oggettivi «senza i quali si rischia di fornire una interpretazione unilaterale, ingenua e scorretta» di una realtà che risulta essere più interconnessa di quanto non sembri.

Nel senso, è giusto porre un confine netto tra la criminalità straniera e quella autoctona? 

Lo studio qui presentato cerca di contestualizzare il fenomeno all’interno dell’ambiente sociale, culturale ed economico in cui si manifesta.

Quattro sono le riflessioni che aprono il discorso intorno alla questione contro cui invece si scontra l’opinione comune di molti italiani, condita con una «salsa razzista-lombrosiana – scrivono Sciullo e Valenti – per cui i caratteri somatici comuni a una “etnia” rivelerebbero tratti caratteriali propri di un’intera popolazione».  

  1. Non sempre il numero degli arresti o delle denunce sono corrispondenti alle persone effettivamente arrestate o denunciate, perché è possibile che una stessa persona sia arrestata o denunciata più volte nell’arco del tempo. 
  2. Le persone immigrate in Italia hanno un maggior numero di leggi a cui riferirsi e dunque un maggior numero di reati possibili rispetto agli italiani. Si parla in questo caso di tutte le leggi sull’immigrazione che regolano ingressi, permanenze e regolarità.
  3. Il prevalere dei reati commessi dai giovani, deve essere considerato alla luce di un confronto squilibrato in quanto gli individui giovani sono una forte rappresentanza della popolazione straniera in Italia, a differenza degli italiani più giovani. Dunque occorrerebbe proporre una comparazione della frequenza dei reati per fasce di età.
  4. Infine, non si può evitare di considerare «quanto il degrado del contesto urbano e sociale di vita, la condizione di emarginazione, l’assenza di misure e strutture di sostegno per un’effettiva partecipazione alla vita collettiva siano fattori che aumentano il rischio di scivolamento nell’illegalità…» e non solo per gli individui immigrati.

 

Dai dati messi a disposizione nel Dossier, tratti dall’archivio del Sistema Informativo Interforze si è assistito a un calo determinante delle denunce e degli arresti delle persone immigrate soprattutto nel periodo pandemico, quando in conseguenza alle restrizioni dovute al lockdown, è diminuita di fatto la possibilità di compiere reati “all’aperto”

Sebbene i numeri ad essi relativi siano saliti nuovamente in seguito alla graduale riapertura verso la mobilità sociale, questi sono comunque inferiori rispetto al periodo precedente la pandemia

Questione però secondo me fondamentale, riguarda l’incidenza percentuale sulla criminalità italiana dei reati accertati degli individui stranieri: per sequestri di persona (36,2%), violenze sessuali (41,0%) e omicidi preterintenzionali (42,6%) che in termini assoluti andrebbero a costituire rispettivamente lo 0,2%, lo 0,8% e meno dello 0,1% del totale

Flussi migranti in carcere 

Come abbiamo visto e possiamo dedurre di conseguenza, ad un calo di denunce e arresti delle persone immigrate in Italia, corrisponde il calare del numero dei detenuti in carcere: rispetto al 2008 – anno in cui si registra un numero di presenze migranti ristrette più alto rispetto agli ultimi 20 anni – quando la popolazione detenuta straniera costituiva il 37,1 % del totale; a giugno del 2022 si è scesi al 31,3 %. (Fonte: Associazione Antigone

Come illustrato da Carolina Antonucci, Francesco Biondi e Carla Cangeri, nonostante diminuisca il numero dei detenuti stranieri all’interno delle carceri italiane, è in aumento il numero dei suicidi. «Al 12 agosto – 2022 – erano morte suicide negli istituti penitenziari italiani 51 persone (già salite a 59 al 2 settembre), di cui 27 (più della metà!) erano detenuti stranieri». Come tristemente noto, il numero dei suicidi in carcere non è in diminuzione.

Accesso alle misure alternative 

Nell’articolo di lunedì abbiamo cercato di spiegare in chiave narrativa cosa siano le misure alternative alla detenzione, nel Dossier Statistico sull’immigrazione del 2022 è presente la quota dei detenuti stranieri in semilibertà (16,6% rispetto al totale dei detenuti in carcere). Il numero dei detenuti stranieri in semilibertà è in aumento, notano Antonucci, Biondi e Cangeri ma è comunque basso, sono 174 persone in tutto. 

Se la concessione della semilibertà viene valutata in base al percorso rieducativo e alle razionali possibilità di reinserimento sociale del detenuto e della detenuta, spiegano gli autori: «Evidentemente per gli stranieri sussistono condizioni soggettive – tra le quali anche la debolezza delle reti sociali di riferimento – che impediscono maggiormente l’avvio di questo percorso, con tutte le conseguenze negativo a livello individuale (sul piano pratico e psicologico) e collettivo (in termini di recupero dalla marginalità a una attiva e piena partecipazione al contesto sociale».

 

Quanto riportato è solo una parte dell’importante ricerca Idos, per conoscere nel dettaglio la situazione dei migranti in Italia nell’anno appena trascorso, vi consigliamo di acquistare il Dossier Statistico sull’immigrazione del 2022 qui.

Alessia

Le misure alternative raccontate da quattro vite differenti e molto simili 

«Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato».

Dall’art. 27 della Costituzione italiana

 

Nel 1975 in Italia sono state introdotte le misure alternative alla detenzione con l’obiettivo di introdurre nuove soluzioni per il raggiungimento del fine ultimo della pena previsto dalla nostra Costituzione, la rieducazione del condannato. Da definizione, le misure alternative alla detenzione o di comunità “consistono in modalità di esecuzione delle condanne diverse dalla tradizionale esecuzione della pena negli istituti penitenziari.” 

In questo articolo vogliamo ripercorrere brevemente alcune storie delle persone incontrate durante il mio percorso all’interno della Cooperativa PID, per tentare di spiegare le misure alternative da un punto di vista emico e iniziando a questo punto ad introdurre i protagonisti delle nostre narrazioni. 

Dalla strada alla casa famiglia – la detenzione domiciliare di V

I piedi del nostro V non toccano il pavimento del carcere neanche per un secondo. 

In seguito alla condanna riesce a ottenere la detenzione domiciliare e sconta la sua pena di circa due anni interamente all’interno di una struttura di accoglienza gestita da PID. Il carcere è brutto dice, è fortunato ad essere lì, nonostante passi le giornate a non fare niente e spesso non si trovi con i suoi “coinquilini”. Può uscire due ore a metà mattinata, con tutto il caldo dell’estate romana si concede delle lunghe passeggiate. Il suo problema resta il lavoro, è il suo obiettivo principale, perché chiaramente una volta uscito dalla struttura come potrà vivere? Dunque con gli educatori cerca di programmare un suo progetto di vita: dato che è vicino alla pensione, si decide che potrà rimanere per qualche mese all’interno della casa famiglia anche dopo aver ottenuto la libertà in modo da avere più tempo per trovare un lavoro, di qualsiasi tipo – afferma V – così che presto potrà badare a se stesso interamente e non restare più legato alle reti socio-assistenziali all’interno delle quali si muove già da molto tempo.

Dal carcere alla casa famiglia – la detenzione domiciliare di B

Dopo quasi venti anni di carcere, B accede alla detenzione domiciliare e sconta gli ultimi anni della sua pena all’interno di una struttura di accoglienza per persone detenute.

B percepisce la pensione ed è determinato a ricongiungersi con i suoi figli e sua moglie, la sua permanenza in casa famiglia è stata essenziale anche per questo motivo: infatti, ha avuto la possibilità di incontrare suo figlio in un ambiente diverso da quello del carcere e soprattutto ha potuto finalmente iniziare a pensare di ricostruire una vita fuori con sua moglie e sua figlia. B anche può uscire dalla struttura qualche ora la mattina e mi ha raccontato in più occasioni di aver trovato piacevoli compagnie nel quartiere con cui passare quei momenti di libertà. Uno dei suoi sogni più grandi è quello di comprare una barca a basso costo per poterla sistemare lui stesso e viaggiare con la sua famiglia nel mondo. 

Ora B è libero e sta vivendo la sua vita, spero, come lui stesso l’ha desiderata per molto.

Dal carcere alla semilibertà al carcere di nuovo

L ha passato una gran parte della sua vita in carcere, negli ultimi anni ha ottenuto la semilibertà e ha iniziato a lavorare fuori dalle mura dell’istituto per rientrarvi la sera. Con l’emergenza sanitaria Covid-19 ha avuto la possibilità di usufruire della licenza premio straordinaria che gli ha permesso di stare fuori sia giorno che notte anche se con delle misure di controllo; questa occasione per molti come lui ha rappresentato il concretarsi di un principio di vita “normale”. 

Per circa due anni è rimasto in una struttura di accoglienza gestita da PID, ma nel momento in cui – con la chiusura dell’anno 2022 – non è stata rinnovata la  misura contenuta nel decreto Cura Italia è tornato nella sua cella. Come L, sono in 700 i detenuti che sono tornati in carcere dopo aver vissuto fuori negli anni della pandemia. 

La storia di L è rappresentativa di una situazione contraddittoria e sicuramente controproducente, nel senso che porta a riflettere sul lavoro svolto da queste persone in questi anni, sulle sfide che hanno affrontato per costruirsi una realtà diversa da quella che hanno vissuto non solo in carcere, ma anche da quella della loro vita precedente alla detenzione stessa. Sfide vinte e passi avanti che inevitabilmente ora sembrano quasi vani, a chi è tornato a dormire nel buio della propria cella proprio quando sembrava riuscire a vedere la fine della sua condizione ristretta.

L continua a frequentare gli ambienti del PID nelle ore di reperibilità previste dal suo programma di trattamento, fortunatamente ha il continuo appoggio della sua famiglia e spera presto di ottenere l’affidamento in prova ai servizi sociali

Dal carcere alla semilibertà all’affidamento in prova

Ricordo quando A mi ha raccontato che dopo anni di reclusione gli è stata data l’opportunità di uscire per la prima volta in permesso premio, mi ha detto che da allora il suo percorso in carcere è cambiato molto. 

La fiducia che gli ha mostrato quel Magistrato è stato un dono prezioso, gli ha permesso di scegliere di voler vivere una vita diversa nonostante gli anni di detenzione che aveva ancora davanti. Mi ha detto che non dimenticherà mai quella persona e che per rispetto verso di lui e verso la sua fiducia ha iniziato a pensare di poter uscire un giorno e costruirsi una vita “normale”. 

Infatti A ha ottenuto la semilibertà e ha iniziato a lavorare fuori dal carcere; con l’emergenza sanitaria è riuscito ad ottenere la licenza straordinaria durante la quale ha alloggiato in una struttura di accoglienza gestita da PID. E ora è in affidamento in prova ai servizi sociali, tra meno di un anno sarà libero. 

A è riuscito ad andare al compleanno del nipote, a passare il Natale in famiglia, a riacquistare gli spazi affettivi che a lungo sono stati lontani. 

 

Le misure alternative alla detenzione possono metaforicamente rappresentare un ponte tra il dentro e il fuori. Gli individui che riescono ad accedere all’alternativa del carcere hanno modo di recuperare più in fretta e con più efficacia il rapporto con un ambiente saturo di stimoli, re-imparare a dargli significato e concretamente iniziare un nuovo percorso di vita.

Per conoscere nel dettaglio le misure alternative vi consigliamo di leggere direttamente il testo della Legge 26 luglio 1975 n. 354

 

Alessia Massaroni