Cooperativa sociale che offre servizi di ascolto, orientamento, formazione, accoglienza rivolti a detenuti/e, ex detenuti/e e persone che vivono in condizione di disagio sociale.

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L’arte terapia negli istituti penitenziari: l’espressione creativa come mezzo di libertà

MATTEO

L’arte terapia nasce come disciplina nel corso del XX secolo, in particolare negli anni ’40 e ’50. Viene attribuita principalmente a due figure fondamentali: Adrian Hill e Margaret Naumburg .


Adrian Hill, un pittore britannico, è considerato uno dei pionieri dell’arte terapia. Durante la sua esperienza in un sanatorio per tubercolosi, Hill notò come il disegno e la pittura lo aiutassero a superare la malattia e a gestire il dolore e lo stress emotivo.

Attraverso il suo lavoro, Margaret Naumburg, una psicoanalista statunitense cercò di integrare il processo creativo con la psicoanalisi, permettendo ai pazienti di esprimere i loro conflitti interiori attraverso l’arte. Nel 1943, fondò la Walden School di New York, una scuola che integrava l’arte terapia nell’educazione dei bambini.

Negli anni successivi, l’arte terapia ha continuato a evolversi come disciplina, con il contributo di molti altri professionisti nel campo della psicologia, della psicoterapia e delle arti creative.

Oggi, l’arte terapia è riconosciuta come un approccio terapeutico valido e viene utilizzata in una vasta gamma di contesti clinici, inclusi gli istituti penitenziari, per promuovere l’empowerment personale e il benessere emotivo.

Cos’è l’Arte Terapia?

L’arte terapia è una forma di terapia che utilizza l’espressione artistica come mezzo di comunicazione e di guarigione. Attraverso vari mezzi espressivi come la pittura, il disegno, la scultura e l’artigianato, gli individui possono esplorare e rielaborare i propri sentimenti, pensieri ed esperienze attraverso il canale non verbale. Si viene a creare uno spazio sicuro e creativo in cui le persone possono esprimere se stesse liberamente, promuovendo l’autoriflessione e la relazione d’aiuto.

Le artiterapie negli Istituti Penitenziari:

Negli istituti penitenziari, i laboratori di artiterapie offrono una via percorribile per superare le difficoltà e le sfide emotive associate alla vita in detenzione. I detenuti possono sperimentare sensazioni di isolamento, rabbia, frustrazione e persino disperazione. Le arti terapie forniscono loro uno spazio dove possono liberare queste emozioni e cambiare il punto di vista da cui guardare, anche in un penitenziario.


L’arte terapia negli istituti penitenziari mira a migliorare il benessere emotivo dei detenuti, a riscoprire la propria identità e le proprie risorse. L’Arteterapia promuove la riabilitazione e la reintegrazione nella società. Attraverso l’espressione creativa, i detenuti possono sviluppare una maggiore consapevolezza di sé, una migliore gestione delle emozioni e una prospettiva positiva sul loro futuro.

 

In conclusione, l’arte terapia negli istituti penitenziari offre ai detenuti la possibilità di esplorare la loro creatività, trovare un canale emotivo innovativo e sviluppare competenze personali significative. Attraverso questa forma di terapia, i detenuti possono intraprendere un percorso trasformativo capace di aprire le porte alla riscoperta di sè, all’autostima, e al reinserimento sociale. Le arti terapie dimostrano come l’espressione artistico-creativa possa far contattare quel senso di libertà anche in una condizione di mancata libertà, come quella detentiva.

Cancelli rossi – Primi passi in carcere

Alessia

Oggi entro in carcere, mi sveglio con la nausea come quando ho un esame. 

Ho l’ansia, è chiaro. Sarò in grado? 

Gli operatori della cooperativa ci illustrano le regole dell’abitare lo spazio del carcere e della relazione con le persone ristrette e gli agenti. Tutto quello che si osserva, si ascolta e accade deve essere considerato in base al contesto. Ognuno sì, ha una sua storia di vita ma una traccia comune esiste: sono tutti uomini privati della propria libertà.

 

Arriviamo. Noto subito il filo spinato e mi chiedo come non si possa pensare ai campi di concentramento. Due cartoncini appesi dicono “Non è una discarica”, sorrido consapevole del triste destino dell’ecosistema e di come il termine discarica associato al carcere possa calzare; sembrano scritte “di protesta” che non si limitano soltanto ad evidenziare la mancanza di un’educazione al rispetto dell’ambiente della gente oltre la rete.

 

Il muro grigio mi ricorda il Carcere di *** dove sono stata “in visita” con la scuola al liceo.  Sono pronta. Giriamo con la macchina per vedere le altre sezioni da fuori, è immenso.

Poi andiamo verso la sezione del carcere dove dobbiamo entrare: il cancello rosso mette tranquillità, quasi non sembra un carcere e fuori c’è anche un bar dove prendiamo il caffè.

Di fronte all’alto cancello penso “e mo’ come entriamo?” 

Giustamente c’è un citofono, la voce che risponde a Francesco è severa, autoritaria, quasi scocciata. 

A: “Sì?”

F: “Siamo della cooperativa PID”

A: “Entrate”

Si apre la porticina del grande cancello e all’ingresso c’è una sorta di portineria dove si trova l’agente che ci ha aperto.

Mi stampo un sorriso sulla faccia e consegniamo i documenti, dopo esser stati controllati, passiamo sotto il metal detector, apriamo un’altra porta – penso “quante porte!” –  e ci ritroviamo in un cortile che sembra quello di un palazzo: c’è anche un piccolo laghetto con dei pesci che per la scarsità dell’acqua fanno fatica a nuotare (sembra una pozzanghera) e due gatti che dormono al sole accanto al laghetto-pozzanghera. Entriamo, l’ambiente sembra accogliente nonostante le sbarre siano la prima cosa che saltano all’occhio, rosse.

 

Seguiamo Livia e Francesco lungo un corridoio verso l’ufficio dell’educatrice. 

Dall’altoparlante, la voce esce robotizzata ed è alienante, io devo concentrarmi molto per capire cosa dice: “Tutti giù, corso di Arte terapia al teatro”. 

Le sbarre si aprono automaticamente, passiamo velocemente attraverso due “cancelli” e noto subito gli oggetti nel sottoscala: giornali, giochi da bambini e anche biciclette. Francesco mi dice “Per i colloqui con i figli”. 

 

Con l’educatrice arriviamo nella stanza adibita a teatro, qui è dove faremo il corso. Io e Monica iniziamo a sistemare le sedie in cerchio , poi arriva qualche persona che si presenta e viene ad aiutarci. La stanza è bianca con dei disegni sulle pareti, sul palchetto ci sono ancora materiali scenografici di uno spettacolo appena passato, una barca di cartone. 

Ma non c’è la luce del sole, sulla finestra è attaccato una sorta di quadrato nero. 

Non ne riesco a capire il motivo.

Ci sediamo e iniziamo a dialogare in modo amichevole con le persone presenti per la presentazione del corso al quale poi hanno deciso di partecipare. Quando arrivano tutti Monica ci guarda e ci dice “ci presentiamo? Facciamo un giro dei nomi?”.

 

Mentre Monica spiega il corso, io osservo: guardo lei e gli altri; chi ascolta attentamente, chi sembra stia dormendo; chi è seduto scomposto, chi si guarda le scarpe; chi si guarda intorno, od osserva noi.

Le parole “Arte terapia” incuriosiscono. Ad alcuni fanno pensare alle “goccette”. 

 

Dopo poco andiamo via: ci rivediamo mercoledì, dopo che avranno fatto la domandina per accedere al corso. 

Il fatto che il cancello si apre non appena siamo di fronte ad esso, prima che qualcuno di noi chiami l’agente, mi ricorda di essere costantemente osservata. Ovvio, siamo in carcere.