Cooperativa sociale che offre servizi di ascolto, orientamento, formazione, accoglienza rivolti a detenuti/e, ex detenuti/e e persone che vivono in condizione di disagio sociale.

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Ottava – ricordi di un’operatrice in carcere

Ormai più di 15 anni fa Laura entrava in carcere come operatrice e come donna in una delle sezioni più difficili da affrontare, contenitrice delle persone che avevano commesso reati di violenza sessuale e di pedofilia, o di chi dopo aver collaborato con le forze dell’ordine doveva essere protetto dal resto della popolazione detenuta. Le sue parole quantomai attuali ci fanno ragionare su questioni fondamentali. La prima che emerge è proprio il ruolo di educatorɜ, volontarɜ, operatorɜ in carcere, del peso che portano con loro, tutte le “strategie” necessarie per poter spogliarsi di ogni tipo di pregiudizio di fronte a una persona detenuta e non restare risucchiatɜ dall’istituzione carceraria. Sono le esperienze del contatto con le persone che erano dentro per reati di violenza sessuale a raccontarci ancora una volta quello di cui poi non si smetterà di parlare e che si radica nel nostro contemporaneo da un tempo quasi inquantificabile: la violenza strutturale sul corpo delle donne. 

LAURA, 4-03-2009

Infondo al corridoio, seconda rotonda subito a sinistra. 

Cammino con calma Il corridoio è lungo e gelido, e la temperatura è sempre, misteriosamente più fredda di quella esterna, il pavimento è oleoso che quasi ci si pattina, doppia rampa di scale. Io salgo sempre quella di destra dove il primo gradino è rotto, non c’è un motivo forse un po’ per abitudine o per cercare quella sicurezza sciocca che solo le abitudini sanno dare, quella sicurezza che fuggo all’esterno, perché le abitudini sono delle bestie, e per quanto spesso le preferisca all’uomo per la loro sincerità, ritengo che immobilizzarsi in esse non ci renda liberi di crescere.

 

Ma come poter parlare di libertà in un luogo simile?

E allora come bestia ripeto sempre lo stesso rituale. 

Alla fine del corridoio seconda rotonda a sinistra, Ottava sezione.

 

Quello dell’ottava è l’unico portone d’ingresso di tutti i “bracci”, dai  quali vetri non si vede attraverso. Devo dire che è la sezione in cui vado maggiormente mal volentieri,  sempre prima di entrare faccio un grande respiro, come quelli che si fanno in mare prima di andare giù in apnea, e indosso il migliore tra i miei sguardi di repertorio seri e duri.

L’ottava è strana, al momento dell’ingresso ho sempre la stessa sensazione, come di stare entrando in un manicomio. I muri sono bianchi, tutto è molto bianco, la sezione è quella che riceve in assoluto il minor numero di visite dal mondo esterno civile laico e cattolico. Gli ospiti mi sembrano avere spesso tutti sguardi vuoti e tondi, anche se non è così, e aspettano sempre

 

Il corridoio principale è spesso vuoto, al contrario delle sezioni comuni, per ognuna delle quali ho costruito un’immagine che la contenga. Per poter lavorare e vivere in carcere credo che le persone creino dentro di sé delle strategie per poter sopravvivere

Io personalmente mi creo una barriera difensiva che impedisca alla struttura architettonica, a quella gerarchica e al concetto di chiusura, di farsi spazio ed annidarsi dentro di me, una strategia che faccia sì che non venga interiorizzata la mentalità carceraria. E poiché ragiono molto per immagini e riesco a costruire in me dei contenitori per esse, tutto ciò che vedo,  anche le persone, vivono attraverso il filtro della mia immaginazione. 

 

Questa è una sezione molto particolare, è quella deputata ad accogliere le persone che hanno commesso reati di violenza, di pedofilia e i cosidetti “infami”, ovvero chi fa nomi, cioè “se la canta” non attenendosi al codice che vige tra i galeotti. Il carcere è un micro universo e come tale ha le sue regole, e il disprezzo comune verso chi usa violenza sulle donne e sui minori, è l’unico spazio all’interno del quale si trovano uniti guardie e detenuti. In ottava l’unico a non fare differenze è dio, che attraverso il volontariato cattolico porta conforto a queste “anime perse”. Dovrei dire che forse è uno dei pochi posti dove non fa differenze. 

Io non vivo attraverso una caritatevole ed imparziale morale cattolica,  per cui sono costretta a scindermi tra l’operatrice che offre lo stesso servizio a tutti e la donna che fermamente ama prendere posizione. Quello che mi sono costretta a fare è stato separarmi da un giudizio a priori  dove non c’è spazio per l’errore della legge, che non  è quasi mai giusta, ma mantenere uno spazio solo mio in cui osservo, studio, immagino, ascolto.

 

 Mi siedo nella stanzetta bianca l’agente chiama le persone che hanno fatto domandina. L’operatrice svolge impeccabilmente il suo lavoro, cercando di non entrare nei dettagli, ma tutti hanno un gran bisogno di dire come sono andate effettivamente le cose benché io insista che non importa, che noi parliamo allo stesso modo con tutti. Ma il marchio di stupratore è un pesante fardello da portare. Tutti vogliono convincermi della loro innocenza neanche fossi il giudice. Ed è così che mi trovo a  parlare perlopiù con persone comuni spesso benestanti  a cui non manca nulla, vittime della “follia” del momento – o più propriamente di un sistema culturale che inietta loro fin da subito una mentalità patriarcale e violenta – o assolutamente innocenti, e a viaggiare tra stanze d’albergo, B&B, capannoni dove si consumano i delitti. Sono vittime di false denunce, di ricatti…. Donne che si puliscono dallo sperma apposta con i propri abiti per poi poter ricattare, donne che affrontano quella che viene vissuta come la vergogna di aver subito una violenza, trafile burocratiche, esami del DNA, interrogatori spese legali per una ripicca, per ricattare. Per cosa? Quante volte effettivamente può presentarsi una situazione del genere? Non lo so ma conservo i  miei dubbi.

Capita in questi colloqui che sia il concetto di violenza ad essere messo in discussione, violenza può essere qualsiasi contatto… la violenza non esiste. Qualcuno racconta di non aver violentato nessuno, semplicemente di essere andato con una prostituta senza poi pagare: non è violenza, perché si tratta di una puttana. E se non si tratta in termini pratici di una prostituta, è sempre così che si rivolgono alla donna, come a una cosa. E attraverso i volti e le parole io non vedo le persone che mi parlano, non raccolgo  disgusto verso il singolo, proprio non mi viene, ma dall’interno del carcere, prendo tutto questo come un plastico, una miniatura, e lo riporto fuori. Io vedo una identica società ricostruita in piccolo, un’identica  ignoranza che accomuna poveri e ricchi. Lo stesso meccanismo di scuse e omertà che copre le migliaia di stupri che avvengono nelle famiglie, dentro le case coperti dal perbenismo borghese.  Continuo a vedere una società che porta alta la bandiera dell’uguaglianza, delle pari opportunità che si basa su uno sviluppo orizzontale e superficiale  che non si guarda mai indietro, che non va in profondità, che lavora per i diritti di tutti ma non insegna, non dà strumenti alle persone per poter capire davvero, che non l’ha mai fatto se ancora  adesso la gente ragiona così.  Una società che prevede che il  corpo sia uno strumento politico legato alla sua utilizzazione economica. 

E nessun corpo più di quello femminile è stato assoggettato a strumento economico, la società se ne impadronisce attraverso una falsa emancipazione che ci rende ancora più schiave, ancora più macchine, ancora più assoggettate ad un controllo maschile. Impedisce di fare figli per un culto del corpo o perché è riuscita a convincere che la realizzazione è esclusivamente quella lavorativa, dunque personale e quindi economica, negando uno spazio creativo che ognuna ha il diritto di scegliere, ed imponendone uno restrittivo all’interno di un’immagine. Una società che ugualmente ti penalizza se invece i figli li vuoi fare, perché non sei più una bestia produttiva, una società che ha costruito un concetto di famiglia  dove la prima cosa, la base è la stabilità economica e la ricchezza, rendendoci ignoranti al fatto  che “la ricchezza impone un più accentuato controllo sociale” .

Si mette in prima pagina un mostro si “punisce uno per educarne cento”, si fanno scivolare nel dimenticatoio gli stupri compiuti “dai quei bravi ragazzi” di buona famiglia, continuando silenziosamente a colludere con tutte le centinaia di violenze che avvengono dentro le sicure mura domestiche, ma infondo lontano dagli occhi…

Donazione assorbenti per il carcere: cosa può significare il rifiuto di un dono da parte di un’istituzione?

ALESSIA

Riflessioni antropologiche sulla categoria del dono nello specifico contesto ristretto del carcere

Scrivo, per i meno avvezzi a quella disciplina semi-sconosciuta che sembra spesso inafferrabile, una parentesi introduttiva sull’antropologia, o perlomeno dello sguardo antropologico che qui intendo assumere. 

Molto si è abusato di questa parola evocativa dell’essere umano, nel suo essere-predicato umano-complemento oggetto. Agentività generativa, la cosiddetta agency dell’individuo: quella capacità tutta umana di esserci nel mondo e di crescere, costruire, parlare, adottare sistemi per relazionarsi, concetti, rapporti, regole, contratti, corpi, poteri, parole; e a quel punto dare loro  significati. 

Alessandro Lupodocente di antropologia alla Sapienza e Presidente della Società Italiana dell’Antropologia Medica (SIAM) – ha detto che l’antropologia è la disciplina del contesto. 

Ogni comunità umana ha una propria specifica cultura e all’interno di essa agiscono, come in un campo di forze, tutte le realtà contestuali che ne fanno parte. Un’antropologa o un antropologo inizia a inseguire, a osservare, ad ascoltare con le mani e a pori aperti le tracce lasciate per tentare un’interpretazione dei significati che hanno intrecciato questa rete, per usare (sicuramente male) le parole di  Clifford Geertz.  

***Ci giro intorno perché dovete sapere che gli antropologi e le antropologhe, per loro tensione  “professionale” a criticare, si criticano di continuo. Interi concetti sono nati così, in dispute generative. Per cui anche dare la propria interpretazione diventa un posizionamento potenzialmente critico.

Quindi forse, la cosa migliore che posso fare è riportare le parole di Jean-Loup Amselle in “Connessioni. Antropologia dell’universalità delle culture”:

«Tradizionalmente, com’è noto, l’antropologia ha identificato il suo oggetto con lo studio delle società primitive o esotiche, anche se, da molto tempo, le si affida anche la descrizione di alcuni settori della nostra società, come l’analisi della stregoneria nelle società contadine, quella delle minoranze etniche, nonché la microanalisi della vita delle istituzioni». 

Mi si potrebbe chiedere, se l’antropologia studia i diversi contesti culturali, cosa sto cercando di indagare? Perché assumere uno sguardo antropologico sulle donazioni degli assorbenti alle persone detenute?

Sono principalmente due i soggetti di questa riflessione, il dono da un lato, l’istituzione carcere, dall’altro; entrambe coinvolte nel caso della donazione di assorbenti organizzata dalla Cooperativa PID Onlus ormai da tre anni. Si rifletterà, nei termini della costruzione di una relazione, cosa può significare donare assorbenti alle persone detenute, cosa si percepisce nel ricevere e cosa infine comporta rifiutare di ricevere.  

Il dono – la donazione 

L’antropologia economica si è a lungo soffermata su questa categoria opaca del dono, leggendo e rileggendo il magistrale saggio maussiano, Essais sur le don (1923-1924). 

Marcel Mauss definisce il dono come un fatto sociale totale: pervasivo di tutti gli aspetti costitutivi di una società di individui, da quelli giuridici a quelli religiosi, passando per quelli più strettamente economici e non solo. Determinante le relazioni tra persone, lo scambio di doni può essere descritto attraverso la dialettica del dare-ricevere-ricambiare. Pensiamo a quando, senza uno specifico motivo, una persona che è apparsa da poco nella nostra vita e con la quale non si è ancora in rapporto di amicizia, ci offre un caffè o ci regala una collanina. Come ci sentiamo in rapporto a questo gesto? Oltre alla gioia del ricevere, potremmo provare un po’ di imbarazzo, come se fossimo stati esposti alla terribile condizione di debito nei confronti del donatore. Stiamo sperimentando in quel momento la terza fase della dialettica del dono: quella dell’obbligo di ricambiare

Nel momento in cui, incontreremo nuovamente la persona che ci ha offerto un caffè in precedenza, faremo in modo di ricambiare con un altro caffè, sentendoci quasi sollevati da un peso; il peso dello squilibrio tra le parti all’interno di un potenziale legame sociale.

Ora, per non far aggrottare la fronte dei miei amici che contestano ogni volta questo discorso affermando con fierezza  il loro completo  disinteresse nel fare regali, è chiaro che esistono diversi tipi di doni, potremmo dire che ne esistono tante quante sono le relazioni sociali. Qui non abbiamo lo spazio necessario per approfondirli tutti, per cui ci occuperemo solo di definire la ragione – individuata da Mauss – che spinge il ricevente a ricambiare il dono ricevuto

Mauss, osserva questo movimento del dare-ricevere-ricambiare messo in atto nella cerimonia-rituale del potlàc. Principalmente adottato tra le popolazioni Kwakiutl, Haida e Tinglit, il potlàc è un rituale la cui essenza è proprio l’obbligo di dare. Durante i mesi invernali, un capo deve dare dei potlàc: invitare altre tribù o clan alla festa in cui si pratica questo gioco dei doni e donando tutto quello che è riuscito ad accumulare, oltre a redistribuire le ricchezze, assicura la garanzia del proprio prestigio, del proprio rango, della propria persona. Dall’altra parte, chi riceve l’invito alla festa kwakiutl è a sua volta obbligato ad accettare, perché altrimenti si ammetterebbe una sconfitta in partenza: si ammetterebbe cioè la paura di dover ricambiare. All’estremo opposto del darsi per vinti, il rifiuto del potlàc di un altro può significare dichiararsi invincibili. E questo, comporta in genere un conflitto tra le parti. Di regola però, i doni si accettano:

«Bisogna apprezzare ad alta voce il cibo preparato per voi. Ma, accettandolo, si sa bene di rimanere impegnati.» – Il saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche. 

L’impegno che si assume è quello di ricambiare, in eguale o maggiore misura di quanto si è ricevuto, pena non solo la “perdita della faccia” ma anche lo status di schiavo per debito.

In questo quadro, la donazione di assorbenti alle persone detenute all’interno di un penitenziario italiano, è in qualche modo ascrivibile a un dono che – passando da fuori a dentro – connette una parte della società “libera” (la Cooperativa, le persone e le associazioni del terzo settore che hanno aderito all’iniziativa) con una parte della società reclusa (le persone con utero beneficiare degli assorbenti). Ma non è proprio così, perché alle persone ristrette in carcere non è dato il diritto di accettare il dono e in alcuni casi, neanche di riceverlo. A rispondere per loro, saranno i “capi”: quelle soggettività che assumono i ruoli di detentori di un certo potere all’interno di un’istituzione. Sono l’interfaccia con cui ci si relaziona prima di oltrepassare fisicamente i cancelli del carcere (in veste di volontari, operatori ecc.) e come in questo caso, prima di far passare scatole di oggetti di necessità primaria.  

Probabilmente è ancora poco chiaro cosa ci sia alla base del sentire l’obbligo di ricambiare, Mauss ha parlato dello spirito delle cose, riferendosi più nello specifico a quegli oggetti “sacri”, quelli che potremmo definire inalienabili, i quali contengono, ricordano e trasmettono l’anima del proprietario. Come l’anello della nonna che passa di madre in figlia, tutti quegli oggetti intrisi degli spiriti dei donatori fanno sì che il loro valore sia superiore a qualsiasi quantitativo in denaro. 

«Ti dirò di più che quando venivano co’ i carrelli perché *** aveva mandato che ne so, du’ pacchetti de caffè co’ i biscotti (i biscotti quelli non ce stanno, tipo batticuore, pandistelle…) c’era una felicità immensa che sembra che chissà che cosa hanno avuto. C’è una gioia veramente nel cuore. Te portano tante cose, anche i reggiseni, magari so ‘ncolore differente ma il modello è quello. Le pantofole che io ancora ho de *** è ‘na gioia immensa… “A te de che colore te l’hanno dato?”… Chi se li scambia… Addirittura tanti fanno i pacchi, li mandano in uscita per i propri parenti, per i nipoti, per i figli. Hanno portato, mi ricordo, le magliette della Lazio, della Roma… le tute quelle svasate fatte a campana. […] Tutte contente, tutte entusiaste, quindi sposano bene l’idea. Non se sentono abbandonate, dice “ah menomale c’è qualcuno che ce pensa.” E quindi son contenti di questo.» – Intervista a Rosaria, qui per leggerne di più. 

Dalle parole di Rosaria, una signora che ho avuto modo di conoscere per una breve chiacchierata sull’esperienza delle mestruazioni in carcere lo scorso mese, emerge qualcosa di quel “potere” – passatemi il termine – interno alla cosa donata. Che sia un pigiama, una ciabatta o un pacco di assorbenti, ciò che arriva prepotente dentro è una porzione del fuori, è qualcosa che dice alle persone detenute che non sono state dimenticate né abbandonate. 

Un legame, non tanto con persone singole, piuttosto con una collettività rappresentativa della società “civile”. Di quel rapporto è privata la popolazione detenuta alla quale è negato il diritto di ricevere una donazione di assorbenti. Una relazione che con una semplice donazione potrebbe muovere i primi passi per qualcosa di più grande, di più coinvolgente e duraturo. Per fare solo un esempio, pensiamo ai laboratori organizzati dalla Cooperativa PID Onlus, promossi dal progetto Assorbire il cambiamento, inserito nel più ampio POSTER, coordinato da Aidos. 

L’esigenza degli assorbenti per il carcere

«Innanzitutto funziona che quando entri in carcere ti viene data una tra virgolette “dotazione” perché ti assegnano una cella, un letto se la cella è per più persone… La dotazione sono le lenzuola, una specie di asciugamano, un asciughino per i piatti, bicchieri e posate di plastica e una saponetta e poi non è detto che te li diano all’inizio ma comunque puoi chiedere un pacco di assorbenti al mese. Ok? […] Ovviamente sono indecenti come assorbenti, come qualità e soprattutto sono pochi. […] Sono cose di quelle tipo materassino, magari stretti e lunghi comunque non si trovano in commercio… Sono quelle sottomarche che magari possono andare a finire non so dove ma sicuramente c’hanno dei fornitori che producono proprio per il carcere insomma. Anche se sono diversi… i pacchetti non sono sempre uguali, no? E quelli si riforniscono… E quello te ne spetta solo uno. […] Un pacchetto standard che ti deve durare. Chiaramente il problema sta nel fatto che quasi tutto quello che ti danno loro non ti può bastare. No? Una saponetta non ti può bastare un mese. Una spugnetta, pe ditte, una spugnetta dei piatti magari un mese non basta perché quelle spugnettine tipo per pulire si sbriciolano no?Poi se vanno a contatto con la varechina è finita, so’ morte subito, istantaneamente. Quindi lì il problema… In carcere è sempre un problema di status economico, se c’hai chi ti può dare i soldi da fuori puoi comprarti, che ne so, il bagnoschiuma, lo shampoo…» – Intervista a Maria, qui per leggerne di più.

Nel 2022 e nel 2023, la Cooperativa PID Onlus ha organizzato una campagna di raccolta assorbenti per le persone detenute all’interno degli istituti di pena femminili. L’istituzione carcere può essere vista un po’ come lo specchio della società “legittima” quando si parla di gender gap e non solo. Non è un segreto, molti ne hanno parlato in questi tempi: il penitenziario è un sistema “pensato al maschile” ma che ha tentato, attraverso vari regolamenti nel tempo, di smussare gli angoli in favore delle identità femminili presenti al proprio interno.

«Il bidet, previsto esplicitamente dal regolamento del 2000 i reparti femminili, è garantito solo nel 66% degli istituti dove sono ospitate donne» – Primo rapporto sulle donne detenute in Italia, L’Osservatorio di Antigone nelle sezioni femminili d’Italia (2023)

Tra gli standard internazionali delle Regole delle Nazioni Unite per il trattamento delle donne detenute e le misure non detentive per le donne autrici di reato (Regole di Bangkok, luglio 2010) sono presenti indicazioni anche riguardo l’igiene e la distribuzione gratuita degli assorbenti che non sono tradotte nella legislazione italiana. 

Così, andando incontro a questa esigenza, la Cooperativa PID da marzo a maggio 2024 ha proposto un’iniziativa che prevede, oltre alla raccolta in sé delle azioni di sensibilizzazione e informazione sul tema del ciclo mestruale in carcere. 

«Tra le attività promosse, oltre alla donazione di assorbenti, sono previsti laboratori e incontri all’interno di Istituti femminili per promuovere maggiore consapevolezza sulle tematiche riguardanti il ciclo mestruale e la conoscenza dei “nuovi” prodotti igienico sanitari più ecologici quali coppetta, slip e mutande assorbenti. Il progetto ha lo scopo di portare un beneficio concreto alle persone recluse grazie alla donazione di materiali sanitari, di accendere l’attenzione della società, delle istituzioni e della cittadinanza sulla condizione delle donne recluse, nonché di raggiungere un cambiamento sistemico della questione affrontata.» – Dal comunicato stampa 8 marzo 2024

Alla fine della raccolta, prevista per il 23 maggio, le operatrici e gli operatori del PID Onlus hanno contato più di 2000 assorbenti da destinare agli istituti penitenziari laziali e alle strutture di accoglienza per persone detenute ed ex detenute che hanno aderito:

  • Istituto penitenziario di Civitavecchia;
  • Struttura di accoglienza per persone detenute ed ex detenute Casa Teseo;
  • Casa di Leda;
  • Casa famiglia dell’Associazione di volontariato Ain Karim.

Confrontandoci tra di noi, non possiamo che dirci soddisfatti del lavoro di condivisione svolto fino a oggi. Siamo felici soprattutto di aver allargato il discorso sulle mestruazioni ristrette anche a chi, pur mantenendo la propria opinione sui carcerati, non ha nascosto il proprio stupore nei confronti di una mancanza così importante per la vita quotidiana delle donne

Le perplessità interne sono state relative alla non completa disponibilità a ricevere la donazione, soprattutto in seguito alle testimonianze delle persone che, da poco uscite, raccontano della sentita necessità di beni primari che non sono accessibili per tutte e tutti.

La risposta disillusa di Sonia “è tutto business” alla nostra domanda “secondo te perché non tutti accettano le donazioni?”, ci fa ragionare. Abbiamo tentato di inquadrare la questione nella più complessa matassa di relazioni e non-relazioni che può caratterizzare il carcere, un’istituzione chiusa in se stessa

***Prometto che sono quasi alla fine!

L’Istituzione carcere

Ancora nel 2024, sembra quasi impossibile parlare di istituzioni e non citare Michel Foucault, non sarò io a rompere questo cerchio. Ne “La volontà di sapere. Storia della sessualità 1” si affronta, oltre al focus principale dell’intrinseca relazione tra potere-sapere sul sesso e la sessualità, anche una ricostruzione della critica delle istituzioni politiche che nel XIX secolo diventa più radicale. 

«[…] poiché si trattava di mostrare non solo che il potere reale sfuggiva alle regole del diritto, ma che lo stesso sistema del diritto non era che un modo di esercitare la violenza, di annetterla a profitto di alcuni, e di far funzionare, sotto l’apparenza della legge generale, le dissimmetrie e le ingiustizie di una dominazione.» – La volontà di sapere. Storia della sessualità 1.

Se si pensa bene al carcere, ci si rende conto di una contraddizione che soggiace allo stesso statuto delle pene posto dalla Carta costituzionale italiana. Una contraddizione che sta, più precisamente tra il testo e la sua applicazione. In un incontro organizzato dall’associazione Parliamo di carcere lo scorso 11 maggio, il garante dei detenuti del Lazio  Stefano Anastasia ha sottolineato come chi ha pensato e scritto la Costituzione ha dato direttive sulle pene senza nominare direttamente l’istituzione carcere. 

Chi lavora, studia o abita questo ambiente forse lo conosce a memoria, ma riprendiamo l’Art. 27 della Costituzione riguardo alle pene, il quale recita così:

«Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.»

Parliamo di rieducazione e di risocializzazione come scopi ultimi delle pene, da un lato e di un’istituzione totale che separa – come prima e solenne ragion d’essere – le persone che commettono il reato dal resto della società nella quale è previsto il cosiddetto reinserimento.

Il carattere solenne della separazione può essere esemplificato dall’impatto che provoca a un corpo libero il confronto con un alto muro di cemento grigio. 

Nonostante i tentativi che si sono susseguiti nella storia per limitare gli aspetti più violenti e disfunzionali del carcere, la realtà è ben diversa e si caratterizza, ricorda Luca Sterchele per una:

«permanenza e pervicacia di quelle sue “funzioni latenti” aventi a che fare con la produzione di sofferenza, la disabilizzazione delle soggettività, la riproduzione delle “classi pericolose” e del nemico interno, da sempre innervate nel suo funzionamento.» – Il carcere invisibile. Etnografia dei saperi medici e psichiatrici nell’arcipelago carcerario. 

Dentro gli spazi ristretti e costretti di una cella, vivere quel sanguinare comune che accompagna una buona parte dell’esistenza delle persone con utero diventa un disagio nel momento in cui non si hanno le possibilità di acquistare i prodotti igienico-sanitario che si necessitano o che si preferiscono. Non solo si nega il controllo sul proprio corpo in relazione a una delle esperienze più soggettive che esso attraversa ciclicamente ogni 28 giorni, si annulla la facoltà di scegliere tra i dispositivi mestruali quelli che rispondono meglio alle singole necessità personali. Sulle esperienze del corpo delle donne nei penitenziari, proprio in relazione al vivere il ciclo sono ancora Rosaria e Maria che raccontano di quelle persone a cui, per lo “shock del carcere” il ciclo si blocca, non viene più per mesi. Potremmo parlare in questo caso, con Francesca Cerbini, di  “prigionizzazione”: un termine utilizzato in criminologia per definire il processo di assuefazione al carcere, alle sue regole e alla nuova vita che si prospetta per una persona che entra. 

«[…] la prigionizzazione si concepisce fondamentalmente come un effetto della carcerazione sulla psiche, la cui alterazione sfocerebbe in “sindromi di reazione alla reclusione”, visto che la permanenza in istituzioni chiuse produce una lunga serie di effetti psicopatologici. […] Ma nemmeno il “fisico” riesce a nascondere le conseguenze perniciose della vita trascorsa in cattività e della prigionizzazione.» – La casa di sapone. Etnografia del carcere boliviano di San Pedro.

Chiudendo questa parentesi sui corpi reclusi nei penitenziari, torniamo alla domanda che sta alla base di questo articolo un po’ più lungo dei soliti: cosa ci dice un’istituzione che non accetta una donazione di assorbenti? Forse ci dice che non vuole rapporti col fuori. Forse ci dice che non c’è possibilità di apertura o di connessione. 

Il non detto del carcere è rintracciabile nel suo rifiuto di un dono – che abbiamo visto essere potenziale mezzo di creazione di legami sociali – e allo stesso tempo nel suo rifiuto senza dare spiegazioni. In parte l’abbiamo già affrontato, il sottotesto che muove l’istituzione penitenziaria, quando abbiamo parlato della contraddizione tra disposizioni risocializzanti e realtà desocializzanti; ma perché l’arrivo degli assorbenti destabilizzerebbe l’ordine interno? Probabilmente, quella gioia del cuore di cui ha detto Rosaria, cozza con la “funzione latente” di produzione della sofferenza specifica del carcere. 

Questa è l’unica risposta che – riflettendo in questi mesi – ha continuato a ritornare nella mia mente, mentre ne cercavo altre che avrebbero potuto avere forse un risvolto più roseo. Perché è importante parlare di questo e riflettere su un rifiuto distratto a una donazione di qualcosa di così necessario? 

Perché se non lo facciamo «stiamo già parlando la lingua dell’istituzione, lasciamo filtrare il discorso del carcere e, come Eichmann in sedicesimo, diciamo che “stiamo solo obbedendo agli ordini”.» – Piero Vereni. “Catene d’amore, ovvero la statalità del male.”

Quello di Ilaria Salis è un caso che non è possibile ignorare

È una detenuta come noi ma in condizioni peggiori

Ilaria Salis, una maestra italiana di 39 anni l’11 febbraio dello scorso anno è stata arrestata a Budapest durante il “giorno dell’onore”. Non è un segreto ormai per nessuno. Pochi giorni fa abbiamo assistito alle immagini di una donna col viso scarno, con i polsi e le caviglie legate strette, con le catene a limitarne i movimenti. L mi ha scritto che non può tacere di fronte a quelle immagini, di fronte a questi fatti, al “pozzo” in cui Ilaria – e altri come lei – è stata sbattuta ormai da quasi un anno.
Che cos’è il “giorno dell’onore”? Quali sono le accuse volte a Ilaria Salis? Lo riassumo brevemente prima di lasciare spazio alle parole di L che principiano in realtà già con il titolo di questo articolo. Dunque, l’11 febbraio si ricordano i soldati tedeschi caduti nel 1945 tentando di rompere l’assedio dell’esercito rosso. Gruppi di neonazisti europei quindi si incontrano e manifestano, celebrano i nazisti del passato. E con essi, le loro ideologie suprematiste. Insomma, uno dei raduni più importanti dei neonazisti d’Europa. 
Ilaria Salis è accusata di aggressione a due di questi personaggi, insieme a un altro antifascista tedesco. Vogliono condannarla a 16 anni di carcere, con due aggravanti che rendono il caso di Ilaria “un caso politico”. Puntuale e lucido come sempre, Zero Calcare ripercorre questo caso con un fumetto, pubblicato dall’Internazionale online e che consiglio di leggere.
Lo trovate qui: “Una storia di nazisti, di galera e di responsabilità”.
LE PAROLE DI L

“E poi e poi la notte che non passa…”: Dal “non ho sentito” al “non ho visto” – il caso di Ilaria Salis

La ferocia non gli difetta. È indelebile l’immagine di quell’esponente delle istituzioni che alla Scala di Milano, di fronte all’ urlo liberatorio di un cittadino “viva I’Italia antifascista”, con giravolte simili a quelle di un trapezista di un circo rispondeva ai giornalisti “non ho sentito”. Ma c’è di più, ora siamo al “non I’ho visto” di un senatore capotreno parente affine di un’alta carica governativa che con sprezzo del ridicolo e una sottile perfidia ha dichiarato con la velocità di un Frecciarossa che lui il video di Ilaria Sails trascinata alla maniera di un quadrupede davanti ad un Giudice del regno sovranista di Orban lui, quello schifo, proprio non l’aveva visto . Siamo al solito “garantismo strabico” trentennale di questi per così dire, rappresentanti istituzionali dentro e fuori questo Paese. Sono fatti così, per loro è normale. 

Verrebbe da dire che Lombroso sussurra al loro cuore (se un cuore ce I’hanno) di stare sempre dalla parte dei forti e dei privilegiati, rimanendo indifferenti quando non feroci con gli altri, quelli meno fortunati, che nelle carceri sono la maggioranza.

 

Tutti noi detenuti e detenute esprimiamo solidarietà a Ilaria Salis, costretta con le catene ai piedi in un Tribunale dopo quasi un anno di indicibili maltrattamenti subiti in un maledetto carcere ungherese. 

 

“E poi e poi.. a la notte che non passa mai”. Direbbe Giorgia. Giorgia la cantante, naturellement. Ma speriamo che passi, le auguriamo noi.

M49

Undici anni al 41 bis

LE PAROLE DI C

Vorrei parlare del 41bis che nasce come una misura emergenziale nell’estate del 1992 per contrastare gli attentati mafiosi nei confronti dello Stato italiano e fu emanato decreto emergenziale e introdotto nel codice penitenziario, motivato dall’emergenza del momento. 

Nell’estate del 2008 il decreto emergenziale è stato tramutato in Legge dello Stato.

Quindi cos’è il 41bis?

Le persone che al loro arresto vengono sottoposte a tale regime carcerario subiscono misure restrittive che quotidianamente vanno al di là del confine tra il lecito e l’illecito, superando i limiti della Costituzione italiana.

Il 41 bis nasce per controllare le comunicazioni di una minima parte di detenuti, circa 750.

All’interno di ogni carcere che dispone di una sezione 41 bis, c’è una zona che si chiama area riservata, dove vengono ristretti quelli che vengono ritenuti i capi mafia, come per esempio Raffaele Cutolo o Totò Riina.

Controllo della comunicazione del detenuto sottoposto al 41bis

Gli unici modi che il detenuto ha per comunicare sono il colloquio e le lettere.

Attraverso il colloquio di 1 ora ogni mese, quindi 12 colloqui l’anno, il detenuto può parlare con la propria famiglia da dietro un vetro blindato. Il detenuto che ha un figlio può vederlo senza vetro: viene chiuso in una stanza con il bambino, dopo essere stato perquisito a fondo, questo per i bambini fino a 12 anni ma possono stare solo 10 minuti. 

Ogni incontro è registrato, non è possibile neanche fare gesti, perché potrebbero essere segnali per ad esempio ordinare un colpo.

Poi si può scrivere alla propria famiglia e alle persone libere ma è vietato avere corrispondenza con altri detenuti.

Ogni lettera da inviare va consegnata aperta perché la posta è sottoposta a censura: per esempio, a volte,  io usavo scrivere proverbi e modi di dire… se l’agente che era preposto alla censura nel leggere la mia lettera notava un linguaggio criptico, la lettera veniva sequestrata e inviata al Magistrato di sorveglianza.

Il detenuto di quella lettera non saprà più nulla.

La mia esperienza personale

Durante la mia detenzione al 41 bis durata 11 anni fu discusso diverse volte se prorogare o revocare la misura. L’applicazione regime differenziato mi fu revocata: durante l’udienza il Pm fece riferimento a tutte le sanzioni disciplinari ricevute da me tra cui alcune denunce, ma il Giudice rispose: «Va bene procuratore, sappiamo come vengono trattati i detenuti nei reparti 41 bis,  quindi andiamo avanti non soffermiamoci su questo punto, giusto?»

Quindi in quel momento compresi che i giudici sono a conoscenza della realtà che si vive dentro. Non che cambiasse qualcosa, ma è stato importante sapere per certo che un Presidente di un tribunale durante l’udienza dove si discuteva se rinnovare o revocare un provvedimento di regime differenziato, fosse consapevole di come sono trattati i detenuti al 41bis, infatti mi fu revocato.

È vero forse che il 41 bis serve a controllare la comunicazione dei detenuti, almeno quella piccola parte, ma il resto di quelle regole del regime differenziato sono solo abusi volti a distruggere l’identità di una persona. Ad esempio, cosa c’entra l’imposizione degli indumenti intimi, delle calzature, del vestiario con la sicurezza? 

Attraverso il racconto di alcuni episodi vissuti, C spiega le particolari condizioni in cui il detenuto del 41bis vive la propria reclusione. Alcune misure possono risultare assurde e prive di significato, altre sembrano invece costruite appositamente per umiliare e spaventare la persona detenuta.

Al detenuto sottoposto a tale regime è stato quasi sempre vietato cucinare per motivi di sicurezza. Ci sono poi molte altre misure, come per esempio ogni volta che uscivo dalla cella dove ero ubicato dovevo sottopormi –  come tutti gli altri detenuti –  ad una perquisizione, che comprendeva denudazione e altre umiliazioni come fare flessioni e essere perquisito ovunque, perfino in bocca.

Quando devi parlare con il comandante, due o tre agenti ti scortano in ufficio, mentre dentro ad aspettarti ce ne sono degli altri. Una volta entrato, subito ti fanno fare due passi avanti perché devono entrare tutti, con gli agenti dietro le spalle ti ordinano di mettere le mani dietro la schiena. Mentre parli con il comandante sei consapevole di avere dietro di te altre quattro, cinque o sei persone che solo con la loro presenza incutono un senso di timore perché il detenuto in quelle situazioni è sempre in stato di minorità e al minimo errore può subire conseguenze, anche aggressive.

C riflette sul comportamento di alcuni degli agenti che ha incontrato durante il suo percorso, è questo il modo giusto di relazionarsi con il detenuto?

Allora quando succede questo, penso che loro non stanno lì per fare gli agenti ma per fare qualcos’altro. Chi ti autorizza a comportarti in questo modo? Cosa ti ho fatto? 

Ho commesso dei reati gravi? Sì, infatti sto in carcere.

Stare in carcere significa che si deve essere trattati da detenuti non che si debbano ricevere aggressioni o torture psicologiche. 

Mi privi dell’aria, mi privi di guardare il cielo, mi privi di un affetto, mi privi anche della gioia: è proprio così, per un ragazzo di ventiquattro o venticinque anni che dalla sera alla mattina si trova chiuso in quel regime.

E ricorda di quando è stato arrestato, le sensazioni che ha provato: oltre la paura, lo smarrimento di non conoscere il tempo della sua pena nel regime differenziato. 

Io personalmente non è che non ho avuto paura, dico la verità, quando mi hanno caricato sull’aereo per portarmi al 41bis, sapevo che esisteva chiaramente ma non ci ero mai stato. Non è che ho pianto ma dentro di me avevo un po’ di timore.

Quando sono stato arrestato, si è deciso che fossi pericoloso e quindi dovevo andare al 41bis ma neanche mi hanno detto per quanti anni ci sarei dovuto stare

È tutto senza regole. Mi danno il 41bis, prendo l’aereo e vado. All’epoca si discuteva ogni 6 mesi, cioè ogni 6 mesi in tribunale si discuteva la tua pratica: mi davano sempre 2 ore di colloquio al mese e 2 pacchi (con i vestiti e le cose che i miei famigliari potevano inviarmi). Poi hanno fatto un tribunale speciale per discutere il 41bis.

Il caso Cospito e l’abolizione del 41bis

Il caso Cospito secondo me è una battaglia persa perché è diventato uno strumento di propaganda politica (caso Donzelli).

Il 41bis non lo aboliranno mai, al massimo cambieranno delle minime cose interne per dare il contentino a chi non è d’accordo con questo tipo di regime.

Ad esempio abolendo alcuni divieti che riguardano l’alimentazione e tutti i generi che i detenuti del 41bis per circolare interna non possono avere.

Alla fine di tutto, penso che se il caso Cospito andrà così a fondo da portare il brigante o il politico di turno a entrare nel merito del regime, potrà al massimo “addolcire” internamente i detenuti e aumentare magari i colloqui con gli affetti e queste cose qua.

Per argomentare il suo discorso, C fa riferimento alle parole dell’ex magistrato e presidente della Commissione antimafia Luciano Violante in relazione ai detenuti mafiosi reclusi al 41 bis. Poi, esprime brevemente il suo pensiero riguardo alla mafia in generale e al sistema rieducativo del carcere in Italia, sempre riferendosi alla propria esperienza di vita. 

Io penso seriamente che pure il più spietato dei capi invecchia, dopo 40 anni di detenzione. Violante, che secondo me è un uomo che ha detto sempre la verità, ha affermato che i vecchi devono morire e i giovani devono farsi vecchi in carcere

I mafiosi sono il male dell’Italia, sono d’accordo, stanno bene dove stanno però trattateli da umani. Fateci vedere che lo Stato è meglio di loro. Perché io delinquente che mi alzo la mattina e vado a vendere la droga, vado a fare le estorsioni, sono una persona deviata. Posso essere recuperato o meno, è una scelta che devo fare. Se io mi recupero, devo far vedere agli “ex compagni miei” come sto meglio, spensierato che non ho più tutte le preoccupazioni che hanno loro, non devo più stare sempre attento a guardarmi le spalle per paura che in ogni momento possano uccidermi. Perché quello che fai ti viene fatto, non è che c’è tanta alternativa. 

Nel mio caso, credetemi, io avrei avuto bisogno tanto di educatori o psicologi. Sono sempre stato solo e in ogni colloquio che ho fatto non sono mai stato seguito veramente.

Allora mi sono reso conto che è proprio la struttura che non è fatta per farti recuperare, quindi che lo Stato non ti vuole recuperare. Io oggi sono qui, lo devo dire, per la mia famiglia che mi dà sostegno. Le altre persone come me? Ne conosco molti che hanno perso anche le mogli, perché nessuna donna s’imbarca dentro una storia del genere e se tu le vuoi bene le dici di non venire più a trovarti. Restano abbandonati, dalle famiglie e da chi li dovrebbe aiutare. Non c’è speranza, per questo dico che non ci credo. 

E lo dico io perché so molto bene la fortuna che ho avuto e continuo ad avere.

Il mio percorso in carcere

Partendo da un discorso generale sul rapporto di G con il mondo carcerario per intero, nasce un approfondimento sulla sua esperienza personale che vuole stimolare una riflessione sul valore che ha l’atteggiamento pregiudiziale nei confronti dei detenuti e delle detenute, in relazione all’inclusione sociale degli stessi. 

LE PAROLE DI G

Articolo 1 – Ordinamento Penitenziario

“Il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona.

Il trattamento è improntato ad assoluta imparzialità, senza discriminazioni in ordine a nazionalità, razza e condizioni economiche e sociali, a opinioni politiche e a credenze religiose.

Negli istituti devono essere mantenuti l’ordine e la disciplina. Non possono essere adottate restrizioni non giustificabili con le esigenze predette o, nei confronti degli imputati, non indispensabili ai fini giudiziari.

I detenuti e gli internati sono chiamati o indicati con il loro nome.

Il trattamento degli imputati deve essere rigorosamente informato al principio che essi non sono considerati colpevoli sino alla condanna definitiva.

Nei confronti dei condannati e degli internati deve essere attuato un trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso i contatti con l’ambiente esterno, al reinserimento sociale degli stessi. Il trattamento è attuato secondo un criterio di individualizzazione in rapporto alle specifiche condizioni dei soggetti.”

Il tempo per trasferire lo stipendio

G è in semilibertà, ha un lavoro e percepisce lo stipendio come ogni persona che svolge attività lavorativa. Come riceve il denaro un detenuto che lavora? Una cosa poco nota è che ogni detenuto ha diritto ad avere un conto all’interno dello stesso Istituto Penitenziario: per chi è assunto da terzi – pubblici o privati –  l’iter prevede che il pagamento dello stipendio passi per l’Istituto, il quale si occupa di girare successivamente il bonifico sul conto personale del detenuto. 

È possibile che lo stipendio arriva l’8 del mese all’Istituto e a me viene girato il 24? È possibile che mia moglie con la mia famiglia non ricevono soldi in tutto questo tempo? 

Io capisco che è l’iter ma qui si tratta di un bisogno vero, quanto ci vuole per girare la mensilità? Più di venti giorni? E poi il problema è che se provi a chiamare, con tutta la calma e il rispetto possibile loro ti rispondono pure male. Ti trattano come se li scocciassi, come se a me fa piacere stare attaccato al telefono per ricevere quello che è mio e mi guadagno

Loro aspettano che tu sbrocchi e parti con il cervello, questa è la sensazione che ti danno: aspettano per farti rapporto e rispedirti in carcere. Non voglio generalizzare troppo, perché non tutti sono così, non tutti abusano così della loro posizione, fortunatamente. I tempi sono lunghi per tutto, mica solo per ricevere lo stipendio, anche se questo mi preme di più perchè chiaramente va a discapito della mia famiglia. 

Il tempo per ottenere l’affidamento

Il 31 dicembre sono rientrato in carcere e per questo avevo fatto richiesta di Affidamento in prova ai servizi sociali prima (Capo VI dell’Ordinamento Penitenziario – Misure alternative alla detenzione e remissione del debito – Art. 47).

In questo modo dalla struttura in cui ero da circa due anni e mezzo, non sarei più tornato in carcere e avrei potuto finire gli ultimi anni di pena fuori, magari anche a casa con la mia famiglia. Avere la possibilità di non tornare più dentro rappresentava una gioia grande, il fatto che ci sono tornato psicologicamente mi uccide.

Il problema qual è? Anche qui c’è stato bisogno di un tempo infinito per avere una risposta e tanti, tantissimi solleciti al Tribunale di Sorveglianza. Di fatto si tratta di una firma, nel mio caso, perchè i requisiti per ottenere la misura ce li ho tutti però sembra che non ci sia nessuno dall’altra parte a metterla questa firma o anche a non metterla

Ad oggi ho una data per l’udienza, a maggio, dopo lunghi mesi di attesa.

Instaurare una relazione con i detenuti 

Quando si parla con una persona, soprattutto in vista di una rieducazione, devi essere gentile, paziente; non aggressivo. È normale che non deve essere così, perché immaginate di avere un cane chiuso in una gabbia – forse l’esempio è un po’ brutto però è così – se lo trattate male questo cane, non lo accarezzate, gli urlate e non gli date da mangiare, quando esce vi abbaia, vi morde: lo stesso succede per il detenuto.

Le persone che lavorano in carcere non trovano il tempo per ascoltarti, non vogliono o non possono: noi abbiamo mancanza di affetto e nessuno ci fa sentire ascoltati.

Quando è morto mio padre, ero nella mia cella e stavo nervoso, arrabbiato, frustrato. 

Stavo combinando un bel casino, però è arrivato un agente molto buono: una persona veramente umana che mi ha parlato, riferendosi a me per nome invece che con il mio cognome. Mi ha mostrato comprensione per il momento difficile che stavo affrontando e mi ha dato modo di ragionare sul comportamento che stavo avendo, che andava solo a mio discapito. Stavo sempre chiuso, non è che abbia fatto qualcosa di particolare: semplicemente una parola mi ha calmato e mi ha dato quello di cui avevo bisogno – calore ed affetto, infatti poi mi ricordo che sono crollato a dormire. 

In carcere le persone vivono per una lettera

Una lettera, un foglio di carta: la gente vive solo per quello in carcere, lo sapete? 

Fuori non si dà troppa importanza a certe cose.

Quando passa l’addetto alla posta a consegnare le lettere, le persone cambiano umore: dacché stanno tutti a muso lungo, a braccia conserte nelle celle a che si aprono dalla gioia, alla scoperta di cose nuove.

Quando io ricevevo la lettera, ad esempio di mia moglie, sapete che facevo?

Mi organizzavo come se fosse l’impegno più importante della giornata – il che era così effettivamente – mi preparavo la postazione e iniziavo a leggere molto molto lentamente: non volevo che finisse.  Finivo di leggere, la posavo. Dopo un’ora ricominciavo a leggerla. 

Abbiamo sbagliato e io ne sono consapevole, è giusto che paghiamo ma con dignità e umanità. 

Noi per l’opinione pubblica siamo lo scarto degli scarti.

Ma le statistiche parlano chiaro, le persone detenute che hanno avuto l’opportunità di lavorare non hanno più commesso reati. Quindi di che parliamo?

In questo modo tu vai a diminuire la delinquenza e a ricostruire una società diversa, migliore.

Gli educatori in carcere ci sono? 

Dove stavo io c’è solo un’educatrice per un carcere intero! Una sola che deve gestire tantissimi detenuti e molti anche con problematiche serie, come la tossicodipendenza. Come fa? 

Un giorno parlando, e le chiesi: “Dottorè ma come fa adesso con tutte queste persone? Le hanno lasciato un bel carico di lavoro!”. Lei mi rispose: “Dove arrivo metto il punto!”.

E chi paga per questo? I detenuti.

Giustamente lei non può fare altrimenti, quindi il problema è a monte: c’è bisogno di più educatori ed educatrici!

Riflessioni sul ruolo dell’educatorɘ: il burnout, un mostro sempre in agguato?

Nell’ambito della nostra attività quotidiana di educatorɘ ci troviamo spesso a fare i conti con situazioni di stress lavorativo che possono arrivare a minare il nostro equilibrio e la nostra produttività, fino ad arrivare a casi estremi in cui si manifesta quello che ormai l’OMS definisce come vera e propria sindrome: il burnout. L’operatorɘ in burnout arriva ad una sorta di esaurimento delle proprie risorse interiori, deteriorate da una condizione di disagio diffusa dovuta alla sovraesposizione al lavoro e alla ridotta capacità di far fronte alle criticità quotidiane. Questo esaurimento si manifesta con la disaffezione verso il lavoro, con un aumentato cinismo e distacco che mina alle basi qualsiasi intervento educativo.

L’argomento è quasi tabù, affrontarlo o ammettere di averci fatto i conti nella propria vita lavorativa può essere letto come mancanza di professionalità, come inidoneità allo svolgere una professione delicata che ha al centro una relazione di aiuto. In realtà per mantenere uno standard lavorativo alto e preservare il proprio equilibrio mentale è prioritario rendersi conto delle proprie debolezze e fragilità, trovare il modo per affrontarle sia individualmente che nel gruppo di lavoro.

Nella mia esperienza lavorativa nella Cooperativa PID mi sono trovato spesso in periodi e situazioni molto stressanti, dovute al sovraccarico lavorativo e alla particolare tipologia di utenti con cui mi sono trovato a confrontarmi negli anni. Il primo rifugio e approdo sicuro nei periodi più pesanti è stato senz’altro il confronto di gruppo, il poter contare sulle colleghe di lavoro e sul lavoro in equipe, l’aver avuto sempre persone vicine che mi hanno fornito sostegno e l’opportunità di confrontarmi e di esplicitare le criticità con cui mi sono trovato di volta in volta a fare i conti. La supervisione di uno specialista poi è stata un’arma in più, che mi ha permesso di avere un approccio più riflessivo e distaccato dalle dinamiche quotidiane, una chiave di lettura esterna che ha contribuito a farmi vedere i problemi da altri punti di vista, arricchendo la mia capacità di trovare soluzioni e di non farmi sovrastare dalle criticità quotidiane, applicando metodologie che mi hanno consentito nel tempo di tenere sotto controllo il lavoro e la sua incidenza sul mio equilibrio psichico.

Soprattutto una volta preso in carico un nuovo utente, e successivamente nel percorso di accompagnamento nella strada verso il reinserimento, si instaura un rapporto molto profondo e diretto con l’utenza, ed è quindi opportuno impostare il rapporto con le persone in carico in maniera chiara, senza lasciar spazio ad ambiguità, in modo da palesare e rendere chiaro il proprio ruolo di “accompagnatore” in un percorso di reinserimento nella società civile, percorso mai scontato ed immediato, che necessita di costante monitoraggio e sostegno da parte dell’educatorɘ professionale. Instaurare un rapporto troppo amicale, diretto, senza filtri e senza paletti con l’utenza può portare al rischio di creare confusione nell’ospite, che cercherà di colmare una serie di deprivazioni cui la sua condizione di detenzione passata o presente l’ha esposto, deprivazioni soprattutto affettive e relazionali, con un rapporto troppo stretto e scorretto con l’educatore, che viene quindi investito di aspettative e richieste crescenti cui non potrà far fronte nel medio-lungo periodo, generando frustrazione nel lavoratore e disaffezione nell’utente. 

Spesso mi sono trovato a dover ribadire, con la dovuta delicatezza per non compromettere il rapporto educativo costruito con l’utente, che il mio ruolo non è assimilabile a quello di un amico, di un confidente, ma appunto è quello di una persona che si pone degli obiettivi, professionali, in comune con l’utente, ovvero, in primis, il raggiungimento di una condizione di autonomia che porti la persona a riprendere le redini della propria vita. 

Nel rapporto che si instaura con le persone prese in carico a volte è necessario mettere degli argini, per evitare di dedicarsi h24 al lavoro, e di dare la falsa illusione all’utente di “esserci sempre”. Il corretto rapporto con l’utente, secondo me, si raggiunge quando entrambi gli attori del rapporto educativo hanno chiaro il reciproco ruolo, e in quell’ambito agiscono per raggiungere quelli che sono gli obiettivi comuni.

Penso che sia importante anche affrontare in maniera riflessiva il proprio lavoro, avere degli spazi e dei luoghi in cui si parli non dell’oggetto del lavoro, ma del lavoro in sé, mettendo al centro gli operatorɘ e dando il giusto spazio alle differenti individualità che compongono un’equipe che si occupa di interventi socio-assistenziali. 

Anche l’avere uno spazio per esprimere le proprie idee, riflessioni e valutazioni, come questo che sto utilizzando in questo momento nell’ambito del blog “Passo dopo passo”, è senza dubbio un elemento positivo che mi aiuta in tal senso.

Francesco