Cooperativa sociale che offre servizi di ascolto, orientamento, formazione, accoglienza rivolti a detenuti/e, ex detenuti/e e persone che vivono in condizione di disagio sociale.

Tag: psicofarmaci

La domandina, il dottor House , il “signor Martini”

La domandina, i diminutivi carcerari e il potere simbolico del linguaggio. Immaginiamoci di esserci appena svegliat3 nella nostra cella per la prima volta: Cosa devo fare? La domandina.
L RACCONTA

Dopo la prima notte, una notte di incubi in cui hai dovuto fare i conti con i fantasmi del tuo inconscio, ti alzi e ti guardi intorno smarrito, poi ti informi col tuo compagno di cella per questa o quella necessità quotidiana. Ti dirà che devi fare una “domandina”, si avete capito bene, domandina, indicando la “stanza di appartenenza” – attenzione – “stanza” e non “cella”. Ovvero quello spazio dove sei ristretto in 6 con accanto pochi altri metri quadri dove si cucina e si defeca anche. 

 

Poi ti chiameranno per una sorta di visita medica . Troverai un dottore accompagnato da un’infermiera ruvida nei modi, con lo stile tipico di un R.S.A., di quelle che si leggono nella cronaca dei giornali. Lui, il dottore, non è esattamente il geniale dottor House della famosa serie televisiva. Poche domande di rito su malattie pregresse e disturbi vari.

Il dottore ti vede ma non ti guarda, ti sente ma non ti ascolta, scrive chino sulla cartella medica , poi si alza, ti chiede di togliere la maglietta, una palpata sullo sterno, pochi secondi e tutto finisce lì. “Stavo mejo prima” direbbero a Roma … 

 

Rientri in cella, “la stanza” per intenderci, e chiedi agli altri come fare per occupare il tempo magari lavorando come “scopino”, fare le pulizie insomma. Ti dicono di fare l’ennesima domandina. Per dirla in breve vivi e subisci tutta una serie di trappole e trappolette cognitive disseminate lungo il tuo percorso detentivo a cominciare dall’uso ridondante di diminutivi linguistici, tanto per citarne un altro lo “spesino”.

 

Mentre cammini in corridoio noti un detenuto vicino di cella che cammina instancabilmente su e giù. Sembra che parli da solo. Qualcuno benevolmente ti fa notare che è il “mattaccino” della sezione. Non si ferma mai, chiede a tutti qualche sigaretta e un po’ di caffè, lo fa continuamente, tutto il giorno. Ha bisogno di aiuto, di un sostegno, ma dovrà fare una domandina pure lui. Gliela facciamo noi, perché non sa scrivere. Sembra quasi il signor Martini di “Qualcuno volò sul nido del cuculo”.

 

Tutto davvero surreale , non c’è un ca**o da ridere, cosa ci faccia qui dentro uno così con il suo disagio mentale non è dato sapere. Si cerca di aiutarlo per quanto possibile anche se è stordito dagli psicofarmaci

 

È il carcere, bellezza. “Situazioni che stancamente si ripetono senza tempo”, direbbe Edoardo Bennato.

 

M49, l’Orso

Uso o abuso? Gli psicofarmaci in carcere

L’utilizzo quasi regolamentare degli psicofarmaci in carcere è una verità di cui l’opinione pubblica è ormai consapevole, un tema affrontato dai media più volte dal quale emerge una realtà che ci lascia perplessi nella sua apparente immutabilità.

«C’è chi il carcere se lo fa dormendo»

Una frase che ho sentito dire spesso, sia dagli educatori che dalle stesse persone detenute, autori del nostro blog. 

«Una terapia con l’arte, invece che con le pillole!» 

Ha affermato L. durante la presentazione del corso di Arte Terapia che stiamo svolgendo all’interno della Terza Casa Circondariale di Rebibbia

«Questo servirebbe pure a noi, invece che gli pissicofarmarci. Io non li ho mai presi, ma veramente c’è gente che ci campa così dentro» 

Ha sostenuto S., commentando un incontro di antropologia medica, in cui si parlava dell’importanza anche di una carezza in un percorso di cura

 

Queste parole ci esprimono nel modo più semplice e immediato una consapevolezza generalizzata della normalizzazione dello psicofarmaco come strumento per affrontare il dolore del carcere.

Un dolore silenzioso che quasi non si vede e che si preferisce far tacere, ingoiando un antidoto che anestetizza e che insieme alla dipendenza assopisce e rende inermi: deboli di comunicare, scegliere e persino pensare.

Approfittando della recente lettura de “Il carcere invisibile. Etnografia dei saperi medici e psichiatrici nell’arcipelago carcerario.” di Luca Sterchele, ho deciso di dedicare al tema una breve e umile riflessione, allo scopo di portare alla luce una realtà generatrice di disagio che oltre lo sdegno immediato dei molti, ci lascia ancora una volta una sensazione di impotenza.

Quello che viene evidenziato dal sociologo è prima di tutto una diffusa sensazione “di allarme” per cui, in seguito al superamento degli OPG (Ospedali Psichiatrici Giudiziari) con la legge 81 del 2014 e alla conseguente istituzione delle strutture REMS (Residenze per l’Esecuzione della Misura di Sicurezza), sembra esserci nelle carceri italiane un aumento dei detenuti “psichiatrici”. Come se il carcere fosse diventato il nuovo manicomio

Per alcuni, lo stato di allarme risulta essere confermato dall’elevato numero degli psicofarmaci consumati in carcere ma come sottolineato all’interno del testo succitato, l’utilizzo dello psicofarmaco sembrerebbe rientrare anche tra le tecniche di governo del personale penitenziario al fine di tenere la popolazione detenuta in una condizione di calma e tranquillità, per non avere situazioni spiacevoli come reazioni violente o confusionarie. 

La ricerca di Sterchele suggerisce, attraverso la narrazione frutto dell’osservazione partecipante, l’esistenza di una sorta di regolazione interna della prescrizione dei farmaci a fronte della massiccia richiesta da parte dei detenuti. Alla carenza di personale, di spazi e misure per le “persone psichiatriche” recluse all’interno delle varie Case Circondariali italiane, si aggiunge il malessere fisico e psicologico degli stessi detenuti, i quali richiedono appunto qualcosa che “indebolisca” la sofferenza del vissuto ristretto (concernente la sfera relazionale, le vicende giudiziarie che li riguardano o semplicemente gli eventi della vita quotidiana) e di conseguenza le «capacità del soggetto sofferente di far fronte in maniera efficace a queste stesse contingenze».

Sembra che uno dei principali motivi per cui vengono richiesti gli psicofarmaci sia l’insonnia, infatti negli scaffali della farmacia di una delle strutture penitenziarie osservate dal sociologo nel 2018 vi sono principalmente ansiolitici con effetti calmanti: Valium, Xanax, Lormetazepam (Minias), Lorazepam (EM) ecc. Il carcere come luogo insonne è in realtà raccontato anche dai nostri autori che spesso, parlando delle notti in cella, mi hanno confermato che non si dorme

«Ad occhio – spiega la caporeparto al ricercatore – vengono consumati circa 120 flaconi di Diazepam a settimana, e, sempre ad occhio, sui 30/40 di EM. Al momento sono presenti circa 500 detenuti». Oltre questi dati approssimativi, ci si deve rendere conto che la questione psichiatrica in carcere è sicuramente molto più complessa e frammentata di quanto si possa credere. Da un lato, l’assenza di misure effettive per le persone che hanno patologie o che presentano gravi dipendenze dalle droghe già “da fuori”; dall’altro l’abitudine di assopire e rendere più facilmente governabile la popolazione ristretta.

 

Il discorso è senza dubbio da approfondire, oltre che con la lettura del libro qui brevemente illustrato, anche attraverso future narrazioni che tenteremo di formulare soprattutto per quello che concerne una sorta di razzismo patologizzante per cui si tende a prescrivere psicofarmaci più facilmente alle persone straniere recluse, a volte solo a causa di una difficoltà di comunicazione che si traduce in un banale “questi sono tutti matti”.  

ALESSIA