Cooperativa sociale che offre servizi di ascolto, orientamento, formazione, accoglienza rivolti a detenuti/e, ex detenuti/e e persone che vivono in condizione di disagio sociale.

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Come il patriarcato influisce sulle vite delle persone detenute negli istituti femminili

La popolazione detenuta femminile in Italia rappresenta circa il 4 per cento del totale, più precisamente, al 31 marzo 2024, come rilevato dall’associazione Antigone, le donne recluse erano 2.619. Un numero basso se messo a confronto con il totale della popolazione detenuta (61.049 persone recluse).

 

Sappiamo che molta attenzione è data alle persone detenute negli istituti femminili in rapporto alla loro condizione di madri. Che se da un lato rappresenta una risposta necessaria – ma non sufficiente – alla paradossale esperienza di molte bambine e bambini che si trovano a muovere i primi passi nell’ambiente carcerario; dall’altra rispecchia una società che ritiene centrale il diritto di una donna di essere madre a discapito del diritto di una persone di essere e autodeterminarsi come vuole. Vero anche che con il nuovo Ddl Sicurezza, questa gentile accortezza nei confronti delle donne incinte, sembra esser messa in dubbio: proprio alcuni giorni fa infatti la società civile si è espressa contro l’incarceramento delle donne incinte presso il Senato della Repubblica (qui il link). 

Oltre alle madri, quando si parla di “donne” nell’Ordinamento Penitenziario?  

Sono principalmente due gli articoli dell’Ordinamento penitenziario specifici per la regolamentazione delle persone detenute negli istituti femminili. 

  • Articolo 14: “Assegnazione, raggruppamento e categorie dei detenuti e degli internati”

“Il numero dei detenuti e degli internati negli istituti e nelle sezioni deve essere limitato e, comunque, tale da favorire l’individualizzazione del trattamento.

L’assegnazione dei condannati e degli internati ai singoli istituti e il raggruppamento nelle sezioni di ciascun istituto sono disposti con particolare riguardo alla possibilità di procedere ad un trattamento rieducativo comune e all’esigenza di evitare influenze nocive reciproche. Per le assegnazioni sono, inoltre, applicati di norma i criteri di cui al primo ed al secondo comma dell’ articolo 42 .

É assicurata la separazione degli imputati dai condannati e internati, dei giovani al disotto dei venticinque anni dagli adulti, dei condannati dagli internati e dei condannati all’arresto dai condannati alla reclusione.

É consentita, in particolari circostanze, l’ammissione di detenuti e di internati ad attività organizzate per categorie diverse da quelle di appartenenza.

Le donne sono ospitate in istituti separati o in apposite sezioni di istituto.”

  • Articolo 42-bis: “Traduzioni”

“Sono traduzioni tutte le attività di accompagnamento coattivo, da un luogo ad un altro, di soggetti detenuti, internati, fermati, arrestati o comunque in condizione di restrizione della libertà personale.

Le traduzioni dei detenuti e degli internati adulti sono eseguite, nel tempo più breve possibile, dal corpo di polizia penitenziaria, con le modalità stabilite dalle leggi e dai regolamenti e, se trattasi di donne, con l’assistenza di personale femminile. […]”

 

Se nell’Ordinamento penitenziario l’attenzione nei confronti delle specifiche esigenze femminili è scarsa, qualcosa migliora con il Regolamento di esecuzione del 2000.

 

  • L’articolo 8  sull’igiene personale
  • L’articolo 9 sul vestiario e il corredo
  • L’articolo 7 sulla presenza del bidet in cella 

 

Il paradosso di cui parlano Franca Garreffa e Daniela Turco nel focus “Le donne nei Poli universitari penitenziari: ostacoli e prospettive di sviluppo” (Primo Rapporto sulle donne detenute di Antigone) riguarda una doppia tendendenza opposta tra il fuori e il dentro: da un lato, c’è la lotta contro l’abbattimento delle differenze tra i generi, dall’altra il mettere in evidenza le stesse diversità nell’ambito dell’esigenze detentive femminili

 

Un paradosso che potremmo complessificare, osservando che l’abbattimento delle differenze non nega le diverse esigenze e ne anzi mette in risalto le problematiche legate al mancato riconoscimento. Non è dunque un problema di per sé la differenza tra i sessi e i generi, ma il diverso trattamento che viene riservato alla componente maschile, la rigidità dei ruoli sociali assegnati, la contrapposizione agonistica tra un noi e un loro e i rapporti di potere che essa genera e che caratterizzano la società contemporanea; sia libera che reclusa, perché, ricordiamolo, apparteniamo tutt3 alla stessa. 

Si tratta di quel concetto di equità che dovrebbe essere alla base di uno stato che si dice democratico: non uguale per tutte le persone ma uguale in base alle specifiche condizioni delle persone prese in considerazione. 

Istruzione, formazione e opportunità per le persone detenute negli istituti femminili

Pubblicato su Ristretti Orizzonti, l’articolo di Manuela D’Argenio di novembre 2024 per tgcom24.mediaset.it, è introdotto così:

«Le sezioni femminili restano inadeguate, le attività professionali sono poco variegate, l’accesso agli studi non è uguale per tutti: la discriminazione di genere, di fatto, è rimasta immutata. Il carcere come istituzione totale è una struttura pensata per uomini in cui si riscontra, anche nei documenti ministeriali, un’incapacità di rielaborarlo al femminile». (Qui il link)

D’Argenio evidenzia i numerosi problemi esistenti all’interno del sistema carcerario legati alla discriminazione di genere. Le persone detenute negli istituti femminili spesso sono sottoposte a stereotipi e aspettative tradizionali legate al “comportamento femminile”. Infatti vengono introdotte ad attività come il ricamo e l’uncinetto, in contrasto con la maggior offerta di attività prevista per la componente maschile. Un’ulteriore tendenza di differenziazione riguarda l’accesso a opportunità lavorative e formative: esiste infatti un’alta disparità nell’accesso agli studi universitari tra popolazione carceraria maschile e femminile. 

 

Sembra chiaro che il dato numerico inferiore delle detenute e la loro distribuzione nelle sezioni femminili di carceri maschili contribuiscono – insieme alle suddette condizioni stereotipate con cui vengono pensate attività e servizi nell’istituzione penitenziaria – a una visibile marginalizzazione e a una scarsità di percorsi di reinserimento sociale adeguati.

Corpi ristretti e sensi di colpa

Sono meno persone sì, ma sono pure meno strutture. E quindi, se il sovraffollamento carcerario ad oggi è pari al 132% (qui il link), sembra che siamo proprio le carceri femminili a risentirne di più. 

Le persone detenute negli istituti femminili si trovano a vivere ammassate l’un l’altra e per di più in strutture pensate per la categoria di genere maschile, il che contribuisce a una mancanza di supporto e di risorse dedicate.

La discriminazione di genere in carcere è radicata nella concezione stessa della pena e nella struttura dell’istituzione che grava nell’emergenza continua data l’assenza di riflessione sulle condizioni di vita interne.

Spesso inoltre è presente quel tipico assorbimento dello “spirito abnegante” caratterizzante il ruolo di accudimento e cura assegnato culturalmente alle persone con utero ancor prima della nascita che si esplicita nel senso di colpa nei confronti di figli, compagni, padri e mariti lasciati fuori. Il senso di colpa può tradursi in atteggiamenti di sottomissione, atti di autolesionismo, suicidi o uso prolungato di psicofarmaci: tutti fattori che sembrano essere più frequenti tra la popolazione detenuta femminile rispetto alla maschile. 

 

Forse la bassa percentuale delle presenze femminili in carcere è uno dei motivi per cui sembra più difficile per le persone di genere femminile in carcere accedere a quei benefici – come corsi di professionalizzazione o universitari – maggiormente preposti per la componente carceraria maschile. Forse, invece, sono gli aspetti di una cultura patriarcale e omotransfobica che sono duri a morire e che condizionano la vita e i rapporti tra i generi sia fuori che dentro il carcere. 

O forse, entrambe le cose. 

Questo focus fa parte della Campagna PID “Assorbire il cambiamento 2.0” – Un’iniziativa che prevede la donazione degli assorbenti in carcere, la realizzazione di laboratori e incontri all’interno di istituti penitenziari femminili e strutture di accoglienza per promuovere maggiore consapevolezza sul ciclo mestruale e sui “nuovi” prodotti igienico sanitari ecologici quali coppetta, slip mestruali e assorbenti lavabili. Leggi di più qui

Un cartone animato Disney che spiega le mestruazioni: The story of menstruation (1946)

Siamo 1946 in America: la Disney viene finanziata e commissionata dalla International Cello-Cotton Company – una nota azienda produttrice di assorbenti – a dar vita a un cortometraggio che spiegava alle bambine e alle ragazze le mestruazioni, “The Story of Menstruation”. Per garantire l’accuratezza scientifica e ottenere il supporto di medici e infermieri scolastici, fu coinvolto un ginecologo come consulente nella produzione.

Il corto “The Story of Menstruation” dura dieci minuti e, con la voce di Gloria Blondell, spiega con precisione il ciclo mestruale, pur mantenendo un tono distaccato e senza essere troppo espliciti. Possiamo pensare che per i tempi, il corto rappresenti una una novità educativa all’avanguardia, ma proprio contestualizzando il periodo storico in cui è stato prodotto, non stupisce che “The Story of Menstruation” presenta degli aspetti critici. Se fino a poco tempo fa il ciclo nelle pubblicità era simpaticamente colorato di blu, il sangue mestruale nel cartone Disney è rappresentato in bianco e nelle animazioni tra le parti dell’apparato genitale femminile risulta assente all’appello la vulva

 

Per essere pensato nel 1946, “The Story of Menstruation” è stato uno strumento pedagogico importante, inoltre non si possono negare almeno due aspetti sinceramente apprezzabili: 

  • Viene smentito il falso mito del “non ci si lava con il ciclo” invitando il pubblico a non smettere di fare il bagno durante il ciclo mestruale ma a fare attenzione alla temperatura dell’acqua, che non sia né bollente, né gelata. 
  • Vengono spiegati la crescita e i cambiamenti del corpo, specificando che questi processi generano le diversità tra i corpi delle persone in modo rassicurante.  

 

La storia è semplice e racconta non pochi stereotipi di genere: una bambina in fasce viene seguita nel corso della sua crescita fino al giorno in cui diventerà moglie e mamma a sua volta di una bambina. Il film presenta le mestruazioni come «una parte del piano eterno della natura per trasmettere il dono della vita».

Una delle prime lampanti problematiche è la divisione di genere nelle classi durante la visione del cortometraggio. Dai commenti su Youtube sotto il video, leggiamo ad esempio:

Noi bambini abbiamo visto questo film nella quinta elementare negli anni ’60. I genitori dovevano firmare un’autorizzazione per permetterci di vederlo. All’epoca mi sorprese davvero quando ci dissero che avremmo visto il film. In classe? Durante l’ora di ginnastica? Non ricordo, ma i ragazzi non furono informati perché le cose erano diverse allora e tutto era molto segreto.

 

Si spiega alle bambine americane degli anni Cinquanta e Sessanta che bisogna cercare di non abbattersi per la stanchezza, di non lasciare che il ciclo interrompa le attività quotidiane: come ad esempio, si vede bene nelle immagini, quella di pulire casa

Il cortometraggio Disney inoltre invita il pubblico a non piangersi addosso, a prendere quei giorni con filosofia, così che sia possibile passarli con un bel sorriso in faccia e senza sbalzi d’umore. Anche perché, nonostante come ci sentiamo, bisogna vivere con le persone e con noi stesse

 

Alcune affermazioni o immagini fanno sorridere, altre ci fanno salire l’amaro in bocca. Non tanto perché non comprendiamo che “The Story of Menstruation” è un cartone animato del 1946 e rispecchia l’immagine dei rapporti di genere dell’epoca; ma perché nel 2025 oltre ad esserci persone che negano l’esistenza di una cultura patriarcale e omotransfobica, ci sono fondi stanziati per la «formazione degli insegnanti su fertilità maschile e femminile, con un focus sulla prevenzione dell’infertilità». Un’educazione “sessuo-affettiva” nulla, che probabilmente sarà più simile al video della Disney del ‘46 che non a quello per cui ci si batte quotidianamente: un’educazione al consenso, alla parità dei generi plurimi, alla libertà di autodeterminazione, al rapportarsi con una sessualità sicura e libera.

In ogni caso, se vi abbiamo incuriosito qui lasciamo il link del cortometraggio: “The Story of Menstruation”.

 

Quando leggiamo “menstruation” può sembrarci strano la presenza della parola “men” a nominare uno degli aspetti caratterizzanti della vita biologica del femminile. Potremmo perfino infastidirci della cosa, ma per quanto possa sembrare ironico, è solo una coincidenza dovuta all’etimologia di queste parole. Sulla piattaforma Quora un utente, Dhaval Rathod ha spiegato:

La parola “man” ha una radice che affonda fino al sanscrito “manu”, che secondo la mitologia induista è considerato il primo uomo. Le parole relative a “menstruation” derivano dalle radici latine “mensis” (mese) e “menstrua” (mensile). La stessa radice è anche responsabile delle parole “semester” [sex (sei) + mensis (mese)] e “trimester” [tri (tre) + mensis (mese)]. La parola latina “mensis” ci porta ancora più in profondità a una parola greca “mēn”, che significa anch’essa “mese”. Queste parole che rappresentano un periodo di un mese sono associate all’apparizione della full “moon” (greco: “mēnē”). La nostra “moon” ha anche dato origine alle parole “monday” e “month”. 

Questo focus fa parte della Campagna PID “Assorbire il cambiamento 2.0” – Un’iniziativa che prevede la donazione degli assorbenti in carcere, la realizzazione di laboratori e incontri all’interno di istituti penitenziari femminili e strutture di accoglienza per promuovere maggiore consapevolezza sul ciclo mestruale e sui “nuovi” prodotti igienico sanitari ecologici quali coppetta, slip e assorbenti lavabili. Leggi di più qui.

Un carcere che “protegge” le donne – Delitto d’onore in Giordania

Nel libro “Donne violate. Forme della violenza nelle tradizioni giuridiche e religiose tra Medio Oriente e Sud Asia” Marta Tarantino affronta il rapporta tra cultura e legge, mostrando come gli intrecci che hanno intessuto i ruoli di genere nell’area mediorientale della Giordania influiscono sulla legislazione del Paese. 

Gerarchia famigliare e ritualità identitarie

L’autrice ricostruisce dapprima il corpus dei valori etico-morali che caratterizza il contesto arabo-islamico del regno Hashemita di Giordania, partendo dall’esplicitazione del duplice ruolo che ha la famiglia. Da un lato, essa assolve alla funzione privata di definizione e costruzione identitaria dell’individuo; dall’altro si fa strumento politico-religioso attraverso il quale la comunità dei credenti continua a esistere nella storia. 

Come uno specchio della società, la famiglia mediorientale è organizzata verticalmente secondo gerarchie e regolata da valori patriarcali. Nella vita famigliare di un bambino o di una bambina inizia la socializzazione ai modelli del femminile e del maschile attraverso lo scandirsi dei rapporti genitoriali dove la madre detiene un potere “temporaneo” sul figlio. Dopo i primi sette-nove anni di vita il bambino compirà quel rito di passaggio della circoncisione che segnerà il suo giungere, dalla maschilità – ossia la condizione biologica – alla mascolinità – il ruolo di genere. Se nei primi anni è stata la madre a curarsi del figlio, sarà poi l’autoritario e distaccato padre a dover guidare il bambino maschio. La bambina invece continuerà ad essere socializzata dalla madre e dalle altre donne di casa: 

«Per le donne invece, la lingua araba utilizza il termine unūah tanto con significato di “essere femmina” o “essere di genere femminile” quanto con quello di “essere molle”, sottolineando con quest’ultimo una sfumatura spregiativa, una semplificazione atta a ribadire il concetto patriarcale di subordinazione e debolezza dell’universo femminile rispetto a quello maschile.» M. Tarantino“La Giordania contemporanea tra cultura tribale e delitto d’onore” 

Una costruzione identitaria che segna una duplice costrizione, una duplice sofferenza: se gli uomini dovranno onorare il proprio ruolo machista e violento, le donne sentiranno il peso di una sessualità di cui hanno l’onere di custodire. Queste costruzioni identitarie, incarnate simbolicamente nella virilità dell’uno e nella verginità dell’altra, s’incontrano nel vincolo del matrimonio, l’unico luogo in cui l’atto sessuale viene legittimato. E a quel punto, la rottura dell’imene della donna durante la prima notte di nozze, rappresenterà non solo l’onore di lei ma quella dell’uomo, della famiglia e di tutta la comunità.  

Delitto d’onore in Giordania

In Giordania la popolazione è caratterizzata da un substrato tribale che include sia arabi musulmani che cristiani ortodossi, i quali di solito appartengono a tribù di natura nomade, semi-nomade o sedentaria. Questa struttura contribuisce a una rete complessa di pratiche e consuetudini che, in molti casi, si sovrappongono o sostituiscono le leggi ufficiali dello Stato, creando una coesistenza di poteri che risale alla nascita dello Stato giordano moderno.

È proprio grazie a questa eredità culturale che la protezione dell’onore e della reputazione si è evoluta nel tempo, assumendo forme di violenza che sono moralmente accettate e normalizzate dalla comunità, in particolare nei confronti di chi mina l’onore e la dignità della famiglia.

Il codice di comportamento non scritto riservato alle donne è necessario al mantenimento dell’onore della famiglia, il quale gli uomini hanno il compito di proteggere e mantenere e che una volta perso, non può essere ripristinato.

Il delitto d’onore può essere letto come un reato culturalmente orientato e nasce proprio da questa responsabilità tutta al femminile dell’onore rappresentativo dell’uomo. La condotta vuole che la donna sia pudica e riservata per tutta la sua vita e in ogni ambiente che abita. Le cause del delitto d’onore possono essere di vario tipo: dalla conversazione di una donna con uno sconosciuto in un posto pubblico, all’assenza prolungata da casa; dal rifiuto di un matrimonio combinato, all’arrivo di una gravidanza illegittima se pure consumata da una violenza. 

«I delitti seguono poi uno schema che si ripete in gran parte dei casi: in una prima fase vi è la presa di coscienza da parte della famiglia del “disonore”, spesso oggetto di discussione di vere e proprie riunioni familiari, seguita dalla designazione di chi dovrà portare a compimento il delitto. Generalmente, l’esecutore materiale dell’omicidio è il fratello della vittima, sebbene all’azione possano concorrere tutti i parenti maschi più prossimi (il padre, lo zio paterno o il cugino), con impiego di armi di vario tipo fra cui coltelli, pistole o veleno nel cibo. Trattandosi di delitti che solitamente avvengono in aree lontane dai grandi centri abitati, spesso i corpi vengono abbandonati in zone remote, rendendone più difficile la scoperta, l’identificazione e complicando la successiva indagine.» M. Tarantino – “La Giordania contemporanea tra cultura tribale e delitto d’onore” 

Legittimare un carcere che “protegge” le donne in Giordania

Nel 1992 la Giordania firma la Convention on the Elimination of all Forms of Discrimination Against Women (CEDAW) che diventa effettiva nel 2007. Nel 2008 il Parlamento pubblica il Protection from Family Violence Law con lo scopo dichiarato di voler coadiuvare la riconciliazione fra i membri delle famiglie in conflitto. Nonostante le intenzioni, il testo resta poco chiaro e polveroso su alcune questioni fondamentali, come la stessa definizione di violenza che viene relegata nell’ambiente domestico. Il delitto d’onore resta di fatto facilitato dal codice penale, da letture misogine della religione musulmana e dalla forza delle consuetudini tradizionali. L’articolo 340 del Codice penale giordano fino al 2001 rendeva possibile la completa assoluzione degli accusati e nonostante le modifiche del testo tese a rendere le disposizioni più neutre, a oggi si recitano i benefici delle attenuanti per un uomo che dopo aver scoperto in ”flagrante delicto” sua moglie o parente la ferisca o uccida.  

«Nessuna donna è detenuta senza motivo, pertanto può avvenire (che essa venga detenuta) per proteggere la sua vita futura, l’eventualità di una disgrazia sociale.» – ibidem, cit. intervista di Amnesty International al Direttore del Dipartimento per i Diritti umani del Ministero degli Interni giordano (2020)

Così accade che per “salvare” la vita a donne che hanno macchiato l’onore della propria famiglia – magari per essere state stuprate e poi aver rifiutato il matrimonio con il carnefice, per essere fuggite via, per avere il grembo il frutto della violenza – queste vengono messe in carcere. In che senso?

Dopo essere stata costretta a sottoporsi a test medici “sulla verginità”, dopo essersi salvata dalla famiglia, dopo aver tentato invano di denunciare alle autorità la sua condizione di pericolo, per effetto del Crime Prevention Act del 1954 può succedere che una donna venga detenuta a “scopo tutelare”. 

  • Nel 2013 la maggioranza della popolazione detenuta femminile si trova nel carcere dei Juweida: vivono in condizioni precarie, vittime di abusi fisici e psicologici. Donne giovani, senza figli né marito, poco abbienti, donne che hanno subito violenze in ambito domestico, che sono state abbandonate dalle famiglie dopo l’incarcerazione. Per entrare e per uscire è necessaria la decisione del governatore locale che però non può acconsentire alla scarcerazione se non è sicuro che la famiglia non abbia intenzioni punitive. Così alcune ricorrono ai matrimoni combinati, altre vanno incontro alla libertà con una sentenza di morte appena fuori le porte del carcere.
  • Nel 2017 inizia ad accendersi il dibattito pubblico intorno alle questioni relative al delitto d’onore, i primi passi verso un’inversione di marcia vengono mossi grazie alle cronache giornalistiche, al lavoro delle associazioni e a una parte moderata del mondo islamico che guardano al problema riconoscendone le radici culturali.
  • Nel 2018 è istituita la casa-rifugio Dar Amneh per permettere alle donne in detenzione amministrativa di avere accesso a servizi, opportunità e assistenza per il reinserimento nella società. Tutti fattori negati all’interno del carcere di Juweida.

Il governo Hashemita sembra aver mostrato così un doppio atteggiamento che da un lato è caratterizzato dalla volontà di rendersi partecipe di un processo di riforma, dall’altro –  impedendo il trasferimento delle donne dal carcere alla casa-rifugio – si fa portatore di un potere arbitrario sulle donne tentando di convincerle a “tornare sotto la protezione maschile”.

«La difficoltà nel debellare il fenomeno è dovuta alla refrattarietà dell’intero sistema valutativo dei reati, il quale esprime, attraverso i vari organismi coinvolti, forme reiterate di male guardianship, partendo dagli uomini della famiglia per giungere ai medici incaricati di sottoporre le donne a test di verginità e gravidanza, al personale carcerario e in ultimo ai giudici chiamati a esprimersi nei processi.» M. Tarantino – “La Giordania contemporanea tra cultura tribale e delitto d’onore” 

Questo focus fa parte della Campagna PID “Assorbire il cambiamento 2.0” – Un’iniziativa che prevede la donazione degli assorbenti in carcere, la realizzazione di laboratori e incontri all’interno di istituti penitenziari femminili e strutture di accoglienza per promuovere maggiore consapevolezza sul ciclo mestruale e sui “nuovi” prodotti igienico sanitari ecologici quali coppetta, slip e mutande assorbenti. Leggi di più qui.

Il tabù del femminile e l’interiorizzazione dello spirito abnegante

Tabù del femminile nelle piazze di oggi

Quattro giorni fa sulle testate italiane leggiamo che in piazza Municipio, a Napoli, accanto all’opera fallica di Gaetano Pesce, è comparsa una vulva provocatoria che ha avuto però vita breve. Rimossa prontamente dalle autorità, l’opera dell’artista Cristina Donati Meyer, ci ricorda ancora una volta la maggiore legittimità dell’esibizione pubblica della Grande bellezza del fallo rispetto a quella di una vulva che continua, tra le altre cose, ad essere erroneamente definita “vagina”. 

Certo, non si nega che l’opera di Donati Meyer non era stata autorizzata, tuttavia ci chiediamo, come ha fatto anche il team di PeriodOff: “Ma se un’artista chiedesse l’autorizzazione di una vagina gigante, quale amministrazione gliela concederebbe?”

Sul territorio italiano è letteralmente “visibile” il tabù del femminile: le statue e i monumenti eretti in memoria di personaggi e storie femminili sono 171. E poche di queste figure sono ricordate per altro oltre che per i meriti di sacrificio e di cura. Sono persone realmente esistite, personaggi letterari o leggendari, e rappresentazioni di collettività anonime, tutte situati in spazi pubblici come piazze, giardini e strade. Le rappresentazioni monumentali del femminile in Italia sono state individuate nel 2021 dal censimento e la ricerca portata avanti dall’associazione Mi Riconosci che potete consultare qui

 

All’ostentazione fallocentrica dell’essere maschio, corrisponde un’immagine del femminile che deve essere celata, se non espressa dalle prospettive del genere opposto. Lontana dagli occhi di chi attraversa le piazze ma allo stesso tempo proiettata sugli schermi come quella maga accattivante, quella sirena ammaliante che fa cadere ai suoi piedi ogni uomo e tremare di invidia ogni donna. La contrapposizione di genere maschile e femminile si gioca in tutte le cose che caratterizzano il nostro quotidiano, pensiamo banalmente alla dimensione domestica: per lungo tempo sede indiscussa del femminile, luogo-prigione in cui si relega il ruolo di tutrice, curatrice, dispensatrice di cibarie e affetto materno. La performatività del ruolo di genere prende il suo potenziale naturalizzante  dalla stessa capacità di essere ripetibile.

La ripetitività della performance di genere – parafrasando Judith Butler – fa sì che attraverso le parole, il sapere, le narrazioni, le pratiche e i rituali si reitera un tipo di atteggiamento in linea con il ruolo socialmente costruito di uomini e donne nei diversi gruppi culturali. 

 

I dualismi interiorizzati – del duro e del morbido, del forte e del debole, del pubblico e del privato, del razionale e dell’emotivo – possono essere rintracciati in altri contesti, nella ripetitività di un rituale che conferma – invertendole – le regole sociali associate ai comportamenti di genere.

Vediamo, ad esempio, la manifestazione di questa pratica performativa nel rituale naven osservato da Bateson tra il 1935 e il 1936 della popolazione Iatmul della Nuova Guinea. Un rituale incentrato sul “mostrarsi”, sul “dare a vedere” che consiste nello scambio dei ruoli tra il maschile e il femminile: gli uomini iatmul, travestiti da donne, inscenano una femminilità crudele e seducente in grado di suscitare quasi l’incesto; le donne iatmul, travestite da uomini, esasperano le gestualità maschili e le manifestazioni di orgoglio e fierezza dei guerrieri.

Il rituale naven si inserisce nel contesto di rito di passaggio dei giovani e permette agli appartenenti al gruppo di mostrarsi fieri o affettuosi uscendo dalle proprie categorie di genere in uno spazio e un tempo precisi, al di fuori dei quali, nella quotidianità, questo non è possibile. Non è possibile per un uomo iatmul esprimersi in atteggiamenti di affetto come non è possibile per una donna iatmul mostrarsi fiera. Ed è qui che entra in gioco il rituale naven: rende possibile una fuga momentanea dal proprio habitus e un ritorno che modifichi le tecniche incorporate per esprimere emozioni con nuove gestualità sulla scena sociale. 

«Attraverso un’esperienza corporea intensamente emozionale, determinata dall’assunzione di una diversa identità corporea, lo zio materno e la madre del giovane possono manifestare i loro sentimenti senza entrare in contrasto con il comportamento socialmente legato al proprio ruolo sessuale, e il giovane può riposizionarsi in termini affettivi nei confronti di entrambi.» – Giovanni Pizza, “Antropologia medica. Saperi, pratiche e politiche del corpo”

Interiorizzare una vocazione alla cura (del maschile)

Quando una persona con utero soffre di terribili crampi mestruali non trova che una rete ben consolidata al femminile che supportandola, sta lì a ricordarle che è naturale soffrire se si è donna* (*o appunto, se si ha un utero). La naturalizzazione di questa sofferenza insita nell’essere socializzate donne, oltre ad essere frutto di una costruzione socio-culturale – come non ci stancheremo mai di ricordare – è anche causa della parzialità della ricerca medico-scientifica sui corpi femminili

«Anche qui i rapporti di genere sono l’esempio più paradigmatico [della presenza di violenza strutturale]: gli uomini, in modo straordinariamente costante e trasversale a moltissime società, tendono a non sapere pressoché nulla della vita, del lavoro o delle prospettive delle donne, mentre le donne di solito sanno molto degli uomini – in effetti, sono tenute a farlo, dato che buona parte di quel lavoro interpretativo (se si può chiamare così) sembra ricadere sempre sulle donne – il che, a sua volta, spiega come mai di norma non è considerato affatto un “lavoro”». – David Graeber, “Le origini della rovina attuale”

Internet e i media, attraverso la loro specifica facoltà di connettere le persone e le loro storie, ci aiuta oggi a tenere assieme tutte le esperienze di violenza strutturale che colpiscono chi, ad esempio, recatasi dal medico per dolori cronici, deve superare le 7 fatiche d’Ercole e più per farsi riconoscere e diagnosticare l’endometriosi: perché alla fine se soffrire è naturale, quale altra risposta potrebbe dare un medico di fronte alla sofferenza femminile se non “sarà lo stress”?

 

L’oppressione storica che contraddistingue il femminile ha reso questa dimensione più accogliente, più accomodante e abnegante della controparte maschile che invece è naturalizzata al potere, al successo, al privilegio.

In condizione di pari difficoltà può succedere che sembrino le donne ad essere “più forti”, perché appunto più abituate a cavarsela in condizione subordinata. In realtà non è sempre così, né può essere vero per tutte le persone. Questo è chiaro, ma dobbiamo riconoscere le influenze culturali nella costruzione delle nostre identità che condizionano le nostre vite per intero

Così leggiamo anche nelle parole di Goliarda Sapienza, quando racconta di un giorno in cui la sua compagna di cella Roberta, dopo essersi incontrata con suo marito, torna incupita ragionando sui modi differenti con cui uomini e donne affrontano il carcere. 

« -Oggi, per esempio, mi metto questo vestito – l’ho fatto io, per dieci giorni ho lavorato… Ebbene lui s’incazza… “Come puoi avere testa a farti un vestito! Voi donne…” eccetera… Il fatto è, Goliarda, che noi donne reggiamo meglio il sistema carcerario. Certo, questo è possibile perché abbiamo un passato di coercizione e qui in fondo troviamo uno stato di cose che non ci è nuovo: il collegio, la famiglia, la casa… Sappiamo ancestralmente usare le mani, distrarci con mille lavoretti, e accetto anche – come lui dice – che sappiamo essere piú meschinamente furbe… Ma io aggiungo in risposta a lui, che mi si presenta sfessato da far pena, che noi sappiamo rendere creativa la giornata ora per ora, e non solo qui a Rebibbia che in fondo è un paradiso… Certo, il carcere a noi donne risveglia tutti i lati “femminili” che stiamo cercando di seppellire, il carcere forse ci vizia, ci fa regredire… Ne abbiamo parlato tanto con le compagne quando ero a Messina… Ma io dico: facciamo bene noi donne ad affossare tutte le “qualità” che i secoli di schiavaggio hanno sviluppato in noi? Dopo tanti anni di prigione, Goliarda, ti posso garantire che è un errore… Non bisogna dimenticare il nostro passato di schiave…» – Goliarda Sapienza, “L’università di Rebibbia”.

Roberta manifesta nei suoi pensieri quel ruolo interiorizzato di donna-sofferente (quindi più forte) e  ci comunica delle contraddizioni e delle negoziazioni con cui ci si confronta nel processo di decostruzione delle identità di genere

 

Questo focus fa parte della Campagna PID “Assorbire il cambiamento 2.0” – Un’iniziativa che prevede la donazione degli assorbenti in carcere, la realizzazione di laboratori e incontri all’interno di istituti penitenziari femminili e strutture di accoglienza per promuovere maggiore consapevolezza sul ciclo mestruale e sui “nuovi” prodotti igienico sanitari ecologici quali coppetta, slip e mutande assorbenti. Leggi di più qui

Assorbire il cambiamento 2.0

Una Campagna di raccolta assorbenti e slip mestruali per il carcere in occasione della Giornata Mondiale dell’Igiene Mestruale del 28 maggio

 

Il P.I.D. Pronto Intervento Disagio Onlus, lancia la Campagna Assorbire il cambiamento per raccogliere e donare assorbenti agli istituti penitenziari femminili e alle persone in esecuzione penale esterna ospiti all’interno di case famiglia.

L’iniziativa, iniziata tre anni fa con la collaborazione di diverse realtà del terzo settore romano, quest’anno prevede, oltre alla donazione, la realizzazione di laboratori e incontri all’interno di istituti femminili e strutture di accoglienza per promuovere maggiore consapevolezza sul ciclo mestruale e sui “nuovi” prodotti igienico sanitari ecologici quali coppetta, slip e mutande assorbenti.

 

Le donne sono una netta minoranza della popolazione detenuta, poco più del 4%, ma si confrontano con tutte le problematiche legate al sistema penitenziario, alle quali si aggiungono specifiche questioni accentuate dal fatto che la detenzione è pensata per un mondo al maschile che non prevede le diverse identità di genere. Negli standard internazionali, definiti dalle Nazioni Unite, per il trattamento delle donne detenute e le misure non detentive per le donne autrici di reato (Regole di Bangkok, luglio 2010), la salute mestruale è un requisito fondamentale che prevede la distribuzione gratuita di assorbenti. Nel nostro paese se ne occupa l’Amministrazione penitenziaria che però non garantisce le quantità necessarie di assorbenti in base alle singole esigenze, tantomeno la scelta di un modello o di una marca. Chi ha la possibilità economica li acquista attraverso il cosiddetto “sopravvitto”, una sorta di negozio interno all’Istituto Penitenziario, chi non ha possibilità economica deve adeguarsi alla fornitura prevista. Durante il primo anno della Campagna, il PID ha raccolto diverse testimonianze che confermano la mancanza di azioni volte a garantire e promuovere la dignità mestruale. 

 

Se lo scopo immediato della Campagna è portare un beneficio concreto alle persone recluse, quello a lungo termine è promuovere il cambiamento attraverso il coinvolgimento delle singole persone, della società civile organizzata e delle istituzioni, favorendo la conoscenza della reale condizione delle donne che vivono in carcere. Lo scorso anno, grazie a una notevole partecipazione della cittadinanza, abbiamo portato oltre 2000 assorbenti negli istituti penitenziari laziali e nelle strutture di accoglienza per persone detenute ed ex detenute. 

La raccolta inizia mercoledì 20 novembre 2024 e si conclude mercoledì 28 maggio 2025, per partecipare si possono donare assorbenti classici di qualsiasi marca e modello e gli slip assorbenti, mentre i tamponi in carcere non possono entrare

 

I materiali donati possono essere consegnati presso i seguenti punti di raccolta nei giorni e negli orari indicati:

  • Casa delle donne Lucha Y Siesta – il mercoledì e il giovedì dalle 11 alle 13.30. Via Lucio Sestio 10.
  • L’Archivio14 – il giovedì e il venerdì dalle 17 alle 19, il mercoledì anche la mattina dalle 10 alle 12. Via Lariana 14.

Se non si ha la possibilità di recarsi in uno dei precedenti punti di raccolta, i materiali possono essere spediti alla Sede legale della Cooperativa PID Onlus, all’indirizzo: Via Eugenio Torelli Viollier, 109 – 00157 Roma.

Tutti gli aggiornamenti relativi a nuovi eventuali punti di raccolta saranno condivisi sui canali social Facebook e Instagram dell’associazione.  Se si vuole organizzare un punto per la raccolta assorbenti scrivere a: massaroni.pidonlus@gmail.com.  

Incontri – Assorbire il cambiamento

ALESSIA

Assorbire il cambiamento è il progetto che abbiamo promosso quest’anno, ormai lo sapete bene. Dall’otto marzo al ventotto maggio abbiamo raccolto gli assorbenti per le persone detenute in carcere e nelle strutture di accoglienza. In questi mesi abbiamo incontrato le esperienze di alcuni vissuti di dentro, ne abbiamo parlato, siamo stat3 dentro le storie di chi ha dovuto gestire in una quotidianità ristretta le mestruazioni.

Ripercorrendo nella mia mente le loro voci, i loro sguardi, i loro sorrisi sarcastici, mi rendo conto della continuità di tutti i racconti: gli assorbenti in carcere servono, quando arrivano non sono sufficienti, non sono per tutt3, non c’è possibilità di scelta

Chi lavora sì, chi ha una famiglia che può sostenerl3 va bene, chi trova la solidarietà del coabitare, in qualche modo le mestruazioni vengono gestite. 

L’obiettivo di “Assorbire il cambiamento” non è mai stato solo quello di donare assorbenti usa e getta o lavabili, come abbiamo detto più volte volevamo incontrare le persone: consegnare il materiale, ascoltare le loro esigenze, costruire insieme dei “laboratori” per parlare di ciclo abbattendo i tabù e presentare – grazie alla collaborazione con Camilla (Laboratorio sostenibile) – quei dispositivi lavabili e riutilizzabili che possono portare vantaggi economici, igienici ed ecologici importanti. 

 

Ora è arrivata la parte che preferisco, quella dell’incontro appunto. 

Incontro a Casa di Leda

Mercoledì io e Camilla siamo state a Casa di Leda, vi racconto un po’ com’è andata.

All’inizio, come succede quando guardi per la prima volta visi nuovi, siamo state sommerse dagli sguardi. Sguardi curiosi, diffidenti, infiltranti. Sono ormai due anni che percepisco quegli sguardi penetranti e non credo di saper spiegare bene cosa si provi nel’accoglierli, restano dentro. Cercano di indagarti. Sanno chi rappresenti, vogliono capire chi sei.

Ci accomodiamo in una stanza ricca di giochi per bambin3, c’è una tenda, dei libri, delle sedioline e un grosso tavolo. Con l’operatrice della struttura sistemiamo le sedie: mettersi in semicerchio è sempre una buona idea per guardarci in faccia e continuare quel gioco di sguardi. Arrivano una alla volta le donne di Casa di Leda e una bambina che ha da poco esperito il suo primo menarca. Questo forse, pensiamo con Camilla, lo renderà ancora più importante per qualcuno. Io da piccola mica ho avuto la possibilità di stare in una stanza a parlare di ciclo con sconosciute! Superato l’imbarazzo, sarà sicuramente interessante. O almeno questa è la speranza. 

Ci presentiamo, iniziamo a parlare e come sempre accade quando si ha un’idea, una “scaletta” di argomenti da trattare, la curiosità del momento ha spostato tutte le attenzioni sulla bustina blu di stoffa contenente gli assorbenti lavabili di Laboratorio sostenibile

Così Camilla ha iniziato a spiegare come sono fatti, quando e come vanno lavati, quanto possono durare, diciamo tutte quelle informazioni di cui abbiamo scritto qualche articolo fa: “Le mutande assorbenti e il carcere”.

Diventa subito facile parlare di qualcosa che va oltre i confini delle nazionalità, delle appartenenze culturali, dei differenti gruppi sociali, quando si condivide nell’immediatezza dei corpi la ciclicità fisiologica del sanguinare. 

 

Assorbire il cambiamento – gli assorbenti lavabili in carcere è una soluzione possibile?

Nonostante l’entusiamo ricevuto per gli assorbenti lavabili – se non da tutte almeno da 4 persone su 5 – alla domanda “In carcere può funzionare secondo voi?”, la risposta è arrivata all’unisono: no! Si è ragionato come anche negli altri incontri, sulla questione economico-logistica, per cui sarebbe certo una soluzione a lungo termine del problema quella di avere a disposizione sempre i propri assorbenti lavabili (che durano in media 5 anni!). Cosa non può funzionare? Il lavaggio e l’asciugatura.  

«Non si asciuga manco ‘na maglia, figurate questo che è doppio» ha detto S

«10 anni fa si potevano mette fuori i panni adesso no» ha continuato G

Mentre spiegavo meglio il progetto di Assorbire il cambiamento sono stata interrotta al “la maggior parte degli assorbenti li portiamo in carcere…”.

«E fate bene, veramente, perché ce n’è bisogno in carcere» ha affermato E, mentre le altre annuivano e confermavano quel che cerchiamo di far emergere da mesi. 

Perché secondo le loro esperienze, in linea con le altre già raccolte di Maria, Rosaria e Sonia, gli assorbenti in carcere non arrivano sempre e quando arrivano sono pochi. Pensiamo di vivere il nostro ciclo con un pacco al mese, con tre rotoli di cartigienica e senza bidet! E ci ha raccontato che quando è entrata aveva le mestruazioni, non aveva assorbenti con sé e ha dovuto arrangiarsi

«Ho preso il lenzuolo e l’ho strappato poi ho fatto così e via» – mimando il posizionamento del lenzuolo tra le gambe. Ti tieni gli assorbenti fino a quando reggono, anche l’estate quando il materiale, con il sudore e il sangue in eccesso irrita la pelle. Devi farlo per usarne il meno possibile. Certo che se ti finiscono puoi sempre chiedere a chi ne ha di più, l’altra sa che la prossima volta avrà un assorbente da te; alcune magari li vendono ma «Devi essere proprio str**za per vendere l’assorbente a un’altra mamma» ha concluso E

Sul bidet la questione è sempre la stessa, diverse le carceri, diverse le sezioni, diverse le disponibilità. Quindi in alcune è presente, in altre no. 

D ha spiegato: «Nel carcere di *** alla sezione con i figli, dove c’è l’asilo tutto, c’è il bagno in camera e hai tutto, nell’altra ci sono le docce tutte insieme».

G ha poi commentato ridendo «Tanto la metà non si lava quindi non è un problema».