Alessia

Oggi entro in carcere, mi sveglio con la nausea come quando ho un esame. 

Ho l’ansia, è chiaro. Sarò in grado? 

Gli operatori della cooperativa ci illustrano le regole dell’abitare lo spazio del carcere e della relazione con le persone ristrette e gli agenti. Tutto quello che si osserva, si ascolta e accade deve essere considerato in base al contesto. Ognuno sì, ha una sua storia di vita ma una traccia comune esiste: sono tutti uomini privati della propria libertà.

 

Arriviamo. Noto subito il filo spinato e mi chiedo come non si possa pensare ai campi di concentramento. Due cartoncini appesi dicono “Non è una discarica”, sorrido consapevole del triste destino dell’ecosistema e di come il termine discarica associato al carcere possa calzare; sembrano scritte “di protesta” che non si limitano soltanto ad evidenziare la mancanza di un’educazione al rispetto dell’ambiente della gente oltre la rete.

 

Il muro grigio mi ricorda il Carcere di *** dove sono stata “in visita” con la scuola al liceo.  Sono pronta. Giriamo con la macchina per vedere le altre sezioni da fuori, è immenso.

Poi andiamo verso la sezione del carcere dove dobbiamo entrare: il cancello rosso mette tranquillità, quasi non sembra un carcere e fuori c’è anche un bar dove prendiamo il caffè.

Di fronte all’alto cancello penso “e mo’ come entriamo?” 

Giustamente c’è un citofono, la voce che risponde a Francesco è severa, autoritaria, quasi scocciata. 

A: “Sì?”

F: “Siamo della cooperativa PID”

A: “Entrate”

Si apre la porticina del grande cancello e all’ingresso c’è una sorta di portineria dove si trova l’agente che ci ha aperto.

Mi stampo un sorriso sulla faccia e consegniamo i documenti, dopo esser stati controllati, passiamo sotto il metal detector, apriamo un’altra porta – penso “quante porte!” –  e ci ritroviamo in un cortile che sembra quello di un palazzo: c’è anche un piccolo laghetto con dei pesci che per la scarsità dell’acqua fanno fatica a nuotare (sembra una pozzanghera) e due gatti che dormono al sole accanto al laghetto-pozzanghera. Entriamo, l’ambiente sembra accogliente nonostante le sbarre siano la prima cosa che saltano all’occhio, rosse.

 

Seguiamo Livia e Francesco lungo un corridoio verso l’ufficio dell’educatrice. 

Dall’altoparlante, la voce esce robotizzata ed è alienante, io devo concentrarmi molto per capire cosa dice: “Tutti giù, corso di Arte terapia al teatro”. 

Le sbarre si aprono automaticamente, passiamo velocemente attraverso due “cancelli” e noto subito gli oggetti nel sottoscala: giornali, giochi da bambini e anche biciclette. Francesco mi dice “Per i colloqui con i figli”. 

 

Con l’educatrice arriviamo nella stanza adibita a teatro, qui è dove faremo il corso. Io e Monica iniziamo a sistemare le sedie in cerchio , poi arriva qualche persona che si presenta e viene ad aiutarci. La stanza è bianca con dei disegni sulle pareti, sul palchetto ci sono ancora materiali scenografici di uno spettacolo appena passato, una barca di cartone. 

Ma non c’è la luce del sole, sulla finestra è attaccato una sorta di quadrato nero. 

Non ne riesco a capire il motivo.

Ci sediamo e iniziamo a dialogare in modo amichevole con le persone presenti per la presentazione del corso al quale poi hanno deciso di partecipare. Quando arrivano tutti Monica ci guarda e ci dice “ci presentiamo? Facciamo un giro dei nomi?”.

 

Mentre Monica spiega il corso, io osservo: guardo lei e gli altri; chi ascolta attentamente, chi sembra stia dormendo; chi è seduto scomposto, chi si guarda le scarpe; chi si guarda intorno, od osserva noi.

Le parole “Arte terapia” incuriosiscono. Ad alcuni fanno pensare alle “goccette”. 

 

Dopo poco andiamo via: ci rivediamo mercoledì, dopo che avranno fatto la domandina per accedere al corso. 

Il fatto che il cancello si apre non appena siamo di fronte ad esso, prima che qualcuno di noi chiami l’agente, mi ricorda di essere costantemente osservata. Ovvio, siamo in carcere.