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L’uomo delinquente di Lombroso

ALESSIA
Da dove nasce l’uomo delinquente e le teorie sulla devianza? Qui osserveremo brevemente come alcuni tratti fisici per Cesare Lombroso, nella seconda metà dell’Ottocento, possano essere spiegazione dei comportamenti violenti di alcuni.

La componente positivistica dell’Ottocento, sotto l’influsso delle teorie darwiniane sull’Evoluzione delle specie, ha prodotto una letteratura che guarda all’uomo nella sua dimensione naturalistica e biologica, all’interno della quale si sono cercate le motivazioni e ragioni profonde delle differenze sociali ed economiche, culturali e comportamentali, osservabili tra gli abitanti del Pianeta. 

Così, insieme all’eugenetica e al darwinismo sociale, si sviluppa il pensiero per cui alcuni tipi di lineamenti o geni potevano condurre un dato individuo alla devianza. Devianza è un termine sintomo dell’incasellamento dei gruppi di persone che vivono all’interno di una società in categorie, per cui il deviato è la falla nel sistema; quella persona che devia dalla norma: il folle, il delinquente o entrambi. Oggi un tale retaggio culturale ci può far credere di riconoscere un delinquente anche solo dai vestiti che indossa. 

Se fossimo Cesare Lombroso, o suoi lettori e sostenitori, dovremmo riuscire a distinguere “l’uomo delinquente nato” dal resto,  attraverso l’osservazione dei medesimi caratteri che ritroviamo negli “uomini selvaggi” e nelle “razze colorate”. 

 

«Tali sarebbero: scarsezza dei peli, poca capacità cranica, fronte sfuggente, seni frontali molto sviluppati; semplicità delle suture, spessore maggiore delle ossa craniche; sviluppo enorme delle mandibole e degli zigomi, prognatismo; obliquità delle orbite, pelle più scura, orecchie voluminose; anomalie dell’orecchio, aumento di volume delle ossa facciali; ottusità tattile e dolorifica; buona acuità visiva, ottusità degli affetti, precocità ai piaceri venerei e al vino; facile superstizione, suscettibilità esagerata del proprio io, e perfino il concetto relativo della divinità e della morale.» (1876. Lombroso)

 

Il dettaglio anatomico particolare, diverso e primitivo rispecchia in qualche modo una propensione al vizio, un’indole suscettibile, credulona, senza ratio né morale. 

La ricerca delle correlazioni tra le caratteristiche fisiche, biologiche, naturali del deviante e il suo comportamento fuori-norma diventa quasi la ragione di vita del Lombroso.

La teoria dominante nella seconda metà dell’Ottocento presupponeva vi fosse, in alcuni soggetti, una recessione evolutiva: con «il termine Atavismo biologico si intende il ritorno alle caratteristiche degli antenati» . L’uomo torna indietro nella scala evolutiva e questo si traduce nel suo essere “animalesco e criminale”. Per gli studiosi del tempo, l’esempio più calzante e allo stesso modo dimostrabile empiricamente, era l’uomo selvaggio delle “razze colorate”. Com’è noto, insieme alle caratteristiche fisiche del pazzo o del criminale, si sono studiate per molto anche quelle degli abitanti delle colonie europee al fine di formulare delle ragioni valide alla bassezza evolutiva di questi ultimi, riscontrabile nei loro usi e costumi “primitivi”. 

Il deviante, che sia esso un folle o un delinquente, ha subito un arresto nel percorso evolutivo. Lombroso tenterà di dimostrare per tutta la sua carriera che il reato in sé non prescinde dalla volontà, bensì dalla peculiare caratteristica del corpo, una falla. 

Come se il corpo, nella sua fisicità, si facesse manifestazione della devianza

 

Dopo aver esaminato oltre duecento crani, Lombroso sostenne che vi fossero due tipologie di individui sottosviluppati: l’uomo alienato, il folle e l’uomo delinquente, il criminale. Quest’ultimo il più patologico del primo. 

Alle critiche rispose smussando gli angoli, complessificando il concetto ontologico dell’uomo delinquente e osservando i fattori sociali, culturali ed economici che determinavano il fenomeno criminale.

L’applicazione di un ragionamento che apparteneva alla dottrina medico-naturalistica a quella antropologica, racchiude quello che è stata la formazione di Cesare Lombroso, in qualche modo riprodotta fedelmente nell’opera: “L’uomo delinquente in rapporto all’antropologia, alla medicina legale ed alle discipline carcerarie” edita nel 1876. 

Così, all’uomo delinquente nato si affiancò  il “delinquente d’abitudine” che a differenza del primo doveva le proprie aspirazioni criminali all’ambiente in cui era cresciuto, alle condizioni culturali ed economiche di degrado. Il percorso del delinquente d’abitudine verso le più vicine somiglianze di quello nato si compiva crimine dopo crimine, giungendo ad uno stadio di depravazione sempre maggiore. Lombroso suddivide i criminali in vere e proprie categorie: delinquenti nati, pazzi morali, epilettici, criminali pazzi, rei per passione, abituali e d’occasione

 

Il pensiero che tutti i criminali possano essere folli, sottosviluppati o degenerati non ha retto per molto, nonostante la forte influenza lombrosiana sullo studio della devianza sia stato fondamentale per la nascita stessa della disciplina criminologica, l’atavismo biologico cade in disgrazia, insieme alle categorie di criminali appena sfiorate.

La sociologia e la criminologia contemporanea riconoscono il carattere estremamente flessibile del concetto di devianza. Come ha recentemente discusso Dal Lago ne “La produzione della devianza. Teoria sociale e meccanismi di controllo.” il termine esprime la contrapposizione tra chi si integra nella società e reagisce positivamente alle regole scritte e non scritte e chi invece queste regole le trasgredisce. 

 

«Ma i confini tra integrazione e devianza non sono quasi mai stabiliti, così che le aree dei comportamenti devianti vengono volta per volta allargate ai confini dell’intera società (come avviene nelle teoria dei conflitti, ad esempio), oppure ristrette a disfunzioni locali o individuali (come nelle teorie funzionaliste)»

Uso o abuso? Gli psicofarmaci in carcere

L’utilizzo quasi regolamentare degli psicofarmaci in carcere è una verità di cui l’opinione pubblica è ormai consapevole, un tema affrontato dai media più volte dal quale emerge una realtà che ci lascia perplessi nella sua apparente immutabilità.

«C’è chi il carcere se lo fa dormendo»

Una frase che ho sentito dire spesso, sia dagli educatori che dalle stesse persone detenute, autori del nostro blog. 

«Una terapia con l’arte, invece che con le pillole!» 

Ha affermato L. durante la presentazione del corso di Arte Terapia che stiamo svolgendo all’interno della Terza Casa Circondariale di Rebibbia

«Questo servirebbe pure a noi, invece che gli pissicofarmarci. Io non li ho mai presi, ma veramente c’è gente che ci campa così dentro» 

Ha sostenuto S., commentando un incontro di antropologia medica, in cui si parlava dell’importanza anche di una carezza in un percorso di cura

 

Queste parole ci esprimono nel modo più semplice e immediato una consapevolezza generalizzata della normalizzazione dello psicofarmaco come strumento per affrontare il dolore del carcere.

Un dolore silenzioso che quasi non si vede e che si preferisce far tacere, ingoiando un antidoto che anestetizza e che insieme alla dipendenza assopisce e rende inermi: deboli di comunicare, scegliere e persino pensare.

Approfittando della recente lettura de “Il carcere invisibile. Etnografia dei saperi medici e psichiatrici nell’arcipelago carcerario.” di Luca Sterchele, ho deciso di dedicare al tema una breve e umile riflessione, allo scopo di portare alla luce una realtà generatrice di disagio che oltre lo sdegno immediato dei molti, ci lascia ancora una volta una sensazione di impotenza.

Quello che viene evidenziato dal sociologo è prima di tutto una diffusa sensazione “di allarme” per cui, in seguito al superamento degli OPG (Ospedali Psichiatrici Giudiziari) con la legge 81 del 2014 e alla conseguente istituzione delle strutture REMS (Residenze per l’Esecuzione della Misura di Sicurezza), sembra esserci nelle carceri italiane un aumento dei detenuti “psichiatrici”. Come se il carcere fosse diventato il nuovo manicomio

Per alcuni, lo stato di allarme risulta essere confermato dall’elevato numero degli psicofarmaci consumati in carcere ma come sottolineato all’interno del testo succitato, l’utilizzo dello psicofarmaco sembrerebbe rientrare anche tra le tecniche di governo del personale penitenziario al fine di tenere la popolazione detenuta in una condizione di calma e tranquillità, per non avere situazioni spiacevoli come reazioni violente o confusionarie. 

La ricerca di Sterchele suggerisce, attraverso la narrazione frutto dell’osservazione partecipante, l’esistenza di una sorta di regolazione interna della prescrizione dei farmaci a fronte della massiccia richiesta da parte dei detenuti. Alla carenza di personale, di spazi e misure per le “persone psichiatriche” recluse all’interno delle varie Case Circondariali italiane, si aggiunge il malessere fisico e psicologico degli stessi detenuti, i quali richiedono appunto qualcosa che “indebolisca” la sofferenza del vissuto ristretto (concernente la sfera relazionale, le vicende giudiziarie che li riguardano o semplicemente gli eventi della vita quotidiana) e di conseguenza le «capacità del soggetto sofferente di far fronte in maniera efficace a queste stesse contingenze».

Sembra che uno dei principali motivi per cui vengono richiesti gli psicofarmaci sia l’insonnia, infatti negli scaffali della farmacia di una delle strutture penitenziarie osservate dal sociologo nel 2018 vi sono principalmente ansiolitici con effetti calmanti: Valium, Xanax, Lormetazepam (Minias), Lorazepam (EM) ecc. Il carcere come luogo insonne è in realtà raccontato anche dai nostri autori che spesso, parlando delle notti in cella, mi hanno confermato che non si dorme

«Ad occhio – spiega la caporeparto al ricercatore – vengono consumati circa 120 flaconi di Diazepam a settimana, e, sempre ad occhio, sui 30/40 di EM. Al momento sono presenti circa 500 detenuti». Oltre questi dati approssimativi, ci si deve rendere conto che la questione psichiatrica in carcere è sicuramente molto più complessa e frammentata di quanto si possa credere. Da un lato, l’assenza di misure effettive per le persone che hanno patologie o che presentano gravi dipendenze dalle droghe già “da fuori”; dall’altro l’abitudine di assopire e rendere più facilmente governabile la popolazione ristretta.

 

Il discorso è senza dubbio da approfondire, oltre che con la lettura del libro qui brevemente illustrato, anche attraverso future narrazioni che tenteremo di formulare soprattutto per quello che concerne una sorta di razzismo patologizzante per cui si tende a prescrivere psicofarmaci più facilmente alle persone straniere recluse, a volte solo a causa di una difficoltà di comunicazione che si traduce in un banale “questi sono tutti matti”.  

ALESSIA