Cooperativa sociale che offre servizi di ascolto, orientamento, formazione, accoglienza rivolti a detenuti/e, ex detenuti/e e persone che vivono in condizione di disagio sociale.

Tag: violenza

Il carcelazo – la sindrome del carcere in Bolivia

ALESSIA

«Il termine carcelazo non era conosciuto da tutti i reclusi di San Pedro. Lo utilizzavano quei detenuti che avevano contatti con carcerati stranieri i quali, probabilmente, lo avevano sentito in altre prigioni latinoamericane» (“La casa di sapone. Etnografia del carcere boliviano di San Pedro” Francesca Cerbini

Il carcelazo è una malattia che non esiste nei libri di medicina, né probabilmente al di fuori dell’istituto penitenziario che ne è per l’appunto la causa, l’agente patogeno, come suggerisce il nome stesso. Eppure il carcelazo è reale ed è significato  in modi diversi dagli interlocutori dell’antropologa Francesca Cerbini. 

Mal di cuore, mal di testa, furto dell’animo. Può essere il diavolo che ti afferra o la depressione. In tutti i casi, questo tipo di patologia non viene mai o quasi esplicata dalle persone che ne sono colte alle diverse soggettività terapeutiche esistenti nella casa di sapone boliviana. Né con il medico, né con lo psicologo e spesso neppure con lo yatiri, si corre il rischio di esser presi “per matti”. E allora si cerca di trovare le parole giusto per spiegare un malessere indicibile

NB. In Bolivia lo yatiri può rappresentare una guida spirituale e tradizionale, spesso legata alle pratiche andine. Come nelle comunità extramurarie, in carcere lo yatiri è il saggio che, in connessione con l’esoterico, fornisce consulenze e somministra preghiere, rituali o letture – spesso con le foglie di coca. Può essere un punto di riferimento per le persone in carcere anche per dare senso al male dell’essere rinchiusi.

« […] anche se voi non ci credete, sono morto» (2016. F. Cerbini, p.183) 

Descritto come qualcosa che annienta i sensi, il carcelazo è una forma di disperazione che colpisce le persone in seguito alla presa di coscienza dell’essere recluso, o dopo una serie di eventi negativi. Gli interlocutori dell’etnografa che sperimentano il carcelazo,  raccontano che la manifestazione dei sintomi arriva in momenti ben precisi: ad esempio dopo l’emissione del verdetto, o per chi aveva creduto di esser stato incarcerato per sbaglio, quando realizza che non uscirà tanto presto. 

Non è possibile dare a questa sindrome un tempo o associare dei sintomi che siano validi per tutti, in quanto il carcelazo è intrinsecamente legato al vivere il carcere e ogni persona lo vive in modo differente. Questa patologia pare delinearsi in due forme: una leggera e una più grave. Per la prima può parlarsi del disorientamento iniziale di entrare in carcere e il rimedio è spesso l’uso delle sostanze stupefacenti, metodo magari utilizzato già fuori dalle mura. La seconda si abbatte sul corpo del detenuto prigioniero zzato dopo il pronunciamento della condanna, in genere quando sono già passati uno o due anni dall’incarcerazione.

«Prendeva forma una specie di calendario del malessere del carcelazo che mostrava i suoi ancoraggi simbolici negli avvenimenti giudiziari o affettivi più rilevanti: l’entrata o il compimento del primo anno di reclusione, i diciotto mesi attesi per cercare di ottenere la “retardación de justicia”, la condanna o l’allontanamento della famiglia. Per cui ognuno, sulla base delle proprie propensioni e della situazione personale, segnava il ritmo della sindrome». (ivi, p.184)

NB. La “retardación de justicia” è uno degli aspetti che caratterizza le ingiustizie dell’iter giudiziario boliviano di chi è preventivamente detenuto in misura cautelare e aspetta la scarcerazione per decorrenza dei termini.

Gli eventi scatenanti il carcelazo non riguardano solamente il fallimento del percorso giudiziario ma tutto quello che riguarda la vita della persona condannata, quindi anche – e a volte soprattutto – le relazioni con l’esterno, la famiglia, gli affetti. La rottura dei legami, della quotidianità precedente al vivere ristretto, di un’identità personale conduce al carcelazo che si configura a questo punto come “perdita si senso dell’esistenza”. E oltre alla disperazione, al mal di cuore, alla perdita di senso, la sindrome del carcere colpisce il corpo del detenuto indebolendolo, abbassando le difese

«D. Quando le è venuto il primo carcelazo

I problemi arrivano tutti insieme. Avevano pronunciato la mia condanna, mia moglie smette di portarmi mio figlio […] e improvvisamente in una settimana ero pieno di problemi: familiari, economici, la condanna… e ti fanno deprimere. Non mancano i buoni amici che ti fanno provare droga e alcol, quell’alcol rosato, non il bianco. Non sei quasi interessato alla vita.

D. Quanto dura il carcelazo?

Dipende da ognuno. Io avevo voglia di uccidermi ed ero diventato uno straccio. La famiglia ti abbandona, hai sempre più problemi, e vorresti impiccarti […]. Alcuni, quando hanno avuto la loro condanna a trent’anni, si sono uccisi. Una coppia si è uccisa insieme dopo la sentenza.

D. È questo il carcelazo?

Sì, non ce l’hanno fatta a resistere qui dentro. È la depressione, quando ti senti solo, abbattuto, quando nulla ha più senso, quando senti che il mondo non ha più senso nella tua vita. – Jaime, sezione Álamos, 6 marzo 2008» (ibidem)

Il carcere in Bolivia è chiaramente molto diverso da quello che conosciamo qui oggi in Italia e non è questo lo spazio adatto per affrontare tutti gli aspetti che lo caratterizzano. Non è però un caso aver scelto questo in particolare, il carcelazo è una sindrome che agisce sul corpo della persona detenuta in conseguenza stessa della sua pena che seppur vuole definirsi incorporea, è invece indubbiamente il contrario. Come in Bolivia, in Italia e probabilmente nel mondo. 

Se sei interessat* ad approfondire faccelo sapere nei commenti, ti consigliamo comunque di leggere il libro di Cerbini

La banalità del male

ALESSIA

Il male è banale, è semplice, quotidiano. Seppur le sue ragioni, radicate nella realtà stessa della società, siano complesse, esso dilaga nel silenzio e nel tacito accordo che si stringe tra relazioni squilibrate di potere di pronunciare, agire e diffondere la violenza fino a quando questa arrivi a non lasciare più alcun stupore, fino all’indifferenza. Si tratta di sminuire, di ridurre, di semplificare un atto banale di male, come può essere quel ceffone dato a una compagna che “non sapeva comportarsi” di fronte a uomini che non erano il suo. Si tratta di semplici gesti quotidiani, di parole come “uccidere bambini” indirizzate a chi sceglie di interrompere una gravidanza. Si tratta, ancora, di un bombardamento di notizie, immagini e gossip sulle storie violente, sul male che incombe, sulle vite spezzate e quelle da rinchiudere, sulle ipocrite prese di posizione contro persone e popoli oppressi. 

NB. Questo male di cui parliamo non è un male tipo la parte oscura della moneta: retta via/peccato, bene divino/male infernale ecc. Ci siamo appropriat3 delle parole di Hannah Arendt proprio per questo. Magari è giusto citarne un passo per indirizzarci meglio al discorso. 

«Quel che ora penso veramente è che il male non è mai ‘radicale’, ma soltanto estremo, e che non possegga né profondità né una dimensione demoniaca. Esso può invadere e devastare il mondo intero, perché si espande sulla superficie come un fungo. Esso ‘sfida’ come ho detto, il pensiero, perché il pensiero cerca di raggiungere la profondità, di andare alle radici, e nel momento in cui cerca il male, è frustrato perché non trova nulla. Questa è la sua ‘banalità’. Solo il bene è profondo e può essere radicale.» – H. Arendt “La banalità del male, Eichmann a Gerusalemme (1963)

 

Quel tacito accordo, quell’accettare di vedere e ascoltare il male senza riconoscerlo, è stato intessuto fino a oggi per poterci permettere di avere tra le cariche del governo persone che dicono cose aberranti come:

«L’idea di veder sfilare questo potente mezzo che dà il prestigio, con il gruppo operativo mobile sopra. Far sapere ai cittadini chi sta dietro a quel vetro oscurato. Come noi sappiamo trattare chi sta dietro quel vetro oscurato. Come noi non lasciamo respirare chi sta dietro quel vetro oscurato. Credo sia una gioia, è sicuramente per il sottoscritto, un’intima gioia

A pronunciare queste parole, Andrea Delmastro Delle Vedove, Sottosegretario di Stato alla Giustizia. Parole che hanno indignato non poche persone, quelle almeno che tentano di resistere a questo dilagare violento smantellamento dei diritti umani. Nella nostra bolla, ci sembra a volte inverosimile. Tra di noi ci scriviamo preoccupati, amareggiati, disillusi. Condividiamo frustrazioni che non sappiamo come risolvere, lo sconforto è reale quanto l’impossibilità di smettere di credere che qualcosa cambi. Parlo del lavoro che svolgiamo ogni giorno, dell’impegno e la determinazione che gli educatori, le educatrici del PID e non solo investono in quelle attività che coinvolgono la loro vita per intero, senza momenti veramente liberi dalle responsabilità di accogliere, ascoltare e tentare di sfruttare qualsiasi mezzo a disposizione per permettere e rendere possibile alle persone che vivono le ristrette condizioni che il carcere gli ha lasciato addosso, di costruire una nuova vita. E ci vuole coraggio a farlo, non perché, come ai più potrebbe venire alla mente, si lavora con persone “pericolose”, ma perché si lavora per mettere toppe a un sistema che vacilla, che non funziona, che cade a pezzi negli intenti e nei valori che l’hanno messo in piedi. Parliamo di carcere come un’istituzione che non ha mai avuto, forse nella storia dell’umanità, un reale motivo di esistere se non quello della reclusione e della limitazione della libertà personale con il solo fine di punire chi ha rotto il “patto sociale”. Parole come “risocializzazione” abbiamo già sottolineato altrove, sono solo la base dell’ipocrisia insita nello stesso concetto di galera. 

«Parliamo di rieducazione e di risocializzazione come scopi ultimi delle pene, da un lato e di un’istituzione totale che separa – come prima e solenne ragion d’essere – le persone che commettono il reato dal resto della società nella quale è previsto il cosiddetto reinserimento.» – Dall’articolo “Donazione assorbenti per il carcere: cosa può significare il rifiuto di un dono da parte di un’istituzione?”

Perché il carcere è qualcosa che chiude e non apre alle possibilità, è un posto predisposto a eliminare l’umanità ad abbatterla. Non solo per chi la abita per “pagare” i suoi errori, ma anche per chi la vive per lavoro. Un’istituzione totale, come scriveva Erving Goffman, non è altro che «un luogo di residenza e di lavoro» dove agglomerati di persone sono tenute lontane dalla società per un significativo lasso di tempo. E sono, questi gruppi di persone, accomunati dalla medesima condizione di dover trascorrere porzioni di vita in «un regime chiuso e formalmente amministrato.» 

 

E se siamo poco indignati di fronte all’intima gioia di un umano di non far respirare un altro è perché il male è banale e ci ha sopraffatti, oltre che assuefatti. Perché è da tempo che sentiamo le notizie di chi si toglie la vita in carcere, del sovraffollamento, degli abusi di potere contro quei corpi rinchiusi. Siamo avvezzi a queste violenze continue e non ci stupiscono più. 

Pensiamo al potere delle parole, pensiamo alle reali conseguenze che generano: parliamo dei recentissimi casi emersi dal carcere di Trapani? Abbiamo letto le invettive, accompagnate dalle botte a secchiate di piscio di alcuni agenti penitenziari sui corpi indifesi, testimoni di ingiustizia, delle persone detenute. 

Male legittimato dall’essere compiuto verso quegli ultimi che ci hanno insegnato a disprezzare, a temere, a evitare, senza però conoscere. Si dipingono le persone che commettono reati come bestie senza cuore, ed è facile così cadere nell’errore che allora, nei loro confronti, tutto è lecito. La violenza, l’umiliazione, la crudeltà. Ed è in questa banalità che si arresta il pensiero, si riduce la complessità tutta umana di agire e sentire del mondo.

La tortura in carcere – fattore endemico e culturale?

Alessia

Stamattina ascoltavo in treno il podcast “Chiusi dentro” di Massimo Razzi e Gabriele Cruciata prodotto in collaborazione con l’Associazione Antigone nel 2021. Una questione in particolare mi ha stretto le viscere, ancora una volta, quella della tortura nelle carceri italiane.

Era il 2017, appena poco prima che diventassi maggiorenne, di carcere poco conoscevo anche se già molto mi interessava e per la prima volta, con la scuola, sono entrata in un istituto di pena, dalle mura grigie, spesse, infinitamente alte. Ero una “bambinetta” alle prime armi e non avrei mai pensato che effettivamente poi quelle persone che abitavano in quegli spazi fatiscenti, minuscoli, sospesi, sarebbero diventate le persone con le quali oggi mi trovo a confrontarmi spesso (e volentieri!).

 

Era quindi solo il 2017, solo così di recente e dopo appena 30 anni dalla ratifica ONU del ‘97 è stato inserito tra i reati in Italia quello di tortura. Ne avevamo parlato qualche tempo fa anche nell’articolo “È vietata la tortura: il XIX Rapporto di Antigone sulle condizioni di detenzione”, ricordando dapprima come il nostro Codice penale definisse la tortura: quella serie di azioni che producono una profonda sofferenza fisica e/o psichica alle persone già prive della propria libertà. Dunque violenze di ogni genere, intimidazioni continue e durature nel tempo considerate – a buona ragione – fattori di degrado per la dignità della persona che le subisce. 

 

Nella puntata del podcast dedicata proprio alla tortura, all’ergastolo ostativo e al 41bis, “Fine pena quando” – che vi invito ad ascoltare –  tra le varie voci che incontriamo c’è anche quella di  Lorenzo Sottile: “un dottorando in diritto pubblico specializzato in carcere e tortura” che ha svolto attività di volontario in varie carceri europee e sudamericane. La tortura negli istituti di pena italiani, dice, è una questione endemica e culturale, a differenza di altri paesi, la stessa formulazione del reato di tortura nel codice penale “si presta a molte critiche”. La vaghezza e la discrezionalità di cui parla Sottile sono la caratteristica peculiare non certo solo di questo tipo di testo calato dall’alto in Italia. Si conferma la presunta tortura, ad esempio,  dopo aver comprovato i traumi a livello psicologico della persona che l’avrebbe subita. Come? In che modo? Con quale criterio? 

«In altri Stati se si fa riferimento alla normativa nazionale ovviamente la regolamentazione è differente, quindi anche un certo tipo di atto o violenza  fisica intenzionale o anche non intenzionale può essere ritenuto un atto di tortura.» – Lorenzo Sottile

Endemico e culturale quindi, una cosa tutta all’italiana – anche se non credo sia proprio così – quella di concepire il carcere come vendetta, di punire e sorvegliare panotticamente le persone già private della loro libertà, di produrre un’istituzione in cui gli attori sociali principali, agent3 e detenut3, sono in relazione tra loro alla “gatto e topo”. Dove il gatto è legittimato a ridurre in poltiglia il topo, a costruire trappole, a farlo vivere nella paranoia, a ricordargli tutti i giorni, in ogni minuto che la sua vita non è più vita. Molti infatti, magari pure in attesa di quella visibilità dei traumi psichici necessaria per confermare l’avvenuto atto di tortura, la vita scelgono di abbandonarla. Siamo oggi a 69. 

 

A fronte delle evidenti problematiche strutturali degli istituti di pena italiani, le risposte sono violente e legittimate! Ce lo conferma ancora una volta la vaghezza con cui si parla del reato di tortura. Si sceglie la via della repressione delle rivolte senza ascoltarne le ragioni. Reprimere, punire e alimentare di conseguenza un ciclo di violenza che no, non si esaurisce nella “discarica sociale” dove nessuno pare voler guardare. 

Non volendo generalizzare, voglio ricordare una cosa secondo me fondamentale per capire meglio che ad essere fallimentare è proprio questo sistema carcere: a morire di carcere non sono solo le persone detenute, sono anche gli agenti che ci lavorano. Questo dovrebbe far riflettere.

Attacchiamoci al G.I.O.

G.I.O. – Gruppo di Intervento Operativo. No, non è uno scherzo e sì, anche in questo caso si predilige la via della repressione. Il G.I.O. è il nuovo modo di istituzionalizzare la violenza e legittimarne l’uso e l’abuso per rispondere ai “disordini” delle carceri italiane, ignorando completamente le ragioni a monte di una protesta o di una rivolta
Come forse è noto, lo scorso 29 maggio è stata inscenata una protesta all’interno dell’IPM di Milano, il Beccaria. Un istituto che proprio in questi mesi è protagonista di una certa attenzione mediatica dato il corso delle indagini circa maltrattamenti e violenze di alcuni agenti penitenziari nei confronti dei ragazzi. 
Il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha spiegato che il modello del G.I.O. è ripreso da quello francese Eris, con il quale «si sono abbattuti del 90% i fenomeni di criticità».

«Nel carcere minorile molti dei ragazzi detenuti hanno inscenato una protesta, che è consistita prima nel mancato rientro in cella e poi nella battitura delle sbarre, rientrata dopo poche ore senza violenza e senza che nessuno, sia tra i ragazzi che tra gli agenti, sia risultato ferito». Patrizio Gonnella – Antigone

Il nostro ricercatore spossato, ce ne parla oggi così: ATTACCHIAMOCI AL G.I.O.
LE PAROLE DI L

No, questo non è un rigurgito lessicale o un’incontinenza semantica. 

No, ci “attaccheremo” veramente tutti al G.I.O. Incurante ed indifferente di fronte ai pestaggi ed alle torture durante la pandemia nel carcere di Capua Vetere  e più  recentemente  agli episodi del Beccaria, con un “menù alla fiamma tricolore” degno di un ristorante a 5 stelle questo Governo ci ha “servito” un decreto ministeriale che istituisce il G.I.O, Gruppo di Intervento Operativo. Cos’ è?  Una squadra, c’è da scommettere che sarà così, che  interverrà reprimendo qualsiasi tipo di contestazione in ogni carcere d’Italia

 

ORDINE E DISCIPLINA – ça va sans dire. Perché la repressione è il vaccino di  questo Esecutivo, proprio come nel film di Gian Maria Volonté “un cittadino al di sopra di ogni sospetto”.

 

Dopo anni di predicazioni garantiste da parte di un Ministro ex magistrato, dopo qualche bicchiere di champagne di troppo ed un improvviso colpo di pistola per festeggiare il capodanno da parte di qualche esponente politico, ora ecco il G.I.O!

Quando si dice che l’ alcol fa male… Ed il sovraffollamento, le celle fatiscenti umide, l’assenza di cure sanitarie? La popolazione detenuta può pure andare a farsi fottere. A meno che tu non sia un detenuto che, salvo qualche eccezione, possa permetterti un avvocato “principe del Foro” ed uscire dall’ inferno delle nostre carceri. 

Come dire: “c’est l’argent qui fait la guerre”. Se no, attacchiamoci al G.I.O.               

 M49, l’Orso
Riguardo agli IPM e di come abbiano subito un importante e deleterio cambiamento, in seguito dell’inasprimento delle pene avviato con il  Decreto Caivano, puoi leggere di più qui.

La cultura dello stupro

ALESSIA

Come “100 cani su una gatta” si sono descritti gli autori della recente violenza consumata sul corpo di una giovane donna. Mi crea sempre un po’ di disagio il parlare o commentare l’atto dello stupro. È quasi una risposta immediata del mio corpo che in quanto corpo di donna, sente il ghiaccio del terrore paralizzarlo. 

Se ci penso, quasi a conferma di questo immediato sentire, ci sono le parole di chi tra e con le persone pregiudicate ci lavora da anni e che con il corpo di donna ci fa i conti quotidianamente: la difficoltà a interagire con i “sex offenders” è qualcosa che accomuna diversi discorsi delle educatrici della cooperativa PID e non. 

Poi sembra che fatico nel sentirmi in diritto di cercare le parole per descrivere la brutalità di un gesto che viene commentato a destra e a manca senza criterio. Spesso ci si dimentica del necessario e doveroso pudore che dovrebbe accompagnare qualsiasi tipo di atteggiamento nei confronti della persona abusata, la quale di certo merita più rispetto di quello che già le è stato negato. 

Potrei aver voluto scrivere questo disclaimer per contestualizzare la prospettiva, in punta di piedi, che assume la mia penna in questo articolo. 

 

Il punto è che di fronte a un mondo in cui la cultura dello stupro è radicata nei più piccoli interstizi delle attività giornaliere e dei pensieri più comuni, un mondo in cui ogni giorno i giornali, i social network e le televisioni si riempiono di immagini, registrazioni e parole che tolgono il fiato, diventa impossibile tacere. La violenza di genere fa parte della nostra cultura patriarcale, la cultura dello stupro si gioca sulla distorta concezione della donna e la repressione della sessualità libera che nega l’importanza del consenso, minimizza e naturalizza l’atto dell’abuso sessuale del maschile sul femminile in quanto, quest’ultimo è il rappresentante di un ruolo ben costruito. Non so a voi, ma a me è capitato spesso di ascoltare frasi come “però ci sono alcune ragazze che se la cercano”. Una persona in particolare, un semplice e “normalissimo padre di famiglia” ha detto (di fronte alla figlia adolescente) che capisce quando, purtroppo, si è in giro o in discoteca e una ragazza viene stuprata: nel senso che quando succede così è molto brutto, quando succede invece mentre una ragazza è a un party “con gli amici che si drogano” allora non può lamentarsi più di tanto perchè insomma, non ci prendiamo in giro “sai a quello che vai incontro”

 

Riporre la responsabilità della violenza sessuale subita nelle mani della vittima è cultura dello stupro, è ancora normalizzazione dell’atto di prevaricazione su quella parte della popolazione che viene definita “sesso debole”.

 

Ho sentito anche frasi come “eh ma ultimamente se ne sentono davvero tante” e ogni volta rispondo che magari ultimamente abbiamo la possibilità di denunciare con una speranza maggiore di essere credute, anche se con immensa amarezza mi trovo a constatare che non è poi tanto vero. Forse non c’è più la stessa vergogna che accompagna la donna violata senza il proprio consenso, o forse persiste pure la vergogna ma c’è chi cerca di combatterla con la ragione

 

La verità è che di tutte le persone che ho conosciuto in soli 23 anni, molte tra le donne portano con sé una storia di violenza: molestie, abusi emotivi e psicologici, schiaffi, pugni, penetrazioni non richieste. E molte donne decidono di portare il peso di questo dolore senza esprimerlo, perché possono vedere chiaramente intorno a loro il rischio di essere considerate solo un altro caso, solo un’altra vittima della cultura dello stupro

E sinceramente non le biasimo, le rispetto profondamente e taccio di fronte al loro sguardo. 

 

Allo squallore delle conversazioni dei “100 cani” reso pubblico di recente, si somma un altro tipo di squallore, più pudico e meno palesemente complice della cultura dello stupro, ma potremmo dire forse il più centrale: la negazione della violenza di genere come frutto della mentalità patriarcale e dell’inesistenza di un educazione sessuale e al consenso. La negazione arriva prepotente nell’invocazione, ad esempio, della castrazione chimica; pena che oltre ad essere incostituzionale –  dall’Art. 32 «Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.» – non sarebbe utile.

 

Il discorso è sempre lo stesso, “come può uno scoglio arginare il mare?”.

Com’è possibile non pensare che il problema vada estirpato alla radice, piuttosto che reagire alla violenza con altra violenza? Quello che forse dovremmo piuttosto invocare è la necessità di cambiare in profondità le regole sottostanti le figure del femminile e del maschile. Abbiamo l’obbligo di guardarci allo specchio, come società e rete culturale che produce il femminicidio e la violenza di genere in tutta la brutalità del suo marasma e di accettare le nostre responsabilità, chiedendoci magari come potremmo riuscire a garantire a una donna la possibilità di camminare per la strada senza il timore di essere stuprata.

È vietata la tortura: il XIX Rapporto di Antigone sulle condizioni di detenzione

ALESSIA

Ogni anno l’associazione Antigone raccoglie il frutto del suo prezioso lavoro nel Rapporto sulle condizioni di detenzione che delinea la situazione delle persone ristrette nelle Carceri d’Italia e apre a più ampie considerazioni e riflessioni sulle tematiche che maggiormente incidono sulla vita di chi sta dentro. Il diciannovesimo Rapporto di Antigone, come si evince dall’imperativo che fa da titolo “è vietata la tortura” reca tra gli approfondimenti il focus sul reato di tortura, la quale esistenza è stata recentemente messa in discussione. 

 

«Chiunque, con violenze o minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà, cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza, ovvero che si trovi in condizioni di minorata difesa, è punito con la pena della reclusione da quattro a dieci anni se il fatto è commesso mediante più condotte ovvero se comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona». 

 

Con l’articolo 613 bis è stato introdotto nel codice penale italiano il reato di tortura. Così, dal 14 luglio 2017 l’associazione Antigone ha ricevuto numerose denunce da parte di persone detenute che hanno dichiarato di essere state vittime di azioni di violenza.  

Come riportato nel Rapporto di Antigone, prima di questa data, il nostro ordinamento non contemplava neanche la parola “tortura”, per l’utilizzo della quale l’associazione stessa si è battuta a lungo: non possiamo chiamarle botte, percosse o minacce, è tortura. Tortura che per definizione dell’attuale codice penale consiste in tutta quella serie di azioni che producono una profonda sofferenza fisica e/o psichica alle persone già prive della propria libertà. Dunque violenze di ogni genere, intimidazioni continue e durature nel tempo considerate – a buon ragione – fattori di degrado per la dignità della persona che le subisce. 

 

Di fronte alle Nazioni Unite, nel 2010 “al vaglio dello Human Rights Council” l’Italia si opponeva all’istituzione del reato di tortura per quelle stesse motivazioni che alcuni oggi tentano ancora di proporre: «la legislazione italiana ha disposto misure sanzionatorie a fronte di tutte le condotte che possono ricadere nella definizione di tortura (…). Pertanto, la tortura è punita anche se essa non costituisce un particolare tipo di reato ai sensi del codice penale italiano». Solo due anni più tardi, è stata la mano di un giudice a riaprire la ferita. 

 

Nel 2012, durante un processo seguito dall’associazione Antigone due persone ristrette nel carcere di Asti denunciavano di essere stati vittime di gravi atti di tortura. 

«I fatti avrebbero potuto agevolmente qualificarsi come tortura (ma) in Italia non è prevista alcuna fattispecie penale che punisca coloro che pongono in essere comportamenti che (universalmente) costituiscono il concetto di tortura». Quel “ma” ha un peso così importante. Pesa ancora oggi, se si pensa a tutte quelle persone che prima del 2017 non avevano alcun potere di fronte alle azioni di violenza prolungate nel tempo dai propri carnefici i quali gesti, seppure accusati, non sarebbero stati riconosciuti dalla legge come atti di tortura. Quelle azioni di tormento, ad oggi penalmente punibili, potrebbero tornare ad essere “legittimate” perché, qualcuno ha detto, la legge sul reato di tortura impedirebbe agli agenti di fare il loro mestiere… quello di infliggere supplizi?

La sentenza del 2012 e le parole del giudice hanno inevitabilmente fatto luce sulla mancanza di strumenti giuridici per rispondere alla tortura e ha richiamato l’attenzione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, grazie al cui necessario intervento dopo cinque anni è stato introdotto l’articolo di cui sopra.  

 

«Un testo non perfetto, ma che permette oggi di pronunciare quella parola nelle aule di tribunale. Tornare indietro non si può, come fortemente abbiamo voluto sottolineare con il titolo del presente Rapporto» – c’è scritto nel Rapporto di Antigone.

Non si può tornare indietro, sarebbe contro ogni principio e senso di umanità, ingiustamente scorretto nei confronti delle persone che nonostante siano recluse per aver commesso reati, restano persone appunto.

D’altronde, concordiamo con  Zerocalcare: i principi non vanno a simpatia.

 

Undici anni al 41 bis

LE PAROLE DI C

Vorrei parlare del 41bis che nasce come una misura emergenziale nell’estate del 1992 per contrastare gli attentati mafiosi nei confronti dello Stato italiano e fu emanato decreto emergenziale e introdotto nel codice penitenziario, motivato dall’emergenza del momento. 

Nell’estate del 2008 il decreto emergenziale è stato tramutato in Legge dello Stato.

Quindi cos’è il 41bis?

Le persone che al loro arresto vengono sottoposte a tale regime carcerario subiscono misure restrittive che quotidianamente vanno al di là del confine tra il lecito e l’illecito, superando i limiti della Costituzione italiana.

Il 41 bis nasce per controllare le comunicazioni di una minima parte di detenuti, circa 750.

All’interno di ogni carcere che dispone di una sezione 41 bis, c’è una zona che si chiama area riservata, dove vengono ristretti quelli che vengono ritenuti i capi mafia, come per esempio Raffaele Cutolo o Totò Riina.

Controllo della comunicazione del detenuto sottoposto al 41bis

Gli unici modi che il detenuto ha per comunicare sono il colloquio e le lettere.

Attraverso il colloquio di 1 ora ogni mese, quindi 12 colloqui l’anno, il detenuto può parlare con la propria famiglia da dietro un vetro blindato. Il detenuto che ha un figlio può vederlo senza vetro: viene chiuso in una stanza con il bambino, dopo essere stato perquisito a fondo, questo per i bambini fino a 12 anni ma possono stare solo 10 minuti. 

Ogni incontro è registrato, non è possibile neanche fare gesti, perché potrebbero essere segnali per ad esempio ordinare un colpo.

Poi si può scrivere alla propria famiglia e alle persone libere ma è vietato avere corrispondenza con altri detenuti.

Ogni lettera da inviare va consegnata aperta perché la posta è sottoposta a censura: per esempio, a volte,  io usavo scrivere proverbi e modi di dire… se l’agente che era preposto alla censura nel leggere la mia lettera notava un linguaggio criptico, la lettera veniva sequestrata e inviata al Magistrato di sorveglianza.

Il detenuto di quella lettera non saprà più nulla.

La mia esperienza personale

Durante la mia detenzione al 41 bis durata 11 anni fu discusso diverse volte se prorogare o revocare la misura. L’applicazione regime differenziato mi fu revocata: durante l’udienza il Pm fece riferimento a tutte le sanzioni disciplinari ricevute da me tra cui alcune denunce, ma il Giudice rispose: «Va bene procuratore, sappiamo come vengono trattati i detenuti nei reparti 41 bis,  quindi andiamo avanti non soffermiamoci su questo punto, giusto?»

Quindi in quel momento compresi che i giudici sono a conoscenza della realtà che si vive dentro. Non che cambiasse qualcosa, ma è stato importante sapere per certo che un Presidente di un tribunale durante l’udienza dove si discuteva se rinnovare o revocare un provvedimento di regime differenziato, fosse consapevole di come sono trattati i detenuti al 41bis, infatti mi fu revocato.

È vero forse che il 41 bis serve a controllare la comunicazione dei detenuti, almeno quella piccola parte, ma il resto di quelle regole del regime differenziato sono solo abusi volti a distruggere l’identità di una persona. Ad esempio, cosa c’entra l’imposizione degli indumenti intimi, delle calzature, del vestiario con la sicurezza? 

Attraverso il racconto di alcuni episodi vissuti, C spiega le particolari condizioni in cui il detenuto del 41bis vive la propria reclusione. Alcune misure possono risultare assurde e prive di significato, altre sembrano invece costruite appositamente per umiliare e spaventare la persona detenuta.

Al detenuto sottoposto a tale regime è stato quasi sempre vietato cucinare per motivi di sicurezza. Ci sono poi molte altre misure, come per esempio ogni volta che uscivo dalla cella dove ero ubicato dovevo sottopormi –  come tutti gli altri detenuti –  ad una perquisizione, che comprendeva denudazione e altre umiliazioni come fare flessioni e essere perquisito ovunque, perfino in bocca.

Quando devi parlare con il comandante, due o tre agenti ti scortano in ufficio, mentre dentro ad aspettarti ce ne sono degli altri. Una volta entrato, subito ti fanno fare due passi avanti perché devono entrare tutti, con gli agenti dietro le spalle ti ordinano di mettere le mani dietro la schiena. Mentre parli con il comandante sei consapevole di avere dietro di te altre quattro, cinque o sei persone che solo con la loro presenza incutono un senso di timore perché il detenuto in quelle situazioni è sempre in stato di minorità e al minimo errore può subire conseguenze, anche aggressive.

C riflette sul comportamento di alcuni degli agenti che ha incontrato durante il suo percorso, è questo il modo giusto di relazionarsi con il detenuto?

Allora quando succede questo, penso che loro non stanno lì per fare gli agenti ma per fare qualcos’altro. Chi ti autorizza a comportarti in questo modo? Cosa ti ho fatto? 

Ho commesso dei reati gravi? Sì, infatti sto in carcere.

Stare in carcere significa che si deve essere trattati da detenuti non che si debbano ricevere aggressioni o torture psicologiche. 

Mi privi dell’aria, mi privi di guardare il cielo, mi privi di un affetto, mi privi anche della gioia: è proprio così, per un ragazzo di ventiquattro o venticinque anni che dalla sera alla mattina si trova chiuso in quel regime.

E ricorda di quando è stato arrestato, le sensazioni che ha provato: oltre la paura, lo smarrimento di non conoscere il tempo della sua pena nel regime differenziato. 

Io personalmente non è che non ho avuto paura, dico la verità, quando mi hanno caricato sull’aereo per portarmi al 41bis, sapevo che esisteva chiaramente ma non ci ero mai stato. Non è che ho pianto ma dentro di me avevo un po’ di timore.

Quando sono stato arrestato, si è deciso che fossi pericoloso e quindi dovevo andare al 41bis ma neanche mi hanno detto per quanti anni ci sarei dovuto stare

È tutto senza regole. Mi danno il 41bis, prendo l’aereo e vado. All’epoca si discuteva ogni 6 mesi, cioè ogni 6 mesi in tribunale si discuteva la tua pratica: mi davano sempre 2 ore di colloquio al mese e 2 pacchi (con i vestiti e le cose che i miei famigliari potevano inviarmi). Poi hanno fatto un tribunale speciale per discutere il 41bis.

Il caso Cospito e l’abolizione del 41bis

Il caso Cospito secondo me è una battaglia persa perché è diventato uno strumento di propaganda politica (caso Donzelli).

Il 41bis non lo aboliranno mai, al massimo cambieranno delle minime cose interne per dare il contentino a chi non è d’accordo con questo tipo di regime.

Ad esempio abolendo alcuni divieti che riguardano l’alimentazione e tutti i generi che i detenuti del 41bis per circolare interna non possono avere.

Alla fine di tutto, penso che se il caso Cospito andrà così a fondo da portare il brigante o il politico di turno a entrare nel merito del regime, potrà al massimo “addolcire” internamente i detenuti e aumentare magari i colloqui con gli affetti e queste cose qua.

Per argomentare il suo discorso, C fa riferimento alle parole dell’ex magistrato e presidente della Commissione antimafia Luciano Violante in relazione ai detenuti mafiosi reclusi al 41 bis. Poi, esprime brevemente il suo pensiero riguardo alla mafia in generale e al sistema rieducativo del carcere in Italia, sempre riferendosi alla propria esperienza di vita. 

Io penso seriamente che pure il più spietato dei capi invecchia, dopo 40 anni di detenzione. Violante, che secondo me è un uomo che ha detto sempre la verità, ha affermato che i vecchi devono morire e i giovani devono farsi vecchi in carcere

I mafiosi sono il male dell’Italia, sono d’accordo, stanno bene dove stanno però trattateli da umani. Fateci vedere che lo Stato è meglio di loro. Perché io delinquente che mi alzo la mattina e vado a vendere la droga, vado a fare le estorsioni, sono una persona deviata. Posso essere recuperato o meno, è una scelta che devo fare. Se io mi recupero, devo far vedere agli “ex compagni miei” come sto meglio, spensierato che non ho più tutte le preoccupazioni che hanno loro, non devo più stare sempre attento a guardarmi le spalle per paura che in ogni momento possano uccidermi. Perché quello che fai ti viene fatto, non è che c’è tanta alternativa. 

Nel mio caso, credetemi, io avrei avuto bisogno tanto di educatori o psicologi. Sono sempre stato solo e in ogni colloquio che ho fatto non sono mai stato seguito veramente.

Allora mi sono reso conto che è proprio la struttura che non è fatta per farti recuperare, quindi che lo Stato non ti vuole recuperare. Io oggi sono qui, lo devo dire, per la mia famiglia che mi dà sostegno. Le altre persone come me? Ne conosco molti che hanno perso anche le mogli, perché nessuna donna s’imbarca dentro una storia del genere e se tu le vuoi bene le dici di non venire più a trovarti. Restano abbandonati, dalle famiglie e da chi li dovrebbe aiutare. Non c’è speranza, per questo dico che non ci credo. 

E lo dico io perché so molto bene la fortuna che ho avuto e continuo ad avere.