ALESSIA
La cella detentiva è lo spazio angusto e ristretto in cui vivono a oggi 62.397 persone in Italia. Secondo i dati forniti dal progetto “Sovraffollamento carcerario in Italia” del giornalista Marco Dalla Stella, questo è il numero totale delle persone detenute, aggiornato al 16 aprile e
«… a fronte di una capienza regolamentare di 51.280 posti. Di questi, però, 4.477 posti non sono disponibili. Questo fa sì che il tasso di affollamento sia del 133,293%».
Una cella che – come ricorda l’antropologa Francesca Cerbini nel recente libro “Prison Lives Matter” – non è mai solo una cella. Uno spazio da addomesticare e personalizzare, un luogo che a volte rappresenta l’unica possibilità di riappropriazione dell’intimità del corpo, la cella dove – alcuni mi hanno detto – ci si chiude a fine giornata, quando non si ha più voglia di stare con gli altri. Una cella che viene pulita fino allo sfinimento, dove si convive stretti con due, tre, quattro persone; un letto in cui si dorme tutto il giorno, in cui non si trovano speranze; un buco in cui solo quest’anno, venticinque persone hanno trovato la morte. Una cella che oltre a tutto questo è ancora molto altro.
La stessa cella, spogliata dei significati e delle sofferenze dei suoi abitanti, è stata sbattuta in piazza del Popolo a Roma, in occasione della festa della polizia penitenziaria lo scorso 25 marzo. Un’amica mi ha inviato il link qualche settimana fa sbigottita. Assurdo, mi ha scritto.
Il video del sovrintendente che illustra lo spazio ricostruito della “stanza di pernottamento per i detenuti”, vi invito a guardarlo, è anche sulla pagina instagram del Ministero della Giustizia. Il contenuto in sé è disturbante ma lo diventa ancor di più leggendo il copy (imbellettato di emoticon) che utilizza una frase gancio indimenticabile: Curiosità e specialità della polizia penitenziaria!
Curiosità e specialità, una visita turistica in una cella a cielo aperto illuminata dalla luce del sole. Una stanza nuova, con le pareti pulite, un armadio, un letto a castello, una piccola scrivania con una sedia bassa, un bagno. Prima di tutto viene mostrata però la domandina (il modulo 393). Lo strumento attraverso cui passa la vita della persona ristretta, come scritto altrove su questo blog:
«Dopo la prima notte, una notte di incubi in cui hai dovuto fare i conti con i fantasmi del tuo inconscio, ti alzi e ti guardi intorno smarrito, poi ti informi col tuo compagno di cella per questa o quella necessità quotidiana. Ti dirà che devi fare una “domandina”, si avete capito bene, domandina, indicando la “stanza di appartenenza” – attenzione – “stanza” e non “cella”. Ovvero quello spazio dove sei ristretto in 6 con accanto pochi altri metri quadri dove si cucina e si defeca anche». M49, L’orso
«In carcere devi fare domandina per tutto, per tutto ci vuole la domandina: per poter parlare con l’assistente sociale, per poter parlare con la psicologa, per poter parlare con il direttore, con il “capo posto” (il capo del reparto).
Per fare entrare dentro un paio di scarpe nuove ad esempio, perché le vecchie sono rotte, devi darle prima indietro (le vecchie) altrimenti non entrano (le nuove). E certe domandine si perdono, diciamo si perdono… Tante le cestinano e invece tante si perdono. La domandina è tutto, senza domandina in carcere non ci fai niente». Domenico
Nella visita guidata della cella in piazza c’è poi un’attenzione particolare alle misure di sicurezza. La struttura ferrosa del letto è fissata al pavimento per evitare che possa essere usata da loro come barricata e quel nuovo sgabello con lo schienale (purtroppo, sembra essere stato introdotto da poco) è potenzialmente pericoloso perché si può afferrare più facilmente per essere scaraventato addosso a qualcuno. Il materassino sembra fatto tipo di gommapiuma, viene alzato per farci vedere il materiale: attenzione, non per dirci quanto possa essere scomodo ma che può essere tagliato per nasconderci le cose; così come nello scarico del bagno – assente nella riproduzione in piazza della cella – dove spesso, dice la guida, ci si trovano tutte le armi fabbricate da loro. Anche quest’ultime vengono mostrate nel reel, sono accuratamente esposte in una teca proprio come in un museo.
Quando ho letto e ho visto la ricostruzione della “stanza di pernottamento”, ho subito pensato a un’altra cella che era stata esposta nell’estate del 2024 da Il Dubbio. E Il Dubbio stesso ha commentato l’apparente somiglianza delle iniziative che sono state costruite però, è evidente, sulla spinta di motivazioni opposte. La cella de Il Dubbio, esposta al Salone del Libro di Torino e poi in piazza di Pietra a Roma, aveva come obiettivo quello di
«far comprendere quanto disumana, alienante sia, per l’essere umano, l’esperienza dell’isolamento dal mondo, della privazione di libertà, affetti, senso del futuro. C’era in sottofondo il clangore dei catenacci che serravano i cancelli. Era un modo per dire: sappiate che c’è un’umanità, dietro quelle sbarre, scaraventata in una disperazione profonda. Non riducete il carcere al pozzo nero dell’esistenza in cui rinchiudere ciò che non si vuol vedere. Perché anche se non volete vederlo, esiste comunque. E noi ve lo mostriamo. Volevamo abbattere il muro che separa la vita della detenzione. Perché cittadini e reclusi potessero idealmente condividere una verità».
La cella esposta alla festa della polizia penitenziaria sembra più un modo per dire: guardate che belve, dobbiamo addirittura ragionare sul fatto che lasciargli uno sgabello con lo schienale possa essere pericoloso. Nulla di nuovo, certo. La narrativa della sicurezza in carcere è più forse una lente con cui si osserva prima di tutto la persona ristretta e che presuppone un atteggiamento pregiudiziale da parte di tecnici, personale e cittadinanza esterna ma che non tiene presente ed elude completamente sia le strutture asimmetriche di potere che le condizioni strutturali di violenza (“Oltre il potere e la burocrazia” David Graeber) che sono alla base dell’istituzione totale.
Così, parafrasando il sociologo Luca Sterchele, si potrebbe dire che attraverso il discorso onnipresente sulla sicurezza si acuisce l’asimmetria di potere tra il personale penitenziario e le persone detenute che diventano agli occhi dei primi qualcosa di più simile a dei nemici piuttosto che “esseri umani in custodia” (Drake, 2015 in “Il carcere invisibile. Etnografia dei saperi medici e psichiatrici nell’arcipelago carcerario” di Luca Sterchele)
“Più sicurezza per questi mostri” è un motto relativamente semplice che oltre a trapelare dalle immagini e dalle parole del video sulla cella in piazza del Popolo, mi pare evidente sia andato oltre i confini del carcere e abbia invaso proprio quelle piazze in cui il dissenso è diventato una questione di sicurezza.
O forse lo era già da un po’, ma adesso è pure legge.